«Fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza». I versi emblematici che Dante Alighieri fa recitare ad Ulisse vengono fin troppo spesso citati come esempio paradigmatico della giusta smania di conoscere e di proiettarsi verso nuove scoperte tipica dell’essere umano. Niente di più vero se al passo applichiamo un’ermeneutica “moderna” che non tenga conto delle fonti cui Dante deve essersi a sua volta ispirato per l’epilogo del suo personaggio e tra cui paradossalmente non c’è quella di Omero. Sì perché, quando si citano i versi suddetti, in genere si dimentica o si sottostima il dato più importante che fa da cornice al tutto: siamo nell’Inferno dantesco e precisamente in una delle bolge che accoglie il traviamento spirituale più grave, la fraudolenza.
Lungi dal concludere il suo viaggio con il lieto ritorno ad Itaca, l’Ulisse di Dante fa naufragio mentre tiene la rotta a sud-Ovest, verso i confini, non a caso, del mondo occidentale in cui finisce per sprofondare risucchiato da un gorgo insieme alla nave e ai compagni. La sua colpa: aver usato il linguaggio come fonte di inganni risultati fatali. Fin troppo esplicito è infatti il contrappasso per analogia che occulta il personaggio, insieme al compagno Diomede, dentro una fiamma a due punte che il poeta definisce “cornuta” e che si muove proprio alla maniera di una “lingua che parlasse”.
Le colpe esplicitamente attribuite da Dante ad Ulisse sono tre: l’inganno del cavallo di Troia, il furto del Palladio, l’abbandono di Deidamia da parte di Achille. Ma c’è almeno un'altra gravissima frode di cui il personaggio si macchia, non chiamata in causa dal poeta ma certamente a lui nota per il tramite del secondo libro dell’Eneide di Virgilio: l’inganno che procurò la morte dell’innocente eroe greco Palamede.
Della tragica e ignobile fine dell’eroe rende conto uno degli scrittori greci meno noti al grande pubblico, Filostrato, il “secondo” dei tre o forse quattro autori con questo nome, che agli inizi del terzo secolo d.C. scrive, tra gli altri, l’Eroico, un dialogo iniziatico tra un vignaiolo ed un fenicio in cui l’opposizione tra il personaggio di Ulisse, Odisseo per i Greci, e l’innocente Palamede è netta e può forse aiutare a chiarire l’ambigua natura della “conoscenza” di cui si fa portavoce il personaggio dantesco.
Palamede nel testo di Filostrato è un giovane eroe alquanto anomalo: è uno scopritore che non vuole scoprire, un inventore che non vuole inventare. A lui si devono, si dice, l’invenzione di alcune lettere dell’alfabeto, di pesi, misure e monete, del gioco dei dadi e degli scacchi e persino della divisione delle stagioni, degli anni e dei mesi. Quando gli viene offerto di venire iniziato ai segreti dell’arte medica dal centauro Chirone, Palamede rifiuta, non vuole “conoscere” oltre quella misura che potrebbe irritare gli dèi, non vuole esigere paternità di sorta nel suo scoprire per dare agli uomini. La sua autosufficienza, ci dice Filostrato, è improntata alla sophia, la conoscenza sapienziale.
Durante la guerra di Troia è allora inevitabile che egli si scontri con il diverso “conoscere” di Ulisse, la cui cifra è invece la mêtis, la conoscenza intellettuale che si proietta all’esterno, sta nel mondo, vuole il mondo. Quando il figlio di Laerte viene a sapere di un’eclissi di sole, legge il segno come sciagura imminente per i Greci. Palamede, invece, prima spiega la causa naturale dell’evento astronomico, poi rassicura sul carattere innocuo del segno per i guerrieri della Grecia. Ulisse non gli crede, si fa beffe di chi interpreta senza essere un indovino e invita Palamede ad occuparsi delle cose della terra invece che di quelle del cielo. La risposta dell’eroe, però, smaschera l’errore di Ulisse: le cose del cielo non sono diverse da quelle della terra e occupandosi delle une ci si occupa anche delle altre.
Palamede insomma vuol ricordare a Ulisse che la vera conoscenza non può soffrire “divisioni”, così come vuol dargli ad intendere che essa non può soffrire neanche “scopritori” allorquando all’accusa di non essere lui l’inventore delle lettere dell’alfabeto, Palamede replica che sono state infatti le lettere a scoprire lui. L’indignazione di Ulisse di fronte al candore ai suoi occhi saccente di Palamede cresce fino a diventare rabbia. La radice del nome Odisseo, infatti, è da riportare al verbo greco odýssomai che significa “adirarsi” e se nella versione positiva del personaggio ciò può essere ricondotto al furor sciamanico dell’eroe che è congiunto con il Sacro, nella sua manifestazione degenerata ciò indica invece l’ira di chi non riconosce il limite che deve superare a che la propria conoscenza diventi sapienza. Quando la “fiamma” della rabbia non accetta la verità, tende a manipolarla ad arte per occultarla a proprio vantaggio.
È così che il guerriero greco ordisce una trappola perfetta in cui fa cadere Palamede. Con la sua eloquenza Ulisse convince Agamennone che il giovane eroe trama contro il suo potere. Egli arriva perfino a scrivere una falsa lettera in cui Priamo avrebbe offerto dell’oro al guerriero in cambio del suo tradimento dei Greci. L’inganno riesce. L’innocente Palamede verrà infine lapidato dai suoi compagni chinando il capo ai colpi delle pietre. Il suo nome, dal greco palámē, significa “palma della mano”: la misura che ha dato il palmo, la praticità sapiente di chi fa da sé, come quando egli risponde a chi gli dà del rozzo perché non possiede servi, che ciò non è necessario giacché egli possiede mani.
Non ha guidato ad Ilio mai una nave né un uomo, Palamede, ma raggiunge la città su una semplice barca con la sola forza delle sue braccia. Non gli servono remi, sembra dire Filostrato. Il suo avversario Ulisse, molti secoli più tardi, nella studiata fantasia di Dante, avrebbe invece fatto naufragio a causa del calcolo insipiente di quel tipo di conoscenza che, tutta protesa verso la più immediata esperienza dei “sensi”, cerca di varcare il limite tra finito ed infinito attraverso l’illusione che i “remi” della nave possano diventare le “ali” della mente.
L’Infinito però non si raggiunge se prima il “mondo” non finisce. E il mondo da sempre è destinato a finire sul fronte occidentale, in un punto preciso, pericoloso, tanto da indurre Dante a chiedere al suo personaggio dov’è che egli è andato a morire. Ma tutto ciò che al riguardo sappiamo è che, tra le colonne d’Ercole, il confine del mondo degli uomini vieta il passaggio al “mondo sanza gente” esattamente lì dove la linea del pensiero orizzontale cerca invano l’inizio e la fine di un cerchio, lì dove la celebrata conoscenza di Ulisse non è ancora diventata sapienza e si incaglia perciò nel gorgo insuperato che l’affonda nella notte di una mente che conosce ma ancora non sa.