Nonostante la diversità linguistica e culturale, il mondo alpino è caratterizzato da una sorprendente unità culturale, costruita su miti, simboli e un profondo legame con il territorio. Le comunità alpine, modellate da eventi naturali e sociali, hanno elaborato racconti fondatori e rituali che fungono da collante sociale e scandiscono i cicli stagionali e della vita. La verticalità stessa del paesaggio ha imposto uno stile di vita e soluzioni tecniche uniche per garantire la sopravvivenza, influenzando anche l’immaginario collettivo e i miti. Nel corso della storia, le Alpi hanno rappresentato un ambiente difficile e selettivo per l’adattamento umano, un tratto condiviso da tutti i grandi massicci montuosi del pianeta. Tuttavia, il contesto alpino si distingue per il suo ruolo cruciale come crocevia culturale dell’Europa.
Le Alpi sono sempre state vissute in una dualità tra spazio "addomesticato" e spazio "selvaggio". Le aree fertili e accessibili erano intensamente coltivate e abitate, mentre le vette inaccessibili venivano viste come il regno delle forze superiori, da rispettare e temere. Questo ha dato origine a un profondo rispetto religioso per la terra e i suoi frutti, spesso percepita come matrigna severa ma essenziale. A partire dal Medioevo, le Alpi hanno visto una progressiva colonizzazione, con la nascita di insediamenti a medie ed elevate altitudini. Le comunità alpine hanno sviluppato strategie di adattamento, sia materiali che spirituali, che rispondevano alle difficoltà ambientali e climatiche. Tuttavia, l’avvento della modernità ha portato un progressivo distacco dalle radici sacre e mitiche del territorio. I miti alpini, in molti casi, sono stati svuotati del loro significato originario e trasformati in strumenti folkloristici per il turismo e la società dei consumi.
La percezione dello spazio selvaggio è cambiata radicalmente nel tempo. Mentre per le popolazioni rurali la natura incontaminata era carica di una sacralità spesso inquietante, l’avvento della scienza e della razionalità ha ridimensionato questa visione. Il paesaggio alpino è stato reinterpretato attraverso una lente razionale, dando origine a nuovi miti, meno mistici e più legati a un’immagine romantica o scientifica della montagna. Questo cambiamento riflette una frattura sempre più netta tra il sacro e il profano, alimentando il conflitto tra tradizione e modernità.
Le tradizioni sciamaniche nelle regioni alpine di Italia, Svizzera, Austria e Francia hanno suscitato l'interesse di numerosi antropologi, i quali hanno analizzato le pratiche rituali, le credenze e le figure mitologiche comuni a queste culture. Tra i pionieri di tali studi, Marcel Maget ha svolto ricerche approfondite sulle comunità alpine, concentrandosi in particolare sui rituali legati alla panificazione nell'Oisans. Nel suo lavoro Il pane annuale. Comunità e rito della panificazione nell'Oisans, Maget esplora come la preparazione del pane annuale sia intrinsecamente legata alle tradizioni e alle credenze locali, riflettendo una profonda connessione tra pratiche quotidiane e spiritualità.
Un altro contributo significativo proviene da Eric R. Wolf, il quale, insieme a John W. Cole, ha condotto uno studio etnografico comparativo tra due villaggi alpini, uno di lingua tedesca e l'altro di lingua romanza. Nel loro libro La frontiera nascosta. Ecologia ed etnicità in una valle alpina" gli autori analizzano come, nonostante le differenze linguistiche e culturali, esistano pratiche rituali e credenze condivise che risalgono a tradizioni sciamaniche comuni. Questo lavoro evidenzia come l'ambiente alpino abbia influenzato lo sviluppo di una cultura spirituale simile tra comunità diverse.
Robert Hertz, nel suo studio sul culto di San Besso nelle Alpi occidentali, ha messo in luce come le pratiche devozionali locali siano spesso intrecciate con antiche tradizioni sciamaniche. Hertz osserva che il culto di San Besso presenta elementi che richiamano rituali di origine pre-cristiana, sottolineando la persistenza di pratiche sciamaniche nelle tradizioni religiose alpine.
