Il fuoco setaccerà tutto e tutto scenderà a prendere
(Eraclito, frammento A90, Giorgio Colli, La sapienza greca, III)
Quando la citazione lascia spazio al vero filosofare. Per frammenti. Poco più di cento brevi frasi o lacerti di frasi, quasi sempre evocate da altri filosofi, anche cristiani. Ecco cosa ci resta di Eraclito. Ci basta. Perle preziose. Nessuno sembra poter far a meno di richiamare il filosofo più enigmatico e affascinante, Eraclito, la “gloria di Hera”, l’Heracle dei filosofi. La poesia che si fa sapienza e la sapienza per parla per immagini, per enigmi e paradossi, come un vaticinio. Hera è la Natura, di cui Eraclito è amico e filosofo. Un “filosofo del fuoco”.
Come Eraclito anche Pietro nelle sue evangeliche Lettere richiama il Fuoco escatologico, finale, che consumerà gli elementi, cieli compresi. E il frammento eracliteo allora diventa novello oracolo, oggetto di culto. Anche oltre il contesto della sua evocazione letteraria e testuale. L’ambiguità feconda della Sibilla, il ritmo convincente della Pizia tornano in una Delfi una e unita.
Nessuno come Eraclito mostra e svela con efficacia l’unità dialettica di Apollo/Dioniso, cioè Giorno/Notte, Vita/Morte, unico Aiòn come insegna il maestro nei frammenti 3 e 26. Nel muoversi incessante degli elementi il nostro saggio vede in immediatezza intuitiva l’unità. L’Uno nel molteplice, processo dialettico e vitale che tiene in un cerchio l’unità e la totalità quali polarità complementari. Il “singolo” fenomeno ai suoi occhi appare sempre nella sua essenza quale fase, anello, momento di un processo più ampio, circolare. Al centro le immagini dell’Archè: guerra, fuoco, sole, folgore (fr.19, 82, 87, 89).
Se Dioniso corrisponde ad Ade la notte non è che transizione del movimento del sole e il sole stesso appare simbolo vivo del rinnovarsi perenne delle cose. Eraclito viene visto dagli antichi senza alcuna contraddizione come colui che esalta la sapienza di Apollo e della sua Pizia e pure come colui che insegna rivolgendosi agli iniziati notturni di Dioniso (fr.1, 2, 59,60,83) Il nexus (xynon) è dato appunto dalla concatenazione di una danza, di un vortice che il nostro saggio visualizza anche con la bella immagine sacrificale di differenti spezie gettate nel medesimo fuoco e anche con l’immagine icastica del torchio, che muove tanto linearmente quanto in senso curvo (fr. 91, 28,33). Il nesso è sia centro che circonferenza. Il concetto-immagine del cerchio torna più volte nel suo pensiero proprio quale coincidentia oppositorum : movimento e fissità, allontanamento e ritorno, irradiazione e riassorbimento (fr.12-14). Sinusoide fra movimenti alternati di una medesima immensa spirale.
Filosofo della relazione, dello scambio, dove è il fuoco quale principio qualitativo e animatore il medium eterico, maieutico, trasformativo (fr. 30). Proprio dentro questo cosmocentrismo dinamico c’è la misura, l’equilibrio superiore. Anche Orazio nelle Satire lo insegnava: est modus in rebus. Filosofare per Eraclito corrisponde ad un movimento paradossale, eroico, divinizzante: dividere l’anima dell’umido, cogliere in esperienza diretta l’uno nel tutto, perché uno è tutto (fr.3, 27). E come il fuoco è l’alfa e l’omega così l’anima sapiente è l’anima secca, ignea, che supera le mortifere acque del divenire superficiale (fr.44,49,51).
La conoscenza quale penetrazione e distacco, unione e divisione. Saggio paradosso che pone il filosofo tanto al di sopra del mondo quanto dentro il centro del mondo. La conoscenza quale scissione salutare e lucida tra l’apparenza: il divenire quale dis-armonia, e l’essenza: il reale permanere di una “Natura naturante” (fr. 9, 17), unico Nomos divino (fr. 11). Ecco allora emergere alcune magnifiche immagini di un’unità aionica tra conoscere e vivere: il fanciullo che gioca a tessere, il “governare le cose tramite le cose”, Polemos padre di tutto (fr.18,19,73). E da Polemos escono dei, uomini, schiavi. L’apollineo conoscere se stessi è il rientrare nel vortice magmatico di Kaos-Polemos-Eris, cioè l’Origine (fr.5,7,37,41).
