La pittura è un’aria che mi gira intorno. Quell’aria che da ragazzo mi aveva trascinato a dipingere sui muri delle balere della Riviera e a riempire pagine di favole a fumetti, si era poi infilata dentro colorate lastre di laminato plastico, entrava nella tela attraverso i liquidi dello sviluppo fotografico o accarezzava leggera trittici di grossa tela di juta.
(Vincenzo Cecchini, 2018)
Durante l’Art Verona di quest’anno mi sono imbattuta in alcune delle opere dell’artista romagnolo Vincenzo Cecchini, esposte in fiera dalla galleria milanese Glenda Cinquegrana Art Consulting, dove peraltro fino al 16 dicembre è in corso la mostra personale del Maestro In forma di pittura. Sono stata letteralmente rapita dalle sensazioni che mi trasmettevano. Non capivo cosa mi stesse succedendo. Ho quindi dovuto chiedere delle informazioni alla gentile signora Glenda su chi fosse questo artista che ancora non conoscevo. Il Maestro Cecchini è stato inserito tra i pittori cosiddetti analitici. Ma che cos’è la pittura analitica? Secondo gli esperti di questa corrente artistica “la pittura analitica è stata una corrente a cui si erano avvicinati diversi artisti in reazione a ciò che sosteneva l’arte concettuale che considerava superato il mezzo della pittura. L’intenzione era quella di preservare la pittura come mezzo espressivo, da molti considerata ormai sulla via dell'estinzione, partendo da una sua ridefinizione, se non addirittura da una strutturale rifondazione. I fautori della pittura analitica infatti erano convinti che la pittura avesse ancora molto da esprimere e dando allo stesso tempo importanza all’analisi e alla conoscenza esatta dei mezzi espressivi dell'artista, dipingevano in maniera concettuale, la pittura analitica da un lato diventa essa stessa l'oggetto d'indagine dell'artista, dall’altro perde ogni tipo di referenzialità, di riferimento naturalistico o anche semplicemente realistico”.
Considerando poi l’etimologia ed il significato dell’aggettivo “analitico” vediamo che si tratta di qualcuno che analizza, di qualcosa di fondato sull’analisi, qualcosa di approfondito, qualcuno di meticoloso. Ma dopo aver osservato bene le opere di Cecchini, soprattutto quelle realizzate negli ultimi vent’anni, mi sono resa conto che, perlomeno io, non vedevo quasi nulla di analitico, anzi, mi sembrava di percepire una certa confusione, imprecisione, inquietudine ed imperfezione volute e racchiuse in un mezzo di convenienza, nella tela, in una cornice, forse per dar loro una dritta, ma non per essere analitici. Ho poi deciso di dover intervistare questo eclettico personaggio e, grazie alla galleria che lo rappresenta, mi sono messa in contatto con lui. Era da tanto tempo che non facevo una chiacchierata così interessante. Grazie Maestro!
Maestro Cecchini, chi è Lei?
Io sono uno che cerca di essere sempre il bambino che è stato. Null’altro!
Quando si è accorto che il Suo percorso era quello dell’artista?
Appena nato la levatrice che mi ha preso in braccio ancora con la camicia della fortuna, la cosiddetta placenta, mi ha lavato e mi ha messo su un piano di marmo. In quel momento mia mamma l’ha chiamata perché stava male, era a letto e non c’era nessuno e poi la levatrice si è dimenticata di me e se n’è andata via. Io sono rimasto tutta la notte su quel piano e la mattina dopo mi sono preso la broncopolmonite. Non c’erano medicinali, non c’era niente. Sono stato per cinque anni nel letto con la broncopolmonite curato solo con l’amore di mia mamma che veniva su da sotto con gli impacchi di semi di lino e l’unica cosa che mi ha reso felice dopo due, tre anni è stato che mi ha portato una scatola di gessetti colorati ed io ho cominciato a sporcare questi fogli e mi sentivo felice. Penso che nasca tutto da lì.
Cosa significa per Lei “fare arte”?
Per me significa tenere sveglia la propria anima. Non me ne importa niente di dare dei messaggi al mondo, di salvarlo o no. Io devo salvare la mia anima e credo che solo dipingendo posso salvarla e tenerla sveglia.
