Se hai frequentato un dojo, potrebbero guidarti con una benda sugli occhi nella sala dove si trova il tatami e tu sapresti che è lì perché l’aria ne è impregnata. Quando poi ci sali sopra, rigorosamente scalzo, ancora prima della frescura sotto la pianta dei piedi, senti quell’odore inconfondibile, stratificazioni difficili da separare che pure conservano una loro identità. L’odore mai completamente rimosso di altri piedi che lo hanno calpestato, quello del rivestimento di gomma e del disinfettante con cui è stato pulito, a volte assai fastidioso se hanno usato la varechina.
Ma c’è un fondo a tutto questo, l’anima stessa dell’odore: l’aroma leggermente ammuffito dell’imbottitura di gommapiuma rigida che poggia sul pavimento. Una volta c’erano tatami riempiti con la paglia di riso e risultavano di una durezza marziale quando ci cadevi sopra. Dovevi farci l’abitudine, ma le prime volte non potevi credere che fosse così doloroso cadere e che tu avessi scelto di farlo di proposito su un tappeto del genere. Rialzandoti, l’odore della paglia di riso si mischiava a quello del tuo sudore dentro il kimono, e a volte poteva capitare di sentirti un guerriero ferito in cerca della sua rivincita.
Non è usuale che sul tatami si vedano gocce di sangue, perché la regola aurea delle arti marziali è di non ferirsi, mai. Non sto parlando di gabbie disumane dove i combattenti si tirano calci e colpi proibiti e dove la fine del match è decretata dallo strangolamento dell’avversario. Quella roba da fanatici sanguinari non ha nulla a che fare con un tatami che si rispetti. Se accade che accidentalmente qualcuno si ferisca un dito del piede nell’intersezione tra un elemento del tatami e l’altro, o che un’unghia non tagliata con la cura necessaria graffi te o il tuo antagonista, allora la pratica, Judo, Aikido, Karate, Taekwondo, o altro che sia, viene interrotta e il tatami viene subito pulito.
In un dojo le regole sono estremamente chiare, non si può barare. La forza ha un valore relativo rispetto all’agilità e alla concentrazione. La lealtà nel combattimento non è in discussione. A meno che anche questo rettangolo, immune dai disordini della brutale violenza di strada, questo universo immaginario in cui il combattimento finisce sempre con un inchino reciproco, non venga inquinato da sordidi interessi, dallo sgorbio del potere, l’intruso per eccellenza, il vigliacco che sul tatami non avrebbe mai avuto il permesso di salire. Il tatami è un luogo nel quale ci si confronta con rispetto. Il più forte sa di esserlo e non ne approfitta per sminuire un allievo, è consapevole di quanto la forza sia un concetto relativo e che un giorno potrebbe trovarsi nella sua stessa posizione. Quindi usa l’arte, marziale appunto, per farlo progredire e non per stenderlo al tappeto.
Le circostanze cambiano relativamente in un contesto agonistico, in una competizione olimpica, ma il combattimento termina sempre con un inchino, proprio per ricordare qual è lo spirito che vigila sul tatami. Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi sono, rispettivamente, un regista israeliano e una regista iraniana. Hanno firmato insieme un film con questo titolo. Ed è un fatto singolare solo perché la storia recente ci ha abituati a pensare che la loro collaborazione sia ostacolata, inconsueta e scabrosa. La collaborazione di due potenziali nemici, abbastanza intelligenti ed evoluti da defilarsi dalla politica dei loro governi. Gente libera, insomma, che vede l’arte e il cinema in questo caso, come uno strumento educativo. Si potrebbe dire che è il loro film s’interroga sul senso della lealtà, non solo sportiva, che già sarebbe tanto di questi tempi, ma anche umana e quindi, necessariamente, politica.
Le criminali ingerenze di un potere esterno, un potere che non contempla il dissenso e che imprigiona e condanna a morte chi vi si oppone, sono gli avversari invisibili contro cui la judoista iraniana Leila e la sua allenatrice Maryam si trovano a combattere quando scocca l’ora del campionato mondiale da disputare in Georgia.
Leila dimostra di saperci fare sul serio superando una dopo l’altra avversarie di vari paesi, inclusa la campionessa in carica, una brasiliana tosta e serpentina come un cobra. Puntuale, arriva l’ultimatum da parte della Repubblica Islamica. Il Paese per il quale Leila sta combattendo su quel grande tatami, il suo Paese, le ordina in modo netto e senza discussioni di perdere. Deve inventarsi un malore e perdere per non affrontare in un’eventuale finale la judoista israeliana, ritenuta il simbolo del nemico occupante. Se non lo farà, le armi del ricatto sono già pronte e i suoi familiari pagheranno per lei.