Il “filosofare per metafora” proprio di Eraclito raggiunge a mio parere l’apice di una bellezza estetico-etica piena nell’utilizzo sapienziale delle immagini apollinee dell’arco e della cetra. L’arco allora era spesso costruito a partire dal legno di una pianta tossica: il tasso, da cui uno dei due nomi dell’arma: toxon. L’altro nome dell’arco era il nome della vita fisica: bios. Ecco allora che Eraclito ne approfitta per congiungere linguaggio, semantica ed ermeneutica nell’immagine dell’arco (idem per la cetra) quale congiunzione di opposti e paradosso vivente dove vita e morte si scambiano di ruolo come la distanza e il vuoto sono condizioni e matrici di suono e volo (fr.4,8). La tensione oppositiva delle corde porta la curva in tensione verso il centro come verso il cerchio. Ecco la sapienza eraclitea dell’arco di Apollo (fr.33).
Eraclito rifiuta il conoscere quale violenza come la religione quale falsità idolica, altra forma di inutile violenza (fr.21, B5). La sapienza è una conoscenza diretta, esperienziale, un divino “annusare” le esalazioni, come immediato e identico a se stesso è il fuoco, e nel contempo è un “andare oltre”, una purificazione spirituale e vitale. Per Eraclito conoscere è essere saggi, praticare il vero cioè l’essenziale, ovvero pensare e agire katà physis, secondo natura (fr. 15, 17, 24, 61). Lo “scindere” proprio della conoscenza riguarda solo il “mescolato” proprio del fenomeno, come il cicerone di Eleusi che decantando si separa nei suoi componenti, e non si riduce mai ad un analizzare distruttivo, come la scienza prostituzionale e necrofila odierna, ma tende sempre ad una ricomposizione superiore ed unitaria (fr. 6, 63), a svelare l’essere delle cose (fr. 9, 14,15).
Conoscere è appunto cogliere le “sinapsi” tra tutto e non-tutto (fr.11,27). Il Mito di Ananke, dea reticolare e ciclica, resta vivo nel suo pensiero. La natura infatti si nasconde e un’armonia occulta svolge il divenire manifesto (fr.20,92). Distaccandoci dal dis-accordo cogliamo la saggezza (fr.17), l’illuminazione folgorante, perché la notte è solo assenza di sole (fr.25). La genialità paradossale dell’eroe-poeta di Efeso raggiunge alti livelli quando inverte l’apparenza veglia/sonno per cui i “desti” sono “i morti” e i dormienti sono i saggi e i viventi in quanto artefici di mondi e guardiani della propria singolarità (fr.32, 96, 99) così come il nascere è morire, è distaccarsi dell’Uno/Tutto e il morire nascere, tornando nell’Uno/Tutto. Il Sonno-Sogno quale metafora dell’occulto creativo.
Eraclito può essere visto, apollineamente, anche quale “filosofo della misura”, adepto di Dike, riconoscendo egli che lo stesso Zeus e lo stesso Helios hanno dei confini, non potendo contraddire il loro logos, come gli astri il loro specifico corso (fr. 80, 81,118). Una misura che è medium processuale, dentro e fuori l’Uomo, “metodos”, cioè Via. L’esistente quale processo avanza per scissioni e ricomposizioni che seguono comunque una loro logica, dimensione di Sapienza e d’Eros, come a tendere una corda fra polarità di auto-evidenza e auto-riconoscimento (fr.122,123).
Un pensare oceanico e animico (fr.137). A noi resta giocare con il fanciullo senza tempo di Eraclito. Giocare con i suoi frammenti come i pezzi degli scacchi, come i dadi da gioco, affinchè si illuminino reciprocamente. Scuoterli come l’egida e scagliarli senza pensare. Ossi di sciamano sotto la tenda.