Dovete fare lo snob
ventiquattro ore al giorno
sia che siate sveglio o che dormiate(Il Duca di Bedford, Il Libro degli Snob, 1966)
Cos’è lo Snobismo? Il tredicesimo Duca di Bedford ci aiuta a comprenderlo in profondità in un suo delizioso libro che sfida i decenni e si trova incredibilmente ancora oggi nelle librerie. Un buon segno. Con un colpo di fortuna lo trovai un martedì nelle bancarelle di fronte alla Pinacoteca di Brera. Una seconda edizione italiana, della Sugar, con le illustrazioni di Francesco Tullio Altan. Nonostante l’attuale decadimento e appiattimento del gusto e della sensibilità sociale ed estetica (fatto di cui già si lamentava il Duca allora) quest’opera resta un landmark essenziale per la definizione e il rinnovamento dello Snobismo. Di tale atteggiamento abbiamo due possibili punti di focalizzazione: la dimensione sociale (ineludibile) e la dimensione psicologico-esistenziale. Oggi definire lo Snobismo è rilevante in quanto appare sempre più difficile riconoscerlo oggi proprio a causa del crescente narcisismo di massa e dell’equivoca attuale definizione concorrente di “vip” o “influencer”, solo in parte complementare e analoga.
Il Duca ci aiuta in modo illuminante nella comprensione in primo luogo mostrandoci come “lo snob” non sia in realtà quello che oggi intendiamo; cioè un vip altero o un vip un po’ colto o “figlio d’arte” cioè un “vip figlio di vip” ma al contrario sia un esponente del ceto medio o dell’alta borghesia di censo (o un nobile inselvatichito e decaduto) che desideri e ambisca crescere nella considerazione sociale facendosi accettare in quell’ “alta società” fatta di star, miliardari, grandi artisti, antichi aristocratici, di cui abbiamo idea tramite i film di Hollywood e l’opera stessa di Woody Allen il quale può essere considerato l’ultima anima intellettuale dello Snobismo statunitense. Woody Allen è un discorso critico che non esce però dallo snobismo nei suoi aspetti psicoesistenziali. Lo “snob” quindi socialmente (almeno all’origine del termine) è un “borderline esistenziale” in cerca di riconoscimento e di affermazione e quindi manifesta aspetti simili all’eccentrico, al disadattato. Bedford crede che il tuo etimo sia un’abbreviazione della sigla: s-ine nob-iltate. Quindi lo snobismo potrebbe essere anche visto quale tentativo di surrogare una nobiltà di cui si avverte l’ irreparabile e cronica mancanza o il tentativo di inventarsi un nuovo tipo di aristocrazia tramite l’affettazione dei gusti e degli atteggiamenti. Visto più positivamente lo snob è uno spirito libero e raffinato che appare a se stesso insoddisfatto per il contesto di relazioni sociali che vive e ambisce a frequentazioni più fastose e stilose. Il Duca di Bedford focalizza due assiomi fondativi dello Snobismo che possiamo qui riformulare nei seguenti termini: a) trattare le cose importanti con leggerezza e le cose leggere con serietà; b) lo Stile prima di tutto.
Lo Snob è sempre esistito? Ciclicamente penso di sì. Potremmo ad esempio rintracciare tratti snobistici nella cultura mista a decadentismo di un Petronio come nell’ironia letteraria di un cavaliere-poeta come Ludovico Ariosto. Michel de Montaigne appare con evidenza uno snob delle lettere ante litteram. A mio parere lo “snob” presenta tratti anche del “sopravvissuto”, come accade quanto un ceto nobiliare appare superato dai tempi nella perdita di un suo ruolo politico-economico diretto e centrale. Esiste quindi anche un preciso fattore storico in gioco. Pensiamo al 1789: dopo quella data il ceto nobiliare inizia in tutta Europa a “snobizzarsi” proprio perché inizia a perdere adesione alla storia, alla politica, al coinvolgimento diretto nelle decisioni più importanti. E così accade poi per la ricca borghesia nella società novecentesca post conflitti. Più il potere diventa cosa per pochi professionisti più il nobile prima e poi anche il ricco non si ritengono adeguati a “praticarsi quale alta società” solo per il titolo o il conto in banca. Occorre quindi sia distinguersi dai ceti inferiori che crescono economicamente con le società di massa come occorre pure “restare in alto” a fronte dei cambiamenti sempre più veloci e confusi di gusti, mode e stile. Il nobile e il ricco quindi trovano un terreno comune di alleanza e reciproca legittimazione proprio nella pratica dello snobismo quale nuova “religione dello stile”. Ovviamente la maestra e regina dello snobismo non può che essere da almeno un secolo e mezzo l’Inghilterra in quanto nazione che ospita contesti sociali che vivono da allora in un aristocratico tedio per via della rendita geopolitica imperiale di tale nazione, ancora oggi sussistente grazie al Commonwelt e grazie al fatto di essere Londra la prima capitale della Finanza mondiale.
