Torquato Tasso descrisse Vespasiano Gonzaga, il duca di Sabbioneta, come "Signore di bello e ricco Stato, ma d'animo, di valore, di prudenza, d'intelletto superiore alla sua propria fortuna e degno di essere paragonato co' maggiori e più gloriosi principi de' secoli passati". Niente male come ritratto, ma il Tasso non si staccò poi tanto dalla verità storica di questo personaggio eccezionale, vissuto nel cuore del nostro Rinascimento, anche se, come vedremo, non mancarono, anche per un uomo così illustre, delle ombre legati agli omicidi delle prime due mogli e, addirittura, del figlio.
Uomo d'arme, come tutti i Gonzaga, coraggioso e scaltro ogni dire, Vespasiano era anche un uomo dotto: amava i libri, la letteratura e in special modo la poesia; spesso si dilettava egli stesso nell'arte del sonetto con una certa eleganza e capacità letteraria. Amava, inoltre, l'architettura, particolarmente quella militare fatta di formidabili fortezze e l'arte del buon governo, infatti, era un ottimo legislatore e saggio imprenditore. Lasciò ai posteri la meraviglia di Sabbioneta, un borgo nebbioso della bassa padana tra il fiume Oglio e il Po, trasformato in trentacinque anni di lavori in una "piccola Atene", tra gente che aveva a quei tempi altro a cui pensare che all'arte o alla cultura in genere, eppure, un bel giorno, quelle povere case diventarono la capitale fastosa di un piccolissimo Stato, ma di uno dei duchi più famosi dell'epoca. Cerchiamo, allora di conoscere meglio il personaggio e la sua ascesa tra i grandi dell'epoca.
L'infanzia
Nel 1532, durante l'assedio di Vicovaro, vicino Roma, moriva Luigi Gonzaga, detto Rodomonte, personaggio epico dell'Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, guerriero valoroso dotato di eccezionale forza fisica e di coraggio temerario, ma di natura rozza e violenta, dati a cui sembra corrispondesse perfettamente il Gonzaga. Il giovane duca, aveva appena trentadue anni, si trovava nel paesino laziale per combattere l'abate dell'abbazia di Farfa, Napoleone Orsini, ribelle al Papa. Dopo aspra battaglia, il 30 novembre, entra vittorioso nella cittadina, ma, purtroppo per lui, non tutti si erano arresi. Una pallottola sparata da un archibugio lo colpisce alla spalla sinistra che per una complicazione dovuta a un' infezione, lo porterà alla morte in breve tempo. Davanti a questa tragica morte, un poeta anonimo attribuisce al "crudel Orsin" l'"affocata palla" che sorprende il "cavaliere ardito".
L'erede designato è il figlio Vespasiano, nato appena un anno prima, nel 1531, da Isabella Colonna contessa di Fondi, il quale entrò in possesso, alla morte del padre, di una piccola eredità territoriale composta da paesi come Bozzolo, Rivalta e Sabbioneta, quando quest'ultima era ancora lontana dal divenire il gioiello rinascimentale per cultura, arte e buon governo che ancor oggi conosciamo. Cresciuto nella dura scuola militare del re di Spagna Carlo V, ben presto il giovane si fa conoscere in tutte le corti europee per il suo valore. Protetto dal Papa, dall'imperatore Asburgo, dal re di Spagna, il giovane mantiene sempre, nonostante la vita militaresca, un animo versato alla ricerca del sapere e delle arti, sensibilità alla quale non è estranea la zia Giulia Gonzaga, quando la madre lo lascia per sposare il nobile di Sulmona, Carlo di Launay. Tra le doti dei Gonzaga, il giovane eredita, tra l'altro, anche l'interesse per l'architettura, specialmente per le fortificazioni militari e non disdegna di progettare, tra una guerra e l'altra, imponenti fortificazioni ancora visibili come a Fonterabbia, a San Sebastiano e a Cartagena. Traccia egli stesso le mura di Sabbioneta dalla forma singolare di una stella a sei punte che rimangono, a distanza di cinque secoli, uno dei capolavori di ingegneria e tecnica militare dell'epoca.
Ma Vespasiano non può godersi la sua "creatura". Lo troviamo in giro per l'Europa come il più valente condottiero dell'epoca richiesto presso le corti europee per dirimere guerre e conflitti locali. Sono gli anni in cui combatte sotto il re di Spagna, nella guerra contro Parma, fronteggiando in Piemonte le truppe francesi e, poco dopo nel Lazio, il duca di Guisa. Nel 1557 lo troviamo nelle Fiandre, territori allora sotto il dominio spagnolo, che per i suoi servigi alla corona venne nominato Grande di Spagna e Comandante delle truppe italiane con le quali combatte ancora in Piemonte, assicurando al duca di Mantova il possesso delle terre del Monferrato. Come se ancora tutto questo non bastasse, si recò in Spagna per combattere contro i mori ancora ribelli che occupavano la parte meridionale del regno.
