Le parole subiscono spesso la stessa sorte delle persone che ci sono vicine: manteniamo per loro una forma d’affetto senza scosse, una dignitosa abitudine, ma, con il passare del tempo, ci dimentichiamo di amarle. Dimentichiamo il suono della loro voce, non sapremmo dire il colore dei loro occhi o descrivere le loro mani. Non ci ricordiamo che hanno bisogno di noi, delle piccole sfumature del nostro bene, talora anche della nostra passione.
Le parole sono come i luoghi della nostra quotidianità. Ci abituiamo tanto alla loro presenza, alla loro presunta immutabilità che dimentichiamo di guardarli, non li vediamo più, diamo per scontato che saranno sempre lì, finché un giorno, per caso, magari dopo molto tempo dall'avvenuto cambiamento, ci accorgiamo che qualcosa è mutato e allora abbiamo la netta sensazione di avere irreparabilmente subito una morte, un distacco di cui non ci siamo resi conto. Ed è solo il rimpianto che permette al nostro cuore di custodire la memoria di ciò che abbiamo perduto, ma poi, si sa, il tempo cancella i ricordi e tutto, anche il bello e il bene, si dissolve nella lontananza.
Anche le parole, come tutte le creature, chiedono cura, affetto e gentilezza per continuare ad incontrare la vita e la prima via attraverso la quale esprimere questi sentimenti è certo tornare a conoscerle e a riconoscerle nella loro bellezza, talora alquanto sbiadita, privata di quella brillantezza adamantina che viene dal sentirsi ammirate e al centro della scena.
E’ dunque un atto d’amore nei confronti delle parole quello che fa nascere Save the Words la Campagna Internazionale in Difesa delle Parole che in questo 2022 celebra il suo trentesimo anno. Data alla luce nel 1992 a partire dal mio libro Favolose Parole pubblicato in quello stesso anno dalle Edizioni Riunite di Roma, il suo intento è quello di ridare forza alla comunicazione, di riscoprire il piacere dell’ascoltare e del dire, un piacere fortemente legato al ben-essere che mi piace tradurre come essere nel bene, nonché al lavoro di cura così intrecciato con la generosità e la compassione.
Per rendere il dovuto omaggio alle compagne del lungo e talora impervio cammino, ho voluto ritrovare parole che segnarono l’inizio di questa impresa che ancora ha motivo di esistere e resistere dal momento che oggi ancor più di allora la parola è una specie a rischio.
L’impegno per salvare loro la vita nasce dalla convinzione che esse siano tracce che noi lasciamo seguendo le quali altre parole verranno ad incontrarci e dunque penso alle parole come monumenti che racchiudono segni di infiniti passaggi, che raccontano storie di vite trascorse, di uomini e di eventi che, attraverso la parola, hanno dato corpo al loro esistere, al loro compiersi sulla scena del mondo, parole come preziosi depositi di manufatti, come archivi di memoria individuale e collettiva, intreccio di saperi, universi paragonabili a musei di arte e civiltà. Un’opera di conservazione e restauro.
Lasciar cadere le parole nell’oblio è come lasciar crollare un edificio di antica storia, come perdere una preziosa testimonianza di identità, staccarsi dalle proprie radici.
Salva una parola salva un mondo è questa la formula chiave che abbiamo scelto per salvare la vita delle parole, una modalità che non esclude alcuna forma espressiva né alcun mezzo di comunicazione. Parole in libro, parole in cartolina, parole da collezionare, parole da raccontare, parole da indossare, parole da guardare, parole che si servono di ogni mezzo per salvarsi la vita, ma che ci danno anche il loro aiuto per salvare e non impoverire la nostra.
La parola tocca tutte le arti e a tutte le arti attinge ed è intrecciata. La parola, plasmabile, attraversa tutti i sensi, sa essere materia prima per ogni creazione: è segno quando prende forma nella scrittura, è suono , è danza, è respiro, è gesto quando la voce le dà corpo, è visione nell’immagine che riesce a suscitare, è spectaculum ovvero luogo da cui vedere ed essere visti. La parola è profezia, è formula guaritrice che si tramanda di madre in figlia all’equinozio di primavera, la parola è invocazione, è canto sacro.
Le parole sono creature da incontrare e con le quali entrare in empatia, anche quando si tratta di parole “bellicose” che vorremmo allontanare dall’uso quotidiano e in questo caso possiamo scriverle sulla carta e strapparla così da togliere loro la forza distruttiva.
Perché le parole possano vivere devono muoversi, toccarsi, allontanarsi e ritrovarsi. Devono andare sempre alla ricerca di altre parole.
Prendersi cura delle parole significa ritrovare il piacere di ascoltarne la storia, ritornare a dedicare loro un tempo ed uno spazio, liberati dall’obbligo, nutrirle con amorevolezza, cogliere le mille sfumature dei loro tratti, le piccole rughe che parlano di antiche emozioni, festeggiare le nuove nascite, guarirne le ferite attraverso il balsamo odoroso della scrittura che le appoggia delicatamente sul foglio.
