3 agosto 1503. A Gavinana, nel pistoiese, tremilacinquecento armati, guidati da Francesco Ferrucci, si battono disperatamente in difesa della città di Firenze contro un esercito di novemila uomini comandati da diversi capitani di ventura al soldo dell’imperatore Carlo V. Alcuni storici riferiscono che Francesco Ferrucci, prigioniero e ferito, viene condotto al cospetto di Fabrizio Maramaldo che lo colpisce a morte.
Prima di spirare Francesco Ferrucci avrebbe pronunciato la famosissima frase: “Maramaldo tu uccidi un uomo morto”. Questo gesto vigliacco renderà famosissimo Fabrizio Maramaldo, dal cui cognome e dal cui comportamento nascerà il verbo maramaldeggiare, ovvero – leggo nel vocabolario Treccani - “fare il prepotente con i deboli… esercitare sopraffazione o violenza contro chi non può ribellarsi o reagire”.
Il racconto di questo omicidio, faceva parte del repertorio di esempi edificanti e di gesti proditori ed efferati con i quali educavano noi ultrasettantenni di oggi, quando eravamo scolaretti. Ci propinavano, a volte con un pizzico di retorica, una lunga galleria di buoni ai quali ispirare sempre le nostre azioni e di cattivi di cui fuggire con attenzione l’esempio: da una parte Muzio Scevola, Cincinnato, Pietro Micca, dall’altra Caino, Giuda, Bruto, Ugolino della Gherardesca, Maramaldo.
E in soccorso a questa educazione un po’ manichea venivano le letture che ci proponevano e certa filmografia di successo degli anni cinquanta e sessanta, in cui i buoni avevano sempre la meglio sui cattivi, anche se l’appartenenza ai ruoli dei buoni e a quelli dei cattivi non era sempre chiara e certa. Ma su alcuni indiscutibilmente cattivi, come Maramaldo, non sono mai stati nutriti dubbi: erano personaggi reprobi e malvagi.
Poi c’è stata la epocale rivoluzione di Facebook che ha sconvolto le distinzioni tra buoni e cattivi, tra vincitori e vinti, tra feritori e feriti, tra sinceri e ipocriti.
Armi della rete sono diventati la tastiera, che può definirsi da combattimento, e il video del computer, nel quale si guarda senza essere guardati, protetti da un paravento vitreo attraverso il quale godersi le conseguenze prodotte dai colpi sferrati con la tastiera.
Si scatenano così vere e proprie tempeste maramaldeggianti con le quali travolgere i nemici nel momento in cui appaiono sconfitti, sopraffatti, atterrati o mortificati. Così è nata una grande arena virtuale dello sfogo dei piccini e dei frustrati, che finalmente si illudono di crescere di statura e, coperti dall’anonimato o da un nickname nella folla oceanica che ondeggia in rete, si sentono impunibili o, comunque, irraggiungibili da qualunque reazione di chi è colpito dalla maramaldesca furia.
Anche i più miti, i più accomodanti, i più tolleranti, quando esplode la sindrome di Maramaldo, si sbizzarriscono nell’esternazione delle più virulente forme di diffamazione, di ingiuria, di sberleffo, di ironia nei confronti di chi ha perso forza e potere. Il pensiero corre alla favola di Fedro del leone morente e degli animali che vanno a percuoterlo, sicuri dell’impunità, per vendicare ferite e offese ricevute o solo la paura che il re della foresta un tempo incuteva.
Ma nella sindrome di Maramaldo che si sfoga in rete spesso non c’è solo il desiderio di vendetta o di rivincita; c’è anche il meschino piacere di chi è insofferente o invidioso della fortuna e del potere altrui. Potere che non si ha il coraggio di mettere in discussione quando esso è al suo apice, come fanno quegli opinionisti e quei caricaturisti che transitano da una querela all’altra, ma si ha la sfrontatezza e la libido di sbeffeggiare, quando esso appare al tramonto.
Una delle più ghiotte occasioni, forse la più ghiotta, è quella delle elezioni politiche, soprattutto quando sono andate come queste ultime. Che godimento per i maramaldi italiani la mancata elezione di candidati dati per vincenti, la caduta imprevista dei big, il crollo di idoli che si sono infranti! Piuttosto che inveire contro i soliti che restano tetragoni a qualunque cambio di vento e incollati a poltrone difese con paratie e frangiflutti insormontabili dai marosi dell’imprevedibilità politica, si maramaldeggia sui caduti.
Grazie al copia-e-incolla e alle manipolazioni consentite dai tanti programmi di fotocomposizione, anche i meno dotati di fantasia e di capacità grafiche, si sentono irresistibili caricaturisti e attraenti commentatori.
Maramaldo diventa così il modello assoluto del cyberbullismo, che non è solo tipico di adolescenti e di giovanissimi, spesso allo sbando, ma anche di adulti che hanno per anni represso un’innata violenza e che finalmente si divertono a unirsi al gran coro di lapidatori.
Non si può fare a meno di ricordare allora l’economista Carlo M. Cipolla che nel 1988 pubblicò con Il Mulino l’irresistibile saggio “Allegro ma non troppo”, in calce al quale venivano esaminate: “Le leggi fondamentali della stupidità umana”. Questa la prima: “Lo stupido è colui che arreca un danno ad un altro senza ricavarne beneficio”.
Ed è proprio tale definizione che ben si addice al maramaldo della rete: uno stupido che arreca danno a un altro, senza ricavarne beneficio, con le aggravanti della banalità, della volgarità e della certezza dell’impunità.