Agosto, moglie mia non ti conosco è il titolo di un irresistibile romanzo di Achille Campanile pubblicato nel 1930 che varrebbe la pena di rileggere, o leggere per la prima volta per chi non l’ha mai fatto, come rimedio allo stress procurato dall’obbligo delle vacanze estive, dalla fatica di affrontare divertimenti obbligatori, dall’alimentazione non sempre degna delle stelle di guide specializzate, da compagnie occasionali spesso difficili da sopportare, dai sacrifici ai quali ci si sottopone.
Consigliabile, dunque, questo romanzo proprio come lettura estiva per affrontare la noia dell’ombrellone o di uno spostamento in treno o in un aliscafo affollato, per combattere l’insonnia provocata dal caldo, per rassegnarsi serenamente, piuttosto che disperarsi inutilmente, quando si realizza che l’albergo scelto è scomodo e che il vicino di lettino è rumoroso e invadente. Perché l’estate raccontata da Campanile è quella di quasi un secolo fa, ma, alla fine, non è molto dissimile da quelle attuali.
Certo, i tempi sono cambiati e sono cambiati dal 1930 ad oggi i regimi, i contesti politici, le abitudini del consumo turistico, i mezzi di trasporto, l’utilizzo del tempo libero, l’abbigliamento balneare, gli strumenti per dar fastidio agli altri.
Ma scorrendo le pagine del romanzo, tra pensioni economiche e scomode, ristoratori avidi e poco educati, comandanti di navi da crociera distratti, villeggianti a caccia di avventure galanti, ci si rende conto non solo che non siamo mutati moltissimo, ma che dai nostri difetti, dalle nostre illusioni, dalle nostre fissazioni invece che ricavare motivo per rammaricarci e flagellarci, si può trarre spunto per ridere, per evitare di prenderci sul serio, per affidarsi al beneficio dell’autoironia e soprattutto della dissacrazione e del paradosso.
A leggere per la prima volta Campanile può capitare di chiedersi come mai sia stato dimenticato uno scrittore così divertente e piacevole, così spiritoso e ironico, così imprevedibile nel fulminare chi legge con freddure e calembour esilaranti, e che soprattutto ti fa sorridere di te e delle cose per le quali vige da sempre un timore reverenziale.
Per carità, il Novecento italiano è stato ricco di poeti e di scrittori importantissimi, molto impegnati, giustamente premiati, opportunamente studiati, adeguatamente proposti agli studenti, immortalati da trasposizioni cinematografiche che hanno fatto la storia, anche prestigiosa, del nostro cinema. Ma non sempre portati alla leggerezza, all’ironia, all’umorismo, all’allegria.
Allora viene voglia di saperne di più di questo scrittore: un signore ironico, sorridente ed elegante, che si ostinava ad usare il monocolo, che si divertiva a fare a pezzi i mostri sacri dell’arte, della letteratura, della scienza. Un esempio. Dei personaggi che popolano la letteratura russa, intoccabili eroi di altrettanto intoccabili autori, Campanile ebbe il coraggio di scrivere: “Sono tutti un poco pazzi, sporchi, alcolizzati e destinati a morire nel corso del racconto (è il loro lato migliore). Tra essi, a causa dei nomi, farai una confusione spaventosa. Leggerai i nomi senza capir mai a quale personaggio si allude”.
Ecco la sua grande arma: la dissacrazione. Bonaria, sorridente, elegante, raffinata quanto si vuole, ma sempre dissacrazione.
Esilaranti uno più dell’altro i trentanove racconti che compongono la sua opera forse più divertente e irridente, Le vite degli uomini illustri, vera e propria officina letteraria di demolizione di mostri sacri, quali, tanto per citarne qualcuno, Archimede, Antonello da Messina, Voltaire, Beethoven, Casanova. Tra tutti si cita il “Vero dramma di Beethoven”. Paradosso e dissacrazione connotano la disavventura del musicista raccontata da Campanile. In breve. Siccome Beethoven era sordo non si accorgeva che non riusciva nel suo intento di comporre valzer allegri. Ne venivano invece fuori trascinanti e toccanti sinfonie e, quando si accorgeva che il pubblico si commuoveva invece di divertirsi, se ne rattristava pensando che anche quest’ultimo valzer gli era riuscito male. Perché non dirglielo che quello che lui credeva fossero valzer erano invece sinfonie? Si chiede l’autore. E dà la risposta. Era inutile dirglielo perché Beethoven era, appunto, sordo. E non era nemmeno il caso di farglielo capire perché era noto che aveva un caratteraccio: collerico, permaloso e litigioso.
Per non dire di altre opere da non perdere assolutamente come Gli asparagi e l’immortalità dell’anima, In campagna è un'altra cosa, Ma cosa è questo amore. Eppure lo abbiamo dimenticato. E non è il solo.
Abbiamo dimenticato Guareschi, che ogni tanto ci viene riproposto in televisione nelle trasposizioni cinematografiche di tanti anni fa con le sempre scoppiettanti controversie tra Gino Cervi e Fernandel nei panni di Peppone e Don Camillo.
Stessa sorte è toccata alla verve sorniona di Ennio Flaiano che ha dato sempre battaglia ai più scontati luoghi comuni del buonsenso e del perbenismo degli italiani, con la raffinatezza e l’eleganza dell’uomo coltissimo, ma sempre leggero, sapido, ironico. A proposito di libri, lettura e recensioni, rimase famosa una sua frase che ha fatto scuola: “Non l’ho letto e non mi piace!”.
Per non parlare di Leo Longanesi, maestro impareggiabile di ironia e di auto-ironia. Di sé disse: “Sono conservatore in un Paese dove non c’è niente da conservare”.
Tradizione culturale un po’ musona, quella italiana? Forse. Colpevole la scuola dei tempi dell’adolescenza di noi settantenni di oggi? Forse. Paura dell’ironia? Forse. Paura d’essere distrutti da una risata? Forse.
Però, torniamo al nostro Achille Campanile. Campanile, soprattutto dalle colonne del settimanale L’Europeo, si interessò molto e molto a lungo di critica televisiva. Se avete tempo, andatevi a leggere un gradevolissimo libro, La televisione spiegata al popolo, pubblicato nel lontano 1989 e ripubblicato nel 2003 – ahimè, pure lui ormai lontano! – da Bompiani. Si tratta di un’antologia di articoli e di recensioni di Campanile scritti in un arco di tempo molto ampio dal 1958 al 1975. Non c’è solo la storia della televisione italiana di quegli anni. C’è di più. C’è un approccio sempre disincantato, ironico, sfottente, graffiante nei confronti di tantissimi personaggi televisivi di allora, compresi i cosiddetti “mezzibusti” dell’informazione e i divi dello spettacolo e della politica.
Ci viene da sorridere a immaginare cosa mai scriverebbe oggi Campanile di fronte allo spettacolo che dà di sé la televisione e chi la fa. Ma forse, visto che siamo nel campo dell’immaginazione, ci viene da sospettare che, se ci fosse in giro uno come lui, caustico e sereno, gentile e implacabile, sornione e imprevedibile, forse chi si alterna da un canale all’altro, da una trasmissione all’altra e da un talk show all’altro a dire la sua, starebbe più attento e più misurato. Per paura d’essere colpito implacabilmente, o peggio, ridicolizzato da uno nuovo scrittore ironico, beffardo, dissacratore e divertente alla maniera di Achille Campanile.