La sua capitale
Spesso, come ha lasciato scritto, il suo pensiero corre a Sabbioneta e al tempo in cui potrà riposare negli ozi meritati della vecchiaia. Nel frattempo la sua piccola capitale, pur senza il suo duca, continua a crescere e diventare un gioiello di arte e cultura. Celebre sarà il teatro costruito da Vincenzo Samozzi sull'esempio di quello di Vicenza, l'Olimpico disegnato dal Palladio. Come i signori rinascimentali anch'egli non poteva farsi mancare due splendidi palazzi come quello Ducale e quello detto anche del Giardino, per ospitare, da vero mecenate, artisti, letterati e architetti, oltre a ebanisti, intagliatori e pittori di chiara fama. La sua cura maggiore, per la quale impegnò tutto se stesso, oltre l'edificazione della città, fu la sua gente, specialmente i poveri "... che noi grandi fuggiamo come rifiuto delle creature di Dio" scriveva amareggiato al duca di Mantova ai quali non fece mai mancare il suo aiuto.
Ma tutta la gloria, la ricchezza e la realizzazione del suo sogno della città ideale da lui stesso disegnata, non riuscivano a toglierli quella tristezza che lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni. Uomo d'armi, trionfatore di tante imprese militari quanto nessun principe italiano poteva sperare sotto la dominazione spagnola, era, però, sconfitto nella sua vita famigliare. Ci sono alcuni episodi, su cui regna ancora il più fitto mistero, e forse proprio per questo fiorirono, quasi subito, dicerie assai cupi sulla sua vita. Certo qualcosa nella sua vita era accaduto se, come scrive a un amico: "Volgono a me talora giorni sì malinconiosi e tristi da desiderare il delirio dell'antico mio male (si è pensato a una sindrome suicida) indarno tenuto di togliermi a quei fierissimi pensieri che mi danno guerra non solo, ma spavento" - e con amarezza soggiunse una frase assai indicativa del suo stato d'animo: "Lo stato della mia anima è infelicissimo: niuno sel sa tuttavia pienamente. I conforti degli amici mi sono cagione di tormento, fastidianmi i versi che mi vengono a consolazione d'ogni parte. Che mi fa dei beni della terra, se mi fallan quelli dell'anima?" Ed ecco la frase più esplicativa che ci introduce nelle ombre della vita di Vespasiano: "Fuori, onore al mio nome, in casa talora irriverenza, per Dio, e vergogna".
A questo punto è d'obbligo andare indietro di alcuni anni per capire non più l'eroe d'arme, ma l'uomo e la sua famiglia e le tristi leggende che aleggiarono su di lui anche dopo la sua morte. Nel 1549, sposò segretamente a Piacenza, la giovanissima Diana Folch de Cardona, già promessa a suo cugino Cesare Gonzaga, signore di Milano, un oltraggio che accese non pochi diverbi famigliari. Per questi motivi condusse subito la sposa a Sabbioneta, fuori da occhi indiscreti e, solo dopo venti mesi, ottenne dallo stesso re di Spagna l'agognato permesso a ufficializzare le nozze, ma da questo momento cominciano i dolori famigliari del nostro eroe. La piccola capitale del ducato, al tempo del suo matrimonio non era ancora finita, era un cantiere a cielo aperto e non aveva certo le comodità che avrebbe avuto in seguito. Di tutto questo la giovane sposa ne provò grande disagio, ma a funestare il matrimonio ci fu una gravidanza sfortunata finita con la morte del bambino appena nato e, nello stesso periodo, Vespasiano fu colpito da una lunga e dolorosa malattia che lo tenne a letto per diversi mesi, ma, da buon soldato, una volta guarito lasciò la povera Diana sola tra le nebbie e la solitudine nella Bassa Padana per riprendere le sue missioni militari in Italia e all'estero.
