Dall’11 al 20 novembre al Teatro Roma di Roma sarà rappresentato lo spettacolo Sotto lo stesso tetto…, una commedia brillante in un solo atto scritta da Luca Giacomazzi per la Regia di Massimo Milazzo, co-regista e Produttore Claudio Monzio Compagnoni. Protagonisti della storia sono Massimiliano Buzzanca e i due fratelli Stefano e Claudio Scaramuzzino. La commedia è incentrata sulla vicenda di tre fratelli che si trovano a dover condividere l’appartamento del padre dopo la sua morte.
Leo, Carlo e Marco Formisano, tre uomini totalmente diversi, lontani da casa da tanto tempo, sono improvvisamente costretti a convivere nell’angusta dimora lasciata loro in eredità dopo la morte del loro padre.
Massimiliano Buzzanca, cosa succede quando tre uomini tra i 40 e i 50 anni, andati via di casa tanti anni prima, si ritrovano improvvisamente negli spazi ristretti della casa paterna?
Siccome hanno vissuto insieme il periodo dell’infanzia, i tempi dell’ingenuità e dell’innocenza, è come se tutti gli anni trascorsi al di fuori riguardassero altre vite, di giovani uomini con esperienze differenti. E, quando da adulti condividono gli spazi familiari, diventano di nuovo bambini, come se entrassero in una macchina del tempo e ricordassero logoranti questioni che sembravano ormai superate. Differenze, antichi contrasti, vecchi dissapori, tutte le insofferenze familiari tipiche di un tempo, determinano un loro allontanamento. Sono soggiogati da un passato sepolto nel profondo, fatto di ferite che non vogliono affrontare, ma a cui convivenza li costringe.
A volte in famiglia si giunge anche a dimenticare gli affetti, a causa di questi contrasti, solo per superbia o per orgoglio, al punto da escludere una persona cara dalla propria vita. Sembra che non se ne voglia più sentir parlare, poi magari nell’incontrarla di nuovo si coglie l’occasione per darsi una reciproca spiegazione. Se con tuo fratello hai avuto uno screzio trent’anni prima e hai modo di comprendere le motivazioni della rottura – che spesso sono davvero banali - allora è come se dall’anima sgorgasse una goccia d’emozione che apre il rubinetto della memoria, dei bei ricordi passati insieme, del richiamo del sangue. Ecco che allora diviene possibile una sorta di ricongiungimento. Se invece l’antico screzio fosse una cosa seria, piena di rancore e odio, di incomprensioni e di dispetti reciproci, una persona resa saggia dall’età, a sessant’anni, non più spinta dai ventosi impeti giovanili, riflette, soppesa e si domanda: «Ma cosa me ne frega se mio fratello mi ha fatto una brutta azione trenta, quarant’anni fa, in un altro momento della vita, nell’immaturità della giovinezza? La famiglia è famiglia, sangue del tuo stesso sangue, c’è un legame che va oltre ogni piccolo dispetto, che vince sul rancore, sulla rabbia, sulla voglia di vendetta!». Si diventa adulti, non c’è più il tempo di tutta la vita davanti, ormai hai già perso dei pezzi della famiglia, magari tua madre, che ne era il cuore, magari tua nonna che ne rappresentava un polmone, o tuo nonno, che era un dito del tuo piede, oppure un cugino che rappresentava il tuo dito indice, quello con cui sei abituato a giudicare, allora ti assalgono i ricordi.
Io sono un uomo d’altri tempi e penso: «Ti ho fatto male? Bene, dammi uno schiaffo e pareggiamo la causa della nostra discordia! Ti chiedo scusa! Non volevo dire quella parola, ero arrabbiato! Non l’ho fatto volontariamente, o almeno forse non me ne sono reso conto…». Insomma, due persone perbene, dopo tanti anni, sono diventate adulte, allora basta parlarsi, spiegarsi, ascoltarsi, cercare la connessione interiore che aveva reso possibile la relazione, di parentela, di amicizia, d’amore: il legame resta per sempre, è solo nascosto nel profondo, pronto a essere rispristinato, se il destino lo vuole.
A volte mi è capitato di dire con benevolenza e affetto una parola che per me aveva un significato ma è stata interpretata male: «Ma sei un cretino!». Eppure non voleva essere un giudizio, o un’offesa, ma l’altro si è inalberato, si è sentito umiliato ed è nato un litigio. Io volevo intendere solo che era uno sciocco fanciullo, che non era il caso se la prendesse troppo. È stato un mio modo fanciullesco di agire, perché io sono “uno sciocco fanciullo”, chi fa il mio mestiere spesso lo è. Non è mica la fine del mondo, non bisogna prendersela per un nulla da ragazzini, crescendo si capisce che ci sono davvero valori più importanti nella vita…
Nei tuoi occhi si percepiscono dei grandissimi affetti, parliamo per esempio di Lucia Peralta.