In Bestie-Santi-Divinità, Museo Nazionale della Montagna, Città di Torino, CAI-Torino hanno approfondito ulteriormente queste tematiche. La raccolta di studi si concentra sull'analisi delle pratiche rituali contemporanee nelle Alpi, evidenziando come elementi sciamanici siano ancora presenti nelle celebrazioni locali, attraverso le maschere e le figure antropomorfe.
Le processioni delle Perchten in Austria e le mascherate invernali in Italia e Svizzera rappresentano pratiche rituali ricche di simbolismo, che conservano tracce di antiche tradizioni sciamaniche. Come sottolineano gli studi di Laura Bonato e Lia Zola, questi rituali mostrano un’interessante continuità e capacità di adattamento nel tempo, mantenendo vivo il legame tra le comunità alpine e il loro immaginario collettivo. Le maschere e i costumi utilizzati incarnano archetipi legati alla natura selvaggia e alla sua potenza, un tema ricorrente anche in altre regioni europee.
Anche in Sardegna e Romania troviamo sorprendenti somiglianze tra tradizioni apparentemente distanti. Giovanni Lilliu ha evidenziato, nel suo studio sulla civiltà nuragica, come i rituali legati ai Mamuthones e agli Issohadores durante il Carnevale di Mamoiada riflettano una relazione arcaica con il mondo naturale e il ciclo stagionale. L’uso delle maschere, i passi ritmati e i gesti rituali, infatti, presentano affinità con le mascherate alpine, suggerendo un substrato comune di pratiche sciamaniche che attraversa il Mediterraneo e l’Europa centrale.
In Romania, il lavoro di studiosi come Mircea Eliade, che ha esplorato a fondo il significato del sacro e del profano nelle culture tradizionali, ha fornito spunti per comprendere le danze rituali dei Călușari. Queste danze, eseguite durante particolari festività, si basano su un mix di elementi coreografici e simbolici, volti a garantire la protezione della comunità e l’armonia con le forze naturali e soprannaturali. Come nel caso delle maschere alpine o dei Mamuthones, i Călușari evocano il legame tra il mondo umano e quello spirituale, enfatizzando la necessità di mantenere un equilibrio tra le due dimensioni.
Questo radicamento culturale si riflette non solo nelle tradizioni spirituali, ma anche nelle soluzioni abitative adottate, che testimoniano una straordinaria capacità di interpretare il contesto naturale.
L’architettura vernacolare delle Alpi, espressione concreta di questo dialogo tra uomo e natura, traduce in forme tangibili la resilienza e l’ingegnosità di queste comunità. Tra le tipologie più rappresentative, troviamo il ciabot piemontese, lo chalet delle Alpi francesi e svizzere, i masi dell’Alto Adige e del Tirolo e le case Walser, tipiche di comunità germaniche che si insediarono tra Italia, Svizzera e Austria. Queste strutture, caratterizzate da materiali locali e un design orientato alla funzionalità, riflettono un dialogo costante tra necessità umane, condizioni climatiche e rispetto per il territorio.
Il ciabot è una costruzione semplice e funzionale, tipica delle colline piemontesi, originariamente concepita come rifugio per i lavoratori agricoli o deposito per gli attrezzi. Costruito in pietra con tetto in ardesia, il ciabot si distingue per la sua essenzialità e per l’efficace uso dei materiali locali. Molti di questi edifici sono stati restaurati e trasformati in abitazioni secondarie o spazi per l’ospitalità turistica. Lo chalet, diffuso nelle Alpi francesi e svizzere, è invece caratterizzato da una struttura interamente in legno, spesso decorata con intagli elaborati. Il tetto spiovente e le gronde sporgenti, progettati per consentire il deflusso della neve, sono elementi distintivi che rispondono alle necessità climatiche della montagna.
