15 - dicembre -2022
Non so ancora se partirò.
In effetti è la prima volta che scrivo di un viaggio che devo ancora fare, ricco di aspettative e di incognite come ogni vera avventura e che dovrebbe inaugurare per me una nuova stagione di grandi viaggi che la pandemia aveva sospeso per due lunghi anni. Una delle incognite riguarda proprio questa infame sciagura che ha colpito il mondo intero, sbucando dall’ inferno o forse, come molti sostengono, da qualche laboratorio. Infatti il Covid, non ha ancora finito di attossicare le nostre vite e proprio ora una nuova variante sta tornando a rialzare il numero dei contagi e, come abbiamo già visto, la situazione può inasprirsi rapidamente causando nuove chiusure.
Dovrei tornare in Oriente, in Indonesia, non lontano da Sulawesi dove, quasi trent’anni fa, posai il mio primo sguardo su quelle terre e ora la mia meta è Raja Ampat che vuol dire i quattro Re, un meraviglioso arcipelago incantato tra Celebes, le Molucche e la Nuova Guinea. Un altro problema è che per avere il permesso di partire si deve scaricare una applicazione del governo indonesiano, con un nome impronunciabile, che attesti il ciclo completo di vaccinazione antiCovid, i requisiti della quale pare siano difficili da soddisfare e tutti i siti “ufficiali”, compreso quello della Farnesina, asseriscono tassativamente che non completare questo passaggio fa correre il rischio di non partire o peggio di rimanere bloccati magari all’arrivo a Giakarta.
22 - dicembre - 2022 Alla fine tutto è arrivato, non ci sono state chiusure e, completate le formalità, partirò come programmato il 26 dicembre con un volo della Katar via Doha e un volo interno che mi porterà, dopo due giorni di viaggio estenuanti, a Sorong, nella parte indonesiana della Nuova Guinea. Da lì, via mare, nell’arcipelago di Raja Ampat.
29 Dicembre 2022 Ci sono, sono atterrato nel sogno. Dopo un viaggio tranquillo, dopo aver constatato la totale inutilità di tutti quegli allarmi per la farraginosa procedura anticovid che ovviamente alla dogana indonesiana nessuno ha controllato, e dopo aver constatato che, strano a dirsi, nonostante le mie paranoie gli aerei stanno su, sono arrivato a destinazione. Generalmente la gente viaggia per rilassarsi giacché sembra che la maggior parte di persone sia estremamente stressata nel proprio quotidiano lavorativo o familiare, per cui è disposta a tutto pur di fuggire da una routine evidentemente logorante quindi, alla fine, non nutre particolari aspettative riguardo al luogo ove intende recarsi, purché magari sia caldo, esotico e lontano in modo da avere qualcosa da raccontare ad altri infelici come loro.
Io invece non fuggo da nulla. La mia vita è soddisfacente ed appagante e le motivazioni che mi portano a viaggiare sono ben altre, molto più cogenti ed impegnative ed essenzialmente riconducibili alla ricerca di luoghi in cui la bellezza del mondo possa ancora svelarsi nella sua integrità e perfezione. Questa però è una stupida e ingenua pretesa in questo tempo in cui non vi è più nulla di integro e perfetto. E proprio queste isole, che ad un primo sguardo sembrerebbero pienamente soddisfare tali requisiti, mi stanno deludendo da questo punto di vista, poiché è desolante constatare che anche qua, in uno dei luoghi più remoti ed irraggiungibili del pianeta, in cui è minima la presenza umana, la nostra sudicia impronta è arrivata in maniera così impattante. Perché queste isole sono in effetti meravigliose e selvagge, quasi disabitate, tuttavia per cause locali o più probabilmente generali, sono letteralmente inondate di rifiuti galleggianti, in particolare manufatti di plastica di ogni foggia e dimensione.