È importante l’azione dello scrivere la parola, osservare il gesto per mezzo del quale la mano trasforma il segnale che viene dal nostro cuore e dal nostro pensiero: un’esperienza che aiuta ad entrare nella nostra dimensione interiore, un modo per incontrare i nostri stati d’animo e lasciare al segno che si esprime sulla pagina il compito di svelarli e tradurli in forma visibile. Ci sono parole leggere, parole pesanti, parole fluide, parole rotonde, parole aguzze, parole spigolose, parole sonanti, parole dolci, parole amare, parole calde, parole fredde. Le parole cadono sotto i nostri sensi e noi le possiamo trasformare in un soggetto rappresentabile e percepibile.
Ormai abituati alla lettura interiore e silenziosa, non vocalizzata, andiamo perdendo il gusto musicale, la percezione della sonorità che non è soltanto un fenomeno acustico, bensì quel veicolo fondamentalmente corporeo in grado di dar vigore all’intelligenza emozionale. Le parole hanno bisogno di essere dette perché solo così possono essere messaggere di emozioni, solo così possono muoversi e viaggiare, possono incontrare altre parole e condividere pensieri, sensazioni, idee. Le parole sono creature dell’aria; è nell’aria che si librano quando noi le pronunciamo, l’aria è l’elemento in cui risuonano le loro vibrazioni, nell’aria si rincorrono per raggiungere o inseguire altre parole. Il nostro respiro permette loro di nascere dal nostro pensiero, dal nostro cuore per trasformarsi nella materia sottile del nostro dire. Le parole che noi pronunciamo con gioia, aprendo il nostro cuore sono parole che arrivano lontano, che salgono in alto, che possono toccare il cielo. Per ritrovare il piacere di ascoltare la parola che è creatrice di immagini, bisogna prendersi tempo, prenderci il tempo per accarezzare le parole, per farle respirare insieme a noi, per farne compagne di viaggio, interpreti di sogni e desideri. L’immaginazione ci mette in stretto connubio con le parole: possiamo “vederle”, dare loro forma, ascoltarle quando evocano visioni.
Così si restituisce alla parola tutta la sua udibile teatralità, se ne fa una partitura verbale nella quale le parole si ascoltano come un brano di musica, si guardano esteticamente abbandonandosi al loro fluire e lasciandosi rapire dal loro incantesimo, concedendosi al ritmo del loro dipanarsi perché soltanto così esse accettano di guidarci in viaggi fantastici.
Le parole sono macchine volanti che portano nell’aria i nostri desideri e i nostri pensieri.
Un tempo venivano legate agli aquiloni per portare i messaggi che gli uomini volevano far giungere alla divinità. E come aquiloni mi piace pensarle che si librano gioiose nell’etere accompagnate dalle intenzioni di chi li guida andando incontro al proprio sogno di volare.
Le parole vivono se possono nutrirsi attraverso le energie che diamo loro usandole e curando la loro immagine.
Possiamo invitarle ad entrare in un racconto e per fare questo le parole si cercano i compagni di viaggio: altre parole che abbiano tra loro un’affinità, un legame o che desiderino semplicemente stare insieme.
Ci sono parole che possono amplificare le risonanze dei messaggi visivi, capaci di suscitare la curiosità ed attesa, parole esteticamente ammirabili, conturbanti o ammaliatrici, parole che possono fermarsi nella memoria attraverso un particolare tempo di ascolto o di osservazione della parola stessa mentre questa viene detta o scritta, parole per meditare e per migliorare quasi terapeuticamente l’attenzione.
Quello che porta alla creazione della parola è un processo lungo, accidentato, denso di fratture, di lacerazioni e di ricuciture, spesso lento, impercettibile e proprio per questo difficile, talora incomprensibile, fatto di entusiasmi e di malinconia, di attimi drammatici e di gioie improvvise e dirompenti, di silenzi e di ascolto, di piccole sfumature e di forti colori, un processo che non ha fine come non ha fine il respiro, il soffio che dà nutrimento e crea la trama sonora sulla quale la voce tesse le forme della parola, un processo che contiene il mistero della vita.
Per questo il tessuto della scrittura ha a che fare con la fatica della nascita, con la pazienza che ne accompagna l’attesa, con la capacità di percepire i segni che ne sono preludio: parole come semi che devono essere accolti, deposti, ascoltati crescere fino a transumanarsi in emozioni che alimentano e sono alimentate dalle vibrazioni dell’anima.
Nella tradizione indù la Parola assume le sembianze di Vac, la sposa di Brahma ed è Lei che si fa portatrice del doppio nutrimento, quello corporeo e quello che passa attraverso le sillabe prime e dà vita al linguaggio, a mostrare così l’intreccio originario della materia sottile con la fisicità ed a testimoniare la sacralità della parola e il suo legame ancestrale con la potenza generante.
La parola fatta nascere con amore invade i sentimenti, induce la commozione che purifica, dischiude un mondo di sensazioni che rimanda a memorie lontane, che passa attraverso il gesto della mano che scrive srotolando e facendo scorrere tra le dita il filo dei ricordi come su un antico telaio.