Mamma? La colonna portante della mia famiglia. Mancando lei, in effetti, abbiamo rischiato che la famiglia si sgretolasse. Abbiamo faticato e stiamo continuando a faticare per impedire la distruzione della famiglia. Non è per niente facile, siamo tre maschi. Mio fratello, papà ed io. Se avessimo almeno avuto una sorella, si sarebbe potuta prendere il compito di tenere unita la famiglia, la famiglia siciliana, infatti, è incentrata sulla femmina, da noi a Palermo, “se non c’è la femmina la famiglia non c’è”! Per noi è stato difficile soprattutto perché papà da due anni a questa parte insegue i cartoni animati, mio fratello Mario sta a Bangkok e vive con la sua famiglia, io ho una mia famiglia e vivo a Roma. In qualche modo faccio da trait d’union tra papà e Mario, gioco forza ho sia un’eredità di famiglia che artistica.
Però spero che Lucia sia sempre là e mi stia dando una mano. È stata sposata con papà per cinquant’anni, era il perno attorno cui tutto ruotava. Certo che papà per tre volte papà ha deragliato, ma mamma era siciliana, gli ha dato tre ‘pizzoni’ e lo ha ricondotto per la giusta strada. È stata una grande donna!
Come affrontano, invece, nella scena questi tre figli il dolore per la perdita del padre?
Uno dei figli ha già una propria rabbia interna, un altro ha sfogato tutto vivendo costantemente con la madre, il terzo, invece, forse si è chiuso in sé stesso e ha trascorso la sua vita facendo il manager per accumulare denaro e ricchezze in generale. In realtà, per quanto quel padre non fosse mai stato presente, non c’è un vero e proprio giudizio morale su di lui. Perché si svela via via nel corso dello spettacolo, mentre si scoprono gli oggetti che gli appartenevano, che davvero i suoi figli lo conoscono poco, sembrano quasi delegare al pubblico presente in sala il giudizio su di lui, come a dire: «Signori, quest’uomo aveva quest’oggetto, possedeva quello e anche quell’altro, a voi l’ardua sentenza!». Ognuno di noi se lo tiene quasi per sé, tant’è vero che una delle mie battute dice: «Io non so se tutti questi oggetti papà li ha tenuti perché li voleva conservare, oppure se li ha dimenticati, come ha dimenticato noi tre…». Noi non lo sappiamo perché siamo stati abbandonati, il mio personaggio quando aveva 8 anni, il personaggio di Claudio 5 anni e il personaggio di Stefano 1 anno. Quindi ci ricordiamo davvero troppo poco di papà, il papà della scena, naturalmente.
Nelle fiabe c’è spesso il tema dei fratelli o delle sorelle. Nella cultura russa è famoso il personaggio di Ivan lo scemo, il minore tra tre fratelli, e tra di voi, esiste lo scemo del villaggio?
In un certo senso sì, però è solo apparentemente uno scemo, perché dice delle cose da scemo, ma tanto scemo non è. Ha una sua saggezza, non dico che sia una sorta di deus ex macchina, perché è un po' esagerato come riferimento, però è colui che ti guarda e dice: «Perché non facciamo così?». È quello che ti invoglia di più a farti dire di sì, proprio perché è il più debole, gioca su questa debolezza, come a dire “fammi contento”.
Tu interpreti il ruolo del maggiore, come ti rapporti nella commedia con la figura del padre?
In realtà nella mia famiglia di origine io sono il più piccolo, perché mio fratello Mario ha sei anni più di me. Ma nella commedia interpreto proprio il classico ruolo da figlio maggiore che vuole comandare sugli altri. Sono io quello che decide, anche perché interpreto il ruolo del manager, che è quello che ha avuto il maggior successo nella vita…Sono quello che dice: «Si fa quello che dico io!». E sono quello che vuole proteggere il fratello più in difficoltà, che in realtà non è quello più debole perché mi spinge a fare le cose che io non vorrei fare… Però mi diverte.
Per recitare una parte, entrare profondamente nel ruolo di un personaggio, spesso è necessario pescare un’esperienza nel proprio inconscio, hai attinto alla relazione con tuo padre?
No, ho attinto alla relazione con mio fratello, perché con la scomparsa di mamma non si sa perché, non si sa come, mi sono ritrovato a fare il fratello maggiore.
Quanto ti ha trasmesso come attore tuo padre Lando?