A Maryam, quando era ancora una giovane campionessa, è già capitato di dover cedere al ricatto, segretamente, in silenzio, rimettendoci anche la sua integrità di persona. Sa cosa significherebbe dire, no! Per questo è incline a far accettare l’ultimatum a Leila, la judoista in cui si rivede. Che altro può fare, visto che lei stessa è sotto minaccia se non la convincerà a rinunciare.
La combine che la ragion di stato esige dietro le quinte della competizione sportiva non è una novità, ce ne sono esempi di tutti i tipi, con livelli diversi di abiezione e pericolosità. Come dimenticare gli atleti super dopati dell’U.R.S.S. e della Germania Est, i record delle repubbliche socialiste che gonfiavano i loro muscoli ai giochi olimpici come per dire: guardate quanto siamo forti. Ma gettare fango su un tatami è come spargere pattume sui giardini dell’Alhambra.
Un inquinamento virale che finisce per contagiare l’amicizia tra l’atleta e la sua allenatrice quando Leila decide di non piegarsi e di continuare a combattere, avvicinandosi pericolosamente alla finale. Ormai è isolata da tutta la squadra iraniana, che è al corrente del suo ammutinamento. Una ribellione contro l’intrigo, sempre più stringente, sempre più a ridosso dei suoi familiari, il padre, il marito, il figlioletto che ha seguito le sue gare in televisione e fatto il tifo per lei. Adesso, per l’ostinazione di sua madre, viene imbacuccato in fretta e trascinato dal padre in una fuga oltre confine.
Non è un caso se Leila si ferisce la fronte picchiandola forte contro lo specchio degli spogliatoi al quale ha chiesto invano una risposta. Le è sembrato l’unico modo per far uscire dalla testa il vortice dei pensieri che non smette di tormentarla. Da quel taglio ancora fresco, disinfettato in fretta prima di buttarsi nel quarto di finale, cola il sangue dell’ultima sfida. E macchia il tatami. Per pulirlo e ristabilire la sua estraneità alla violenza del mondo che sta fuori, il combattimento contro la campionessa georgiana viene interrotto.
Bisogna prima suturare la ferita di Leila, un segno di allarme, un grido di aiuto che viene in qualche modo raccolto dagli organizzatori del mondiale, il ruolo che idealmente assegneremmo alle Nazioni Unite se non avessero sempre dei veti a imbrigliarle. Alla fine, le offrono l’unica soluzione possibile. Ma l’esilio può davvero essere la soluzione per gli oppositori di quel regime paranoide e di tutti gli altri stati che si attribuiscono la missione divina di sopprimere con il terrore questo pianeta?
Nel 1949, Robert Wise firmava uno splendido film, anche quello in bianco e nero, sul pugilato e sugli oscuri corridoi in cui si truccano i combattimenti. Delinquenti con sigari e cappotti di marca, la grande tradizione del cinema americano in cui il pugile protagonista perde ai punti, ma resta in piedi, alla faccia degli scommettitori che hanno puntato sul suo knockout.
Stasera ho vinto anch’io era il titolo italiano dell’originale più sintetico ed esplicito, The Set-Up, la combine, l’arrangiamento, l’imbroglio. Anche quella storia è crudele. I galantuomini, per vendicarsi del pugile disobbediente, danno l’ordine ai loro scagnozzi di fracassargli la mano destra con un mattone, così che non possa più tornare alla boxe. Eppure, il finale concedeva la possibilità di un riscatto, la prospettiva di una rivincita dignitosa sul terreno della vita, non la fuga in un paese straniero di accoglienza. Era questa la forza del cinema di quegli anni, e i boss infagottati, dai modi spicci e cafoni, non avevano la possanza disarmante di un regime capace d’infiltrarsi nei vasi sanguigni delle persone, ricattandole sulla pelle di familiari e congiunti. Non erano partite truccate di Sistema, al massimo imbrogli periferici dell’esistenza, microcosmi che non comunicavano un senso d’impotenza così profondo. Quanto meno lasciavano la speranza che il mondo avesse ancora la possibilità di riscattarsi e di diventare migliore.