Sono partito con una compagnia di viaggi nota per essere piuttosto avventurosa e spartana, che è esattamente come amo viaggiare, e infatti le sistemazioni e gli alloggi, tutti comunque collocati in luoghi spettacolari, sono assai essenziali e, in qualche caso, perfino troppo. Ma tutto questo non sarebbe nulla se queste isole fossero come ingenuamente mi ero aspettato. Invece no, e ben mi sta perché in fondo lo sapevo, infatti già 30 anni fa, a Sulawesi, cominciavo ad intravvedere una simile deriva ma forse la giovinezza, l’entusiasmo e la minore entità del fenomeno non ebbero su di me un effetto così deprimente. È veramente da idioti aspettarsi qualcosa di diverso in un formicaio di otto miliardi di cialtroni, me compreso, che pretendono di vivere consumando liberamente quantità mostruose di energia e di prodotti ad elevatissimo impatto ambientale e che poi vorrebbero che tale blasfemia non ricadesse loro addosso sotto forma di rifiuti galleggianti o peggio. Almeno quelli li vedi. Sarebbe come gettare continuamente per decenni lo sporco sotto i mobili e il tappeto e poi stupirsi scoprendo di avere una casa lurida.
Il nostro primo soggiorno è Manyafun, un’isola selvaggia e bellissima dove qualche anno fa un subacqueo è stato ammazzato e mangiato da un coccodrillo marino. Sono gli stessi salt water crocodile che in Australia infestano il nord e in particolare la penisola di Darwin. Questa notizia, che ho reperito in un sito per subacquei cercando di informarmi sui fondali di Raja Ampat, non l’ho comunicata ai miei compagni di viaggio, sarebbe stato inutile. Avrei sollevato solo qualche sardonico sorrisetto e poi nessuno avrebbe rinunciato al viaggio per questo, inoltre confido di chiedere ragguagli a chi, di volta in volta, ci guiderà nelle escursioni.
Domani andremo a visitare un’isola che dovrebbe essere il “climax” del viaggio, il luogo più iconico ed osannato dell’arcipelago che dista, da dove mi trovo ora, non meno di 25 miglia di mare aperto da affrontare con barchini dotati di fuoribordo da 40 cavalli senza alcun requisito o dotazione di sicurezza. Chissà se vedrò anche là tutti quei rifiuti spiaggiati, forse no, speriamo. La mattina seguente partiamo, per fortuna le barche sono due, il mare dovrebbe essere calmo e i barcaioli sembrano sapere il fatto loro anche se, come tutta questa popolazione di meticci con alta percentuale di sangue papuasiano, sono piuttosto faciloni e comunque navigano a vista.
E la cosa bella è che sono l’unico del gruppo ad avere qualche comprensibile timore, perché il resto della compagnia, compreso il coordinatore, così si chiama il leader in questa nota organizzazione di viaggi, sembra vantare un noncurante fatalismo, citando all’occorrenza un beffardo “ne ho fatte ben di peggio!”. Wajag si chiama l’isola più iconica dell’arcipelago di Raja Ampat, una delle più fotografate al mondo, e dopo 3 ore di navigazione delirante, ricoprendo una distanza pari alla larghezza dell’Adriatico nel suo punto più stretto, con due bagnarole aperte guidate a vista da ragazzetti che ovviamente non parlano una parola di inglese, arriviamo in una laguna interna effettivamente spettacolare, aprendoci però letteralmente la strada tra rifiuti galleggianti. Intanto veniamo superati da motoscafi chiusi che ci sfrecciano a fianco mentre gli equipaggi ci indicano sghignazzando.