Il maso, presente in Alto Adige, Tirolo e Baviera, è un esempio di abitazione multifunzionale che combina spazi abitativi, agricoli e per il ricovero degli animali in un’unica struttura. Costruito in pietra e legno, il maso è organizzato in modo da ottimizzare le risorse, offrendo spazi per la famiglia, per la stalla e per la conservazione dei raccolti, riflettendo un’economia di sussistenza perfettamente adattata al territorio.
Tra le abitazioni più rappresentative dell’architettura vernacolare alpina ci sono le case Walser, che si distinguono per la loro organizzazione spaziale e per l’efficace utilizzo dei materiali autoctoni. Diversi studi hanno analizzato in dettaglio la struttura e la funzione di queste case, sottolineando la loro capacità di rispondere alle esigenze della vita montana. Le case Walser sono generalmente composte da tre livelli distinti: il piano terra, costruito in pietra, ospita la stalla e talvolta la cucina, sfruttando il calore generato dagli animali per riscaldare i piani superiori; il primo piano, realizzato in legno, accoglie la zona giorno, con la tipica Stube rivestita in legno e le camere da letto, offrendo isolamento termico e comfort abitativo; il sottotetto è destinato a fienile o deposito, con una posizione sopraelevata che protegge il foraggio dall’umidità e favorisce una ventilazione ottimale. Un elemento caratteristico è il loggiato esterno, noto come Schopf, utilizzato per essiccare i cereali e altri prodotti agricoli.
I materiali locali sono il cuore dell’architettura alpina. La pietra, usata per le fondamenta e le pareti, garantisce stabilità strutturale, isolamento termico e resistenza agli agenti atmosferici. In molte aree, come la Val d’Aosta, i muri in pietra sono lasciati a vista, a testimonianza di un’estetica che valorizza la materia prima locale. Il legno, ampiamente disponibile nei boschi alpini, è il materiale prediletto per le strutture portanti e le coperture. Il larice e l’abete rosso sono apprezzati per la loro resistenza e durata, e il loro uso conferisce un carattere caldo e accogliente agli ambienti interni. L’ardesia, utilizzata per i tetti, è una pietra naturale impermeabile e resistente al peso della neve. Il suo colore scuro si armonizza perfettamente con il paesaggio montano, contribuendo a un dialogo estetico tra costruzione e natura.
L’adattamento al clima è uno degli aspetti più evidenti nell’architettura vernacolare alpina. I tetti spioventi sono progettati per sostenere il peso della neve e consentirne il rapido scivolamento, prevenendo danni strutturali. Le piccole finestre, incorniciate in legno, limitano la dispersione di calore durante i freddi inverni alpini, mentre l’orientamento delle abitazioni, spesso rivolto verso sud, sfrutta al massimo l’esposizione solare per riscaldare gli ambienti. L’integrazione con il paesaggio è un altro elemento chiave. Le abitazioni si fondono armoniosamente con l’ambiente circostante, seguendo le linee del terreno e minimizzando l’impatto visivo. Questa disposizione, oltre a preservare l’estetica dei paesaggi montani, facilita l’accesso a risorse vitali come acqua e pascoli.
Catherine Bauer e Charlotte Perriand sono due figure emblematiche che, in modo diverso, hanno contribuito a trasformare l’architettura e l’urbanistica del XX secolo, portando una prospettiva unica e innovativa al dialogo tra uomo, natura e spazio costruito. Le loro visioni progettuali non solo hanno sfidato le convenzioni del loro tempo, ma hanno anche gettato le basi per un’architettura rispettosa del contesto e sensibile ai bisogni sociali, un tema centrale quando si parla di Alpi e di abitazioni legate al territorio. Bauer, pioniera dell’urbanistica sociale, e Perriand, visionaria del design modernista, hanno aperto strade che sarebbero state seguite anche da altri grandi architetti come Carlo Mollino, Peter Zumthor e Hermann Kaufmann, creando un dialogo tra passato e futuro.