Tantissimo, fin da piccolo – avevo circa 6 anni - piuttosto che leggere libri, mi nascondevo nella libreria di papà e mi divertivo a leggere i suoi copioni. Quindi conosco molto bene tutti i personaggi che lui ha interpretato e anche quelli che poi non ha più fatto, li ho respirati nell’infanzia e ho osservato istante per istante il lavoro dell’attore su se stesso, la fatica per entrare nella parte, l’evoluzione del personaggio, il momento in cui tra mio padre e il personaggio non c’era più differenza, circolavano in casa come a braccetto, in un legame indissolubile, che poi gli rimaneva dentro per sempre, lui era diventato dentro di sé anche quel personaggio.
Io sono attore da quando avevo circa 7 anni. Ti confido una cosa che non ho mai detto nemmeno a mio padre: fingevo malattie strane per vedere se mio padre ci credeva. Una volta devo aver recitato così bene la parte del bambino che non riusciva più camminare che lui si è spaventato talmente tanto che si è messo in ginocchio a pregare la Madonna. E io ho avuto timore di dirgli che non era vero, perché altrimenti mi avrebbe gonfiato di botte…
Nella scenografia creata da Michele Funghi ci sono scatole e scatoloni. Che significato hanno questi oggetti di scena?
Lo scenografo ha voluto creare sia l’effetto di un’abitazione precaria, ancora nello stato di disordine, pronta per una partenza o un arrivo, ma anche suscitare la curiosità sia del pubblico che dei protagonisti stessi della vicenda che metaforicamente in quegli scatoloni vecchi e impolverati potevano immaginare qualunque ricordo, ricchezza, sorpresa o segreto. E poi, come ti ho detto prima, ogni oggetto era un elemento in più per conoscere quell’uomo che era stato mio padre.
Prima di fare l’attore facevi l’avvocato, hai respirato per dieci anni il tanfo degli Studi Legali, sicuramente hai avuto a che fare con beghe legali dovute a un’eredità?
Quello no, non mi sono mai occupato di eredità, io ho lavorato sempre nel cinema, con Gianni Massaro e con un altro studio legale importante, mi occupavo di Diritto d’Autore e di contrattualista sempre legata ai Diritti d’Autore. Era un dono per mio padre e mia madre, mio fratello aveva deciso di andar via per fare un altro tipo di vita per conto suo lontano dalla famiglia. Io, invece, sono rimasto impelagato nelle maglie della famiglia e, dato che papà non voleva che facessi l’attore a nessun costo, mi sono preso la laurea e ho fatto l’avvocato per dieci anni, poi a un certo punto gli ho detto: «Papà, io voglio far l’attore!».
Ma perché tuo padre e tua madre non volevano che tu facessi l’attore?
Mia madre voleva che facessi quello che più desideravo, era papà che non voleva, perché pensava che io fossi attratto dalle paillettes, dalle minigonne, dalle belle donne. In sostanza proiettava su di me quello che a lui affascinava da ragazzino, ossia le donne belle, le gambe, ecc. Ne ha conosciuto tante di belle donne sul set… Invece io volevo fare l’attore perché ne avevo bisogno: ho seimila personaggi nel mio corpo e ho bisogno di esercitarne il più possibile. E poi per una questione di piacere. Se una persona dice che gli sta antipatico Buzzanca, allora mi chiedo cosa ho fatto per risultare antipatico, mi dispiace. Ma la cosa bella che quando mio padre mi ha visto recitare – a me non ha detto niente –, ma agli amici, ha detto: «Mio figlio è più bravo di me!». Sentirmi dire questo mi ha ammazzato, per me è un peso enorme, perché papà non è stato uno dei tanti attori che girano il mondo e che fanno delle particine, lui è uno di quelli che hanno segnato un’epoca. È uno di quei 7/8 di cui tutti si ricordano come Vittorio, come Ugo, come Nino, come Alberto…
Tuo padre aveva un grande senso dello humor, aveva un volto che poteva anche non parlare e faceva ridere, bastavano i suoi piani d’ascolto. Come viene giocato il fattore comico tra i protagonisti, cosa rende la recitazione esilarante? I personaggi, l’assurdità della storia, gli oggetti presenti in scena?
Sono Claudio e Stefano che reggono la commedia, il mio personaggio è serio, se e quando fa ridere non è sulle battute, ma sul suo essere severo e sul contrasto con gli altri due protagonisti, che sono bravissimi, davvero due belle macchine da guerra!
Tra il serio e il faceto riusciranno questi fratelli a recuperare il loro originario affetto?
Il legame di sangue è indissolubile per una famiglia del Sud come quella dei Formisano, è in grado di trionfare su incomprensioni ed equivoci.