Arriviamo ad un piccolo molo dove i motoscafi di cui sopra, ovviamene giunti prima di noi, vomitano dalla sentina il loro contenuto umano che deve effettuare la salita sulla cima di un cocuzzolo tipo pan di zucchero, che domina la spettacolare laguna costellata di altre simili formazioni rocciose. Questi pinnacoli sono assai ripidi e il calcare di cui sono costituiti, sottoposto all’ erosione incessante delle piogge tropicali, si è dilavato in una serie di lame di pietra micidiali e scivolosissime dove improbabili appigli e corde bisunte aiutano obesi e traballanti turisti, molti in sandali infradito, a salire fino alla cima da cui, tra schiamazzi e canti improvvisati, si gode effettivamente una vista mozzafiato. Una visione paradisiaca, quasi ultraterrena di formazioni rocciose perfettamente coniche, le più grandi alte anche un centinaio di metri, ricoperte di una fittissima foresta che si innalzano in formazioni dalle bizzarre geometrie da un mare dai colori fluorescenti, che abbraccia tutta la gamma dei blu fino a trascolorare in un celeste quasi bianco quando immacolati banchi di sabbia corallina si raccolgono alla base di alcune di quelle fantastiche formazioni rocciose.
Alla fine si scende, lentamente, in cordata come dall’ Everest, con alcuni turisti bloccati da attacchi di panico che ci rallentano sotto un sole micidiale. Il ritorno è stato più breve con un mare quasi piatto e dopo una sosta in una spiaggia paradisiaca con grossi squali pinna nera che vengono a mangiare attirati dai ranger che li richiamano pasturando con pezzi di pesce in meno di un metro di acqua, arriviamo nei bungalow appena in tempo per evitare un violento temporale tropicale con raffiche di vento e scrosci d’ acqua a visibilità zero per almeno mezz’ora. Mi domando cosa avrebbero fatto i personaggi che guidavano le nostre barche fumando allegramente tra le taniche di benzina, se avessimo beccato in navigazione un fortunale del genere, e soprattutto cosa avrebbero fatto i miei simpatici e baldanzosi compagni di viaggio che ostentano una così incrollabile sicumera su quei gusci di noce guidati a vista quando la vista non ci fosse più.
Forse i loro risolini si sarebbero trasformati in qualcosa di diverso. La meta successiva sarà un isolotto corallino, quasi un atollo, che si chiama Arborek, anche qui un paradiso tropicale assediato da rifiuti galleggianti e spiaggiati. Attorno all’ isola un mare bellissimo con una profusione di coralli incredibile e in questi tempi oramai rara perché il cambiamento climatico, lo tsunami del 2004 e la capillare antropizzazione delle coste hanno distrutto la maggior parte delle barriere coralline del mondo. E così le giornate si susseguono tra luoghi meravigliosi di una bellezza difficilmente concepibile, e un altrettanto inconcepibile inquinamento galleggiante che insudicia mare e spiagge. O forse no. C’era da aspettarselo purtroppo. Lo stridore, il lancinante effetto che questa oscena stonatura genera su di me sarà, temo, incancellabile. È la prova tangibile che oramai non si salva più nulla dalla nostra dissennata, ebete opera di abbrutimento del mondo, nessun luogo è più indenne dalla sudicia scia dell’uomo che come uno stupido bambino con il moccio al naso e gli occhi cisposi, getta il suo vecchio gioco dismesso dalla finestra per poi ritrovarselo per sempre, calcinato e catramato, a galleggiare nel suo splendido giardino.
Dopo un viaggio di ritorno se possibile ancora più sfinente di quello di andata sono tornato a casa. Ora, a distanza di qualche giorno, ripreso il piacevole, narcotico ritmo della vita quotidiana, riguardo le foto e i filmati delle spiagge meravigliose, delle foreste impenetrabili e dei fondali meravigliosi e, nel gelo nebbioso di una serata padana, mi assale una stretta al cuore di nostalgia per quel mare, quel cielo e, devo dire, anche per la simpatia e l’incrollabile allegria dei miei compagni di viaggio, preziosa in alcuni momenti piuttosto ruvidi di quello che, scotomizzando qualcosa, è stato un vero, grande bellissimo viaggio.