Charlotte Perriand ha saputo trasformare la sua passione per le montagne in un principio guida della sua carriera. Alpinista e designer, Perriand ha vissuto a stretto contatto con le Alpi, traendo ispirazione dal loro paesaggio e dalle tradizioni vernacolari per molti dei suoi progetti. La sua collaborazione con Le Corbusier e Pierre Jeanneret negli anni ’30 portò alla creazione di mobili e spazi abitativi che sposavano minimalismo, funzionalità e un’estetica profondamente radicata nel rispetto per la natura. Tra i suoi lavori alpini più noti si annovera il Refuge Tonneau (1938), una struttura prefabbricata concepita per resistere alle condizioni estreme delle montagne, che combina innovazione tecnica e semplicità funzionale. Perriand ha saputo leggere le Alpi non solo come un contesto geografico, ma come una metafora di equilibrio e resilienza, traducendola in un linguaggio architettonico essenziale e visionario.
Carlo Mollino, architetto torinese, condivise con Perriand l’amore per le Alpi, che divenne un tema centrale in alcuni dei suoi progetti più celebri. Architetto visionario e innovativo, ha dedicato parte del suo lavoro alla reinterpretazione dell’architettura alpina, cercando di integrare le tradizioni locali con un’estetica moderna e funzionale. Un esempio significativo del suo approccio è la Stazione Lago Nero a Sauze d’Oulx, progettata nel 1946. Questo edificio, concepito come un rifugio per sciatori, riflette una profonda attenzione al contesto naturale e al paesaggio montano. Mollino utilizzò materiali locali come il legno e la pietra per creare una struttura che si fonde armoniosamente con l’ambiente circostante. L’uso delle forme organiche e delle superfici inclinate richiama l’architettura vernacolare alpina, reinterpretata in chiave moderna. Le ampie finestre panoramiche non solo offrono viste mozzafiato sulle montagne, ma simboleggiano anche il desiderio di stabilire un legame visivo e spirituale tra l’interno e l’esterno.
Un approccio differente ma altrettanto sensibile al contesto alpino caratterizza il lavoro di Peter Zumthor. L’architetto svizzero è celebre per il suo approccio sensoriale, che privilegia l’esperienza dello spazio e l’uso di materiali locali per creare un dialogo tra edificio e paesaggio. Le Therme Vals, completate nel 1996, sono forse la sua opera più iconica in questo contesto. Il complesso termale, costruito con lastre di quarzite estratte localmente, sembra emergere dal terreno stesso, integrandosi perfettamente con l’ambiente circostante. La luce naturale gioca un ruolo fondamentale nel definire l’atmosfera degli spazi interni, trasformandoli in un’esperienza meditativa. Un altro progetto significativo è la Cappella di San Benedetto a Sumvitg (1988), dove l’uso del legno sottolinea un dialogo tra tradizione artigianale e modernità, in un contesto di profonda connessione con il paesaggio alpino.
Infine, Hermann Kaufmann, architetto austriaco, ha portato avanti una visione innovativa e sostenibile dell’architettura alpina, concentrandosi sull’uso del legno come materiale principale. La Kulturzentrum Montafon a Schruns (2006) e la Casa per Uffici Kaufmann a Dornbirn (2000) sono esempi della sua capacità di combinare tecniche costruttive tradizionali con soluzioni tecnologiche avanzate. Kaufmann sfrutta le qualità isolanti e strutturali del legno per progettare edifici ad alta efficienza energetica, dimostrando che la sostenibilità non è solo una necessità contemporanea, ma anche un ritorno a una relazione più autentica con i materiali e il territorio.
Questi progetti, radicati nel loro contesto geografico ma aperti al dialogo con il mondo, continuano a ispirare architetti e urbanisti, ricordando che la qualità dello spazio costruito è intrinsecamente legata al rispetto per il territorio e alla capacità di leggere il paesaggio come una fonte inesauribile di saggezza e bellezza.