Prima degli altri l’Inghilterra ha saputo vivere di stile e di continua creazione di mode e stili. Lo snobismo, pur ostentando tedio e un atteggiamento blasè verso l’esistenza quale cronaca in realtà ha bisogno di mostrarsi continuamente creativo e quindi è stato ed è una fucina-laboratorio di tendenze, tanto particolari quanto facilmente internazionalizzabili e serializzabili. E’ l’Inghilterra che ha inventato lo snobismo prima dell’Europa, prima degli effetti del 1789, e lo ha dimostrato dandoci Sterne, Byron, Wilde, Lytton e molti altri, senza dimenticare l’eccesso coloristico e simbolista di un Burne-Jones nel reagire uscendo da secoli di aniconismo puritano. In Italia più modestamente il Vittorio De Sica nel “Il conte Max” e la Franca Valeri in “Totò a colori” mostrano con facilità e chiarezza lo snobismo quale “atteggiarsi sociale di autoriconoscimento” che fa a meno sia del passato che del futuro e nel contempo è capace di accogliere e promuovere ogni novità e ogni innovazione purchè accetti i fondamenti di base dello stesso snobismo. Anche in Fellini i personaggi snob sono sempre presenti, anche in Amarcord, e possiamo percepire una sorta di “snobismo strisciante” sottotraccia fra surrealtà e autocostruzione del proprio mondo come nel personaggio dannunziano di Katzone nella “Città delle donne”. Dopotutto gli Usa, discepoli perenni dell’Inghilterra, non hanno giustificato il loro ingresso nel secondo conflitto mondiale (e nei successivi) con l’esigenza di difendere il proprio “stile di vita”? Lo “stile” appunto, ben più importante di idee, opinioni o provenienze.
Lo “Snobismo” quale “appartenenza di chi non possiede altra appartenenze”? Il Duca ci fa riflettere sulle basi naturali dello snobismo: il culto del disprezzo e della distinzione. Tutti tendono allo snobismo perché la vita, il mondo e l’umanità sono profondamente diseguali e tendono alla diseguaglianza: l’operaio specializzato disprezza l’operaio comune e l’operaio comune disprezza l’addetto alle pulizie e così via. Chi entra in un’associazione è visto con altezzosità da chi vi permane da tempo. Il “nonnismo” italiano, ovunque diffuso, è una forma di pratica popolare o associativa dello snobismo il quale nei suoi vertici può definirsi quale processo trasfigurativo estetico-linguistico di questa naturale tendenza alla distinzione. Lo sforzo costante che diviene abitualità naturale, apparentemente spontanea. Quanta auto-disciplina per diventare “snob”, cioè sembrare nobile anche se non lo si è e tale perdurare. Per Roberto Calasso invece il tema è facilmente risolvibile nel termine: “iniziazione”. Lo snobismo è un effetto dell’“essere iniziati”, cioè del considerarsi “già salvati”. Ma ogni linguaggio e ogni appartenenza non sono a loro modo forme sociali di iniziazione? E non usciamo comunque dalla prospettiva storica anche a seguire Calasso: è proprio l’aristocrazia annoiata di fine settecento e inizio ottocento l’humus fertile in cui si sviluppò l’esoterismo moderno. Da allora il ricco e il nobile sottilmente non si vanteranno più solo per il loro essere ricchi o nobili, o entrambe le cose, ma, infinitamente di più, per il loro appartenere ad una cerchia di iniziati al Mistero, all’Assoluto…o alla Bellezza…