Nella scena compare anche un oggetto che i tre fratelli non si aspettano, quanto conta quest’oggetto?
Diciamo che potrebbe custodire la vera eredità del padre. Posso dire che rappresenta una sorta di ‘ulivo della pace’, alla fine porta a far sì che ci sia una specie di avvicinamento. Ma per comprendere meglio bisogna vedere la rappresentazione, non posso svelare cosa sia, ma ti stupirai.
Come ti sei trovato con i due fratelli veri, Stefano e Claudio Scaramuzzino?
Ottimamente, umanamente sono persone deliziose. Conoscevo Stefano molto prima, ho imparato a conoscere Claudio poco dopo, ma ormai come persone sono praticamente miei fratelli, come attori sono una scoperta, davvero bravi e preparati. E poi hanno i tempi giusti. Infatti, stiamo cercando altri testi da fare insieme anche se è difficile trovare dei testi con tre uomini.
Claudio Scaramuzzino, quale ruolo filiale hai dovuto inscenare nel tuo personaggio? Come ti calza questa maschera?
Nella commedia di Luca Giacomozzi interpreto Leo, il terzo dei fratelli, quello che più di tutti vive un rapporto conflittuale e distaccato con la famiglia: vede in questa eredità solo la possibilità di un riscatto economico, che possa salvarlo da una condizione estremamente precaria nella quale vive da anni, che nasce - come spesso accade - da un lato dalla completa assenza della figura paterna, e dall’altro da un rapporto conflittuale con il fratello maggiore.
Leo è quanto di più lontano possa esserci da quello che sono e dal modo con cui nella vita reale gestisco i miei rapporti familiari e sociali. È stato però estremamente interessante misurarmi con la sua maschera che, se apparentemente risulta cinica, disincantata e interessata al denaro, è in realtà l’ennesima rappresentazione del disagio umano, quel disagio che solo l’amore, il supporto e la ‘famiglia’ possono colmare. Famiglia che, beninteso, definisco nel termine più ampio e inclusivo. Non credo infatti possano bastare solo le radici per recuperare una famiglia, e soprattutto che il richiamo ‘del sangue’ sia solo un elemento facilitatore che, in assenza di sentimenti (che prescindono dalla familiarità) della volontà di chiarirsi, del desiderio di recuperare e di recuperarsi come persone in grado di migliorarsi e di amarsi, poco può servire.
Stefano Scaramuzzino, cosa significa invece per te rappresentare in teatro il personaggio del fratello del tuo vero fratello carnale? C’è qualcosa di simile nel copione a quello che è il vostro vero copione di vita familiare?
Carlo è un personaggio molto interessante da interpretare, mettere in scena o in video una disabilità (in questo caso mentale) è una sfida interessante che affronterò sul palco con grande slancio e spero che il pubblico apprezzi con l’unica moneta che noi attori siamo sicuri di ricevere: l’applauso.
Beh… sulla seconda domanda per fortuna no! Non ci sono mai state diatribe e problemi, siamo una famiglia molto unita e tirata su con principi morali che abbiamo sempre rispettato. Oltre il sentimento provo una stima immensa per Claudio e per l’uomo che è diventato, a volte anche meglio di me, è un esempio.
Massimo Milazzo, quali indicazioni hai fornito alla costumista Adelaide Stazi per questa commedia e che indirizzo hai assegnato a David Niccolò Nicosia per il disegno delle luci di scena?
La scena, concepita come luogo del ricordo e della memoria, sospesa nel vuoto e senza un’impronta realistica, prevede un’illuminazione che consente alle pareti costituite da velatini di mutare colore e intensità secondo le varie fasi del racconto. Senza dimenticare l’esaltazione delle lenzuola bianche che coprono i vari oggetti dell’appartamento trascurato. Costumi adeguati ai caratteri dei personaggi in scena. Carlo, eterno adulto-bamboccione. Leo, perenne maturo disoccupato. E infine Marco, rampante imprenditore vestito come Hannibal Lecter nell’ultima scena del film.
Massimiliano Buzzanca, se dovessi trovare un motivo per convincere lo spettatore a recarsi a teatro, cosa suggeriresti?
Prima di tutto dopo anni di tragedie sanitarie, guerre e crisi economiche, la leggerezza di una risata si consiglia a tutti come una vera medicina! In secondo luogo, il tema del recupero degli affetti familiari in una società dove la famiglia è in piena crisi, è importante da affrontare. Infine, poiché la realtà è piena di commedianti e pessimi attori, farsi un’esperienza a teatro è sempre utile e soprattutto si rischia di meno.