L'ombra del delitto
La vita della giovane moglie si concluse a Sabbioneta dieci anni dopo, l'8 novembre del 1559 con una morte improvvisa. Sarà lo stesso Vespasiano ad annunciare alla zia Giulia la triste notizia: "È piaciuto a Dio di chiamare a sé mia moglie per apoplessia, senza che potesse esprimere parola". Ma nonostante i solenni onori funebri e l'immagine inconsolabile del duca, le dicerie sulla effettiva causa di morte della moglie non mancarono di certo. Si vociferava già da qualche tempo sulla infedeltà coniugale della giovane Diana, più volte colta in atteggiamenti alquanto confidenziali con un uomo di corte, tale Annibale Ranieri. Vespasiano, informato della tresca, tornò subito a Sabbioneta e incaricò, in gran segreto, un sicario a lui fedele di uccidere il rivale, ma non solo. La vendetta non era finita e, così, fu ideata una crudele messinscena proprio nei confronti di Diara.
Il cadavere dello sventurato fu portato in una stanza lungo le mura della fortezza, poi, con uno stratagemma, convinse la moglie a seguirlo insieme ad alcuni fidati cortigiani, poi con un tranello la fece entrare nella stanza, dove nascosto giaceva il corpo del suo presunto amante, e, subito, fece chiudere la pesante porta alle sue spalle imprigionandola insieme al cadavere che ormai cominciava a decomporsi emanando un fetore nauseabondo. La povera Diana cercò di resistere per tre giorni a questo inferno, convinta che il marito l'avrebbe liberata quanto prima, ma Vespasiano, per tutta risposta le allungò una fiala di veleno con la quale la convinse a uccidersi. Ormai sfinita dalla disperazione e dalle esalazioni mefitiche del cadavere, la poveretta si decise al passo estremo. Dopo cinque anni di vedovanza, nel 1564, il duca fu costretto per volere del re di Spagna, Filippo II, a sposare la figlia del duca di Segovia, Anna d'Aragona.
Come nel matrimonio precedente, Vespasiano condusse la moglie a Sabbioneta, ormai dall'aspetto di piccola città con i conforti dell'epoca. L'unione sembrava andar bene tanto che appena un anno dopo, nonostante la donne fosse di gracile costituzione, diede alla luce due gemelle, delle quali solo una visse, Isabella, la futura contessa di Stigliano, e il 27 dicembre dell'anno successivo, nasceva il tanto sospirato erede a cui fu dato il nome del nonno Luigi. La gioia del duca fu immensa. Per tutto lo Stato furono organizzati giochi e feste a non finire che durarono oltre un mese e fu in questa occasione che ripropose un vecchia tradizione campagnola, l'albero della cuccagna, che vide sfidare tutta la gioventù del posto, ma la vera novità fu il ripristino dell' antico rito pagano di fondazione degli antichi romani, una civiltà che Vespasiano aveva sempre apprezzato. Due coppie di buoi bianchi ornati di mirto e accompagnati da due mattatori, vestiti con gli abiti sacerdotali, attraversarono le strade della città per giungere al luogo del sacrificio augurale, mentre la folla si era assiepata presso le caldaie di poter mangiarne le carni arrostite.
Purtroppo, la sua gioia fu assai breve; una nuova sciagura lo attendeva e non sarebbe stata la sola nella sua vita. Anna d'Aragona, dopo il secondo parto fu presa da un'indicibile tristezza, oggi diremo depressione post partum, ma allora non si conoscevano né la causa, né tanto meno la cura. La donna cominciò ad essere sempre più depressa e ben presto si ritirò nella dimora di Rivarolo, sola, lontana dal marito e dai figli che non voleva più rivedere. La situazione era diventata anche agli occhi della corte insostenibile. La donna morì poco dopo, appena tre anni dal matrimonio, ma, anche in questo caso, non mancarono i sospetti sulla vera fine di Anna, in circostanze non meno misteriose di quelle di Diara de Cardona.
La donna, scrisse ufficialmente lo stesso Vespasiano al cugino, il duca di Mantova, era stata: "... aggravata da molti giorni di febbre continua et di un postèma sotto il fianco, che finalmente si scoperse, la quale l'aveva ridotta a così gran fiacchezza che per rimedi e diligenze che si siano usate niuna cosa ha potuto giovare, si che oggi alle 15 e le 16 hore con incredibile mio dolore e discontento è passata a miglior vita". Se questo scritto rappresentava la tesi ufficiale della morte, in realtà come per Diara, si vociferava da tempo sull'onestà della donna, tanto che proprio il duca scrisse al suo amico Bernardino Rota, pochi giorni dopo la scomparsa della donna, su affetti domestici traditi e di "irriverenza e di "vergogna". Seguirono anni che videro il duca essere un padre affettuoso sia con Isabella che con Luigi; quest'ultimo, essendo l'erede del casato, ebbe una educazione cavalleresca e a soli quindici anni lo portò con sé in Spagna per educarlo alla vita militare e sancire così, da buon politico, il rapporto di amicizia tra le due famiglie, quelle dei reali di Spagna e i Gonzaga, affinché crescessero entrambi in prestigio e potere.