Nelle Sue opere Lei Maestro crea una sorta di collegamento tra pittura e fotografia ed è tra il 1970 ed il 1975 che in Italia, assieme ad altri pittori, ha contribuito a “rinnovare” il senso di “fare pittura”, corrente che è stata poi definita come “pittura analitica". Ma qual era veramente il senso di tutto questo per Lei?
Proprio così. Ho usato entrambi i mezzi, quello della fotografia e quello della pittura per farli dialogare assieme. Io parto da un gesto, un segno indefinito, un tracciato fisico con la matita che a volte va dritta e a volte sbaglia, esce dalla linea. Non ci sono delle regole ben precise, bensì ho davanti un rettangolo o un quadrato solido dove io devo fare dei gesti. Cerco il perimetro da seguire. Non invento niente. L’invenzione viene proprio in questo casino che faccio con la colla, il colore, la tela ed alla fine cerco di azzerare il tutto. Quello che rimane è quello che dà l’emozione e basta. Non faccio dei ragionamenti complessi per fare un quadro, assolutamente no!
Per me il senso di tutto questo è che cerco di tener sveglia la mia anima e di far sì che rimanga sempre quello che è, anche se questo è molto difficile perché le tentazioni mi vengono dietro in continuazione e sono sempre pronto a crollare. Nella vita per me c’è sempre stato questo desiderio di conoscere che cos’è la realtà e che cos’è la finzione e non ho mai capito qual è delle due e allora ho accettato dipingendo di mettere sullo stesso piano tutte e due, sia la finzione nel caso della fotografia, della realtà, sia il dipingere, quindi quando dipingo una traccia fotografica, perché adesso i lavori che faccio si chiamano tracce fotografiche, quindi dicevo quando mi baso sul medium della fotografia fotografo delle tracce piccolissime su un pezzo di tela e poi le trasporto ingrandendole sopra un quadro che a sua volta viene coperto da un foglio di plastica trasparente. C’è un insieme di gesti e di cose che sono molto liberi, ma che nello stesso tempo mi tengono prigioniero. Si generano molti sbagli sia con la fotografia che dipingendo, quindi nel colore, però questi sbagli mi piacciono, li tengo, anche se provo a correggerli, ma alla fine non lo faccio. Ecco, la fotografia rientra un po’ in questo concetto: è una finzione che vorrei che fosse la realtà e la realtà vorrei che fosse una finzione, una cosa di questo genere insomma.
Io in questo momento sto pastrocchiando, faccio casino ed è quello che mi piace, quindi non so perché io sia stato definito un pittore analitico. Non analizzo proprio niente, quindi Lei ha ragione quando non mi raggruppa in questa cosiddetta corrente della pittura analitica. Mi ci hanno messo.
Vorrei insistere sull’aspetto “dell’essere analitico”, perché, come ho già detto, io non vedo molto di analitico nelle Sue opere…
Quando hanno fondato l’arte analitica c’era una foto con tutti i pittori che facevano parte di questa corrente. L’unico che non c’era ero io. Io non ho cercato di essere dentro all’arte analitica. Quando mi è arrivato il libro dove io alla fine risultavo uno dei capostipiti dell’arte analitica ho visto questo libro, ma non l’ho nemmeno aperto ed è rimasto lì per 2-3 anni... Poi mi hanno detto: “Ah, Lei è un Maestro dell’arte analitica?”…
Io pensavo che “arte analitica” volesse dire “uno che analizza bene”, ma io non analizzo bene niente. Io mi lascio trasportare da un gioco e quindi se poi i critici vogliono definire il gioco come qualcosa di analitico, boh, allora sarò un analitico. Però ho visto che chi fa arte analitica è molto preciso in tante cose, ma io non mi sento così, assolutamente no. Insomma, a chi mi ha definito così, ho chiesto: “Ma che cos’è quest’arte analitica? L’analisi del mio sangue?”
