Maryano Fortuny y Madrazo giunge alla luce della storia dalla Penisola Iberica e da un tempo che pare lontano ma che ci riguarda da vicino perché dinamico quanto la parvenza atmosferica del creato, possibilista di luoghi remoti scolpiti nell’iride del viaggiatore come l’energia dell’H2O lungo la scogliera. Dalla formula d’identificazione molecolare dell’acqua al luogo marino più sospirato della crosta terrestre il passo è breve.
Fortuny giunge a Venezia alla fine del diciannovesimo secolo e si prodiga nell’immanenza acquatica della Serenissima a comprenderne il riverbero luminoso come vettore del chiaro scuro della bellezza. Uomo di scena e di grafia (scenografo, costumista…) traccia la posa delle volte illusionistiche del teatro in una sfera di luce, la seziona e crea, da uno spicchio, la sua cupola di diffusione atmosferica e naturalistica dell’artificio narrativo da palcoscenico che è suppletiva della grande lanterna del sistema solare.
La Cupola Fortuny è la soluzione illuminotecnica ad una diffusione realistica della luce nel teatro e si basa sul principio degli opposti. Il fascio luminoso viene posizionato all’apice della curva dell’arco scenico e proiettato in senso opposto alla cupola medesima e verso una lamina riflettente/specchiata, alla sua stessa altezza, che scorre su due rulli paralleli. È dunque dal riverbero dello specchio che la volta si accende e con essa coloro che vi sono compresi nell’abbraccio celestiale ideato da Fortuny.
Il soggetto luce educa tutta l’esperienza del laboratorio di scenografia per il teatro creato da M.F. presso la sua residenza di Palazzo Pesaro degli Orfei a Venezia: la sua produzione illuminotecnica per gli interni dei palazzi si processa in analoga maniera e con le medesime conclusioni.
In definitiva, questo spagnolo, originario di Granada, lavora sulla modulazione chiaroscurale funzionale alla ritrattistica fotografica ed affini. Le sue creazioni sono ancora oggi utilizzate per il mondo della fotografia ed affini. La celebre lampada Fortuny (1907) è l’archetipo dei medium narrativi tra obiettivo fotografico ed il soggetto ritratto.
Anch’essa elaborata sul principio del direzionamento opposto al soggetto da esaltare. Tale conoscenza illuminotecnica viene traslata anche sul corpo anatomico dell’uomo all’atto di creare abiti che abbiano una matrice esotica/orientalista, che a Fortuny stava a cuore.
Fluido di quel tratto che non possiede costrizioni nei tagli degli abiti e prende le distanze dalla ridondante, Belle Époque, Fortuny lavora sulle conoscenze sul costume incontrate nei viaggi internazionali, o attraverso la figura paterna, pittore dal carattere esotico, che nei suoi viaggi in Medio Oriente aveva incontrato il soggetto principe della pittura sua pittura.
L’essere cittadino di una delle Repubbliche Marinare più ammirate e frequentate di sempre gli permetteva di avere un punto di osservazione privilegiato sul multiforme universo sociale che nei porti si incontra.
Il mondo Orientale si esprime con l’abito nella sua valenza di involucro avvolgente e riparatore, ma al contempo fluido e volumetricamente discostato dall’anatomia didascalica del corsetto e delle gabbie ridondanti del tempo.
Tra kimoni e dolman, mantelli e turbanti, tuniche, pepli e chitoni, Fortuny si sente a suo agio, non solo li indossa, ma ne fa un suo modello di vita.
Affascinato dalla scultura classica e dall’Auriga di Delfi (474 a.C.) prospetta la creazione di un abito contemporaneo che ne avesse caratteristiche e carisma: ecco che da tale stimolazione nasce il Delphos, il cui nome deriva dalla celebre scultura greca.
Un tubolare di seta il cui corpo è modellato da un’ossessiva esecuzione di piccole pieghe che a ventaglio si aprono sulle curve del corpo femminile a rivelarne l’attitudine e il volume. Come labbra schiuse sui seni e lungo i fianchi le pieghe ci parlano di un tono anatomico e chiaroscurale senza eguali nella contemporaneità, la cui paternità giunge dall’armonia classica dell’era dorica e si smaterializza nella sensualità della curva ionica nella patria della Filosofia: la Grecia.
Lungo quanto l’altezza di “Eva”, il Delphos si processa verticalmente, scanalato e cromaticamente ricco dei toni minerari del colorismo veneto: il blu lapislazzulo, il verde Velázquez, l’ocra del Tiepolo. La sua cadenza è vitrea negli estremi delle sue orlature costellate degli universi grafico/cromatici delle murrine che si allineano per il loro peso specifico a giocare con la gravità terrestre per la seta delfica.
Da questa essenzialità formale, sottrattiva di ogni orpello, emerge l’approccio ad un corpo femminile liberato da ogni prigionia ed aperto al dialogo con le sensazioni dell’aria e della luce che libere lo attraversano. La luce è divorata e rigettata nei sali e scendi della piega: fitto amplesso di affondi interstiziali nel tessuto. La meccanica dei telai seghettati nel legno che con la termica modellano la seta della Manifattura Tessile Fortuny (1919) traccia la strada della luce sul Delphos e la tecnologia si ritaglia un posto d’onore nell’artigianalità.
Il conforto tattile che la seta dona alla pelle e l’accento che la “serina” regala alla luce fa di questa tunica del 1909 la riedizione formale perfetta dei presupposti armonici della classicità con la costruzione della sartoria più evoluta.
Dalla giustapposizione di due rettangoli è nato il “chitone” della Antica Grecia che ha dato la base formale al tema della plissettatura per la foggia della tunica dell’ellenica penisola mediterranea: unica esecuzione plausibile del saper fare con il linguaggio quantistico della produzione tessile (non il taglio ma la sapienza della posa). Con Fortuny alla foggia di un costume antico si sostituisce la sartorialità e la tecnologia. Dalla storia Il corpo femminile ha ottenuto il suo peplo e attraverso di esso è giunto alla luce della modernità.
Le sue cromie lagunari raccontano di una saturazione piena della tempesta di luce ed ombra che forma avvallamenti al rettilineo più che mai soggiogato alla curva dell’immaginazione ionica. Per mano di un iberico, Mariano Fortuny, la statuaria Auriga si è sostanziata, circa 2500 anni dopo, nel Delphos, e ha fatto del corpo della donna la fascia muscolare della bellezza, e di ogni piega il concorso all’esecuzione di un’opera d’arte che tutto contempla nella sua wagneriana memoria, donando un sesso alla luce ed un ruolo per essa ambivalente, tra penetrazione ed accoglienza, in nome della “superficie”.