La morte del figlio
Nel 1579 accadde, purtroppo, un episodio che segnerà per sempre gli ultimi tragici anni del duca. Si narra che un giorno, passeggiando a cavallo per il borgo, vide il figlio insieme ad altri coetanei. Probabilmente per distrazione, il giovane non salutò con la dovuta riverenza il nobile padre e per questo Vespasiano lo redarguì in maniera violenta. A questo la risposta del giovane, orgoglioso come il padre, fu ancora più oltraggiosa e Vespasiano, in uno scatto di nervi, lo colpì sì duramente al basso ventre da procurare lesioni interne che portarono, dopo pochi giorni, il giovane alla morte. Grande fu lo strazio del duca, tanto da far temere addirittura la pazzia, inoltre, una improvvisa crisi religiosa lo portò a far edificare ben due chiese in suffragio per i suoi defunti. Molti videro questi segni come rimorso per colpe passate e recenti, costruendo sulla figura del duca, una vera e propria leggenda nera. Una maldicenza coltivata e consolidata nel tempo dai rivali dei Gonzaga, verso un personaggio certamente ingombrante per la politica del tempo.
Ma le cose non sembrano stare così. L'onore di Vespasiano fu riportato alla verità, quando nel 1988 fu recuperata la salma del duca e di suo figlio. Si scoprì che aveva contratto una grave forma sifilide, trasmessa disgraziatamente al piccolo Luigi, tanto che a tutti e due si dovettero praticare dei fori al cranio, ben visibili ancora nei teschi, nel disperato tentativo di rallentare il declino cerebrale, ma il giovane, dal fisico cagionevole come gli altri discendenti della stirpe degli Aragona, non superò tale intervento e morì poco dopo, dunque non fu il padre a ucciderlo. Ma a riportare la verità, in merito alla morte delle due mogli, alla fine dell'ottocento, uno storico di chiara fama, Alessandro Luzio, contestò la fosca nomea del Duca, dichiarando che dopo aver frugato in tutta la documentazione dei Gonzaga, non trovò la minima documentazione a suffragare i supposti omicidi, inoltre, fece notare ancora lo storico, che un Hidalgo, corrispondente al nostro cavaliere, come Vespasiano, non avrebbe mai potuto abbassarsi a tale infamia e richiedere nello stesso tempo ai familiari le doti delle due sventurate mogli.
Comunque siano andate le cose, la morte del figlio, come abbiamo riferito, lo portò a uno stato di depressione tale da aspettarsi anche qualche atto sconsiderato del nobile uomo. Fortunatamente per lui, i parenti fecero in modo di farlo risposare per la terza volta, questa volta con una cugina, con Margherita Gonzaga, figlia di Cesare del ramo di Guastalla e nipote del celebre cardinale Carlo Borromeo. Anche se aveva appena cinquant'anni era pieno di ferite di guerra e tanti altri malanni, e decise di trascorrere gli ultimi anni, come si era ripromesso fin da giovane, nella sua piccola, ma splendida capitale. Insieme alla terza moglie e alla figlia Isabella avuta dalla seconda moglie, Anna d'Aragona, Vespasiano trascorse i suoi giorni tra gli amati libri che fin da giovane aveva definito, in una lettera ad Aldo Manunzio, il padre della moderna tipografia: "I buoni libri sono prismi entro cui tanto non ispazia mai l'occhio che tutto abbia veduto" e ancora da vero umanista: " Gli uomini per due strade vengono a guadagnare utilità e nobiltà, o per le armi o per le lettere".
Quest'ultimo matrimonio durò ben dieci anni, che videro il Duca sperare nella nascita di un nuovo erede, ma tutto fu inutile; nel 1591, all'età di cinquantanove anni, tra il sincero dolore dei suoi sudditi, moriva nel Palazzo Ducale. Chi assistette all'agonia raccontò che dopo aver ricevuto i conforti religiosi esclamasse: "Sono guarito", una frase il cui significato porterà per sempre nella sua tomba. Alla morte del Duca, la moglie Margherita, donna profondamente cattolica, si ritirò per sempre in convento, lontano dalla politica e, soprattutto, dalla curiosità della gente. Finiva così, senza eredi maschi, la dinastia dei Gonzaga di Sabbioneta.