Io sono sempre contrario a tutti. Non posso definirmi in nessuna definizione, né analitica né economica né di altro tipo. Sono un casinaro tremendo. Io sono zero in confronto a ciò che vorrebbe la mia anima. E non mi interessa essere definito in nessun modo. Le mie opere spero che trasmettano delle emozioni a chi le osserva, ma non devono per forza insegnare qualcosa, anzi. Io gioco con la materia, sono come un bambino che gioca con la carta e poi questo gioco mi piace e mi fa male, mi piace e mi fa male…
Io ho dovuto discutere con un pittore che credo sia dell’analitica e che un giorno mi ha detto: “Ma al servizio del vetro hai messo della plastica per proteggerlo?” Ed io ho risposto: “Io non devo proteggere proprio niente e la plastica trasparente la uso perché è un simbolo della nostra società che si crede trasparente, ma che invece purtroppo non lo è; è piuttosto un muro trasparente che si pone tra gli uomini, in generale”. La mia plastica mostra i tempi in cui vivo dove tutto è di plastica, ma questa non è neanche una critica perché le cose brutte, insomma quelle che mi danno fastidio, sono utili perché io rispondo con un mio gesto. Io mi abbandono a questo rapporto fra me e la materia che adopero, però la cosa importante è che l’emozione maggiore mi arriva dal colore. Io non adopero pennelli o strumenti precisi, insomma, non ho niente di serio, ecco. Io i mezzi me li sono inventati. Il colore lo faccio cadere, in sostanza spruzzo sotto della colla e poi ci faccio cadere sopra il colore. Infatti, alcuni dei miei quadri li ho chiamati La polvere del colore, perché tutto quel pulviscolo mi dà un’emozione unica che non so nemmeno descrivere a parole.
E tornando al discorso di poco fa della finzione e della realtà, alla fine forse è meglio non capire quando inizi l’una e/o finisca l’altra. Lei che dice al riguardo?
Certo, certo! Per esempio tirare una linea con una matita è un gesto proprio spontaneo che però allo stesso tempo è un gesto di libertà, ma anche di imprigionamento perché la linea dovrebbe essere dritta ed io a volte la faccio con il righello, mentre altre volte la faccio a mano libera. Questa lotta tra questi due aspetti è quella che mi avvicina di più alla mia visione non chiara della mia esistenza.
Nulla è certo nella vita e questo Lei ce lo dimostra benissimo nelle Sue opere. Ma c’è qualcosa di cui è certo?
Esatto, proprio così. L’unica cosa di cui sono certo è che noi abbiamo un’anima. Io non vado in chiesa, non seguo la scienza, non credo né ai preti né agli scienziati, quindi per me personalmente nulla è certo. Io so solo che sbaglio e poi cerco di fare bene e viceversa. E’ una cosa così la mia pittura. Alla fine in mezzo a tutto questo caos io inseguo un istinto di colore che penso che sia nato da quel bambino che a tre, quattro e cinque anni aveva riempito fogli di carta di colori.
Mi hanno particolarmente colpita i titoli che Lei ha dato a due delle Sue opere: Affinità Elettive e Aurea Mediocritas. Perché questa scelta?
Quando dipingo a volte mi diverto se sbaglio ed altre volte mi diverto se faccio bene. Io vivo il tempo del dipingere come se fosse una cosa tra la finzione e la realtà, infatti, molti dei titoli che ho scelto per le mie opere si riferiscono a delle letture che ho fatto nell’adolescenza, come appunto quelle da Lei nominate, Le Affinità Elettive di Goethe o Aurea Mediocritas di Orazio. Ho dato questi titoli proprio per ricordarmi sempre che sono quel bambino lì che non capisce qual è la realtà e qual è il sogno, ecco.
Ci sono dei colori che preferisce o che La emozionano maggiormente rispetto ad altri?
No! Non ho nessuna preferenza. Io i colori li trovo mentre li faccio e ad un certo punto mi fermo. Questo è il bello! Chiuso! Io gioco quando creo i colori. Voglio sempre giocare come un bambino. Io sono così. Preferisco la spensieratezza dei bambini che la tristezza degli adulti, quel mistero che già conosco insomma. Le so già queste cose dei grandi, ho già letto molto, ho pianto e ho riso, però la mia natura è questa e voglio essere come sono dentro e non come mi trasformano gli altri.
La meravigliosa confusione pittorica e materica che Lei crea in modo magistrale rappresenta l’inquietudine e l’imperfezione dell’essere umano. Cosa La turba maggiormente?
Che io non so se sono vivo o se sono morto o se sono in un altro cosmo. Io so solo che sono vivo se mi comporto così, dipingendo. Ed anche nella vita sono un po’ così. Può darsi che l’artista sia un caso clinico, non lo so.
Maestro, gradirebbe dirmi ancora qualcosa?
Che io La amo! La amo perché sono felice di aver finalmente incontrato qualcuno che abbia veramente capito la mia anima e la mia arte e che non mi abbia raggruppato in nessuna corrente.
Ed io sono perfettamente d’accordo con Lei su tutto!