L’odore acre dei fichi squarciati sull’erba, rinsecchita dalla calura: una sensazione di morta stagione che lascia tracce di una vita sempre più consumata dal tempo che preferisco chiamare della maturità anche se non è che il nome mutato della vecchiaia.

Permane il sentore disadorno dei tigli rimasti ancora sui rami senza più vigore, senza pienezza di vita.
Rivedo la tua mano che si avvicina ai fiori appena sbocciati così da sentirne più intensamente il profumo. Osservo il gesto lieve delle dita che sembrano voler accarezzare un piccolo uccellino appena uscito dal guscio.

Immagine di rara bellezza.
Tenerezza indimenticabile.

Percorrere quel viale nelle sere di prima estate era un’esperienza inebriante per l’olfatto e per lo sguardo.

La voce della civetta si univa a quella dei grilli e delle raganelle in un concerto di note che raccontano storie di umide notti senza vento, rinfrescate solo dal suono del fiume.

Cominciano a prendere forma e colore le mele cotogne, di un giallo colmo di sole.
La memoria me ne lascia intuire il profumo maturo.

Curarsi con la bocca,
con gli occhi,
curarsi con il cielo,
accordare il cuore
con le foglie
con le formiche.
Curarsi
con la preghiera,
leggendo poesie,
curarsi col sole,
col vento,
prendere la medicina
dell’alba
lo sciroppo della lingua.
Tornare agli occhi,
allo sguardo,
il tuo sguardo salvavita.

(F. Arminio, Manifesto della terza medicina)

Stiamo perdendo questa memoria sensoriale, tattile, olfattiva, la Rete ci allontana dal corpo.
Non c’è più tempo per dire, non c’è più spazio per ascoltare.
Non c’è desiderio di conoscere attraverso tutti i sensi.
Nella Rete non c’è il gusto, nessun odore.

Non conosco allegria nel mese di agosto intriso di noia e di malinconia, permeato dall’esagerato suono delle cicale.

Si cerca un aggancio che ci faccia tornare al pensiero dell’attesa ricca di speranze, attendiamo il passaggio dei sogni donati dalle stelle cadenti.
La coscienza del dolore insegue anche la bellezza dei ricordi, si aggrappa alla memoria della gioia per lasciare spazio ad altra tristezza sempre capace di stupirci e di avvilupparci nei suoi tentacoli.

Ricordare è tendere l’orecchio alla vita volgendo lo sguardo verso l’inizio, là da dove abbiamo preso le mosse.
Percorso a ritroso, anzi in realtà percorso nuovo, non per ritornare da dove siamo partiti, ma per creare una via nuova, altra di senso.

Le parole, come tenere colombe accarezzate da un soffio, si aprono al suono dell’universo, raccolgono il fremito delle emozioni, si schiudono all’ascolto di un sussurro, ma si richiudono per non udire il sibilo del tempo.

La parola è tempo. Il tempo è spazio e la parola si colloca al centro dello spazio e del tempo. Il pensiero è una continua formulazione di parole; quando pensate non potete fare a meno delle parole.

(J. Krishnamurti, Il libro della vita)

Ritrovo le mie parole scritte ad un amico di viaggio, adagiate fra le pagine sgualcite di un libro, le leggo ad alta voce per non perdere anche il senso del suono, per far prendere loro il respiro:

Nel bosco oscuro della solitudine
ci si riconosce, si cerca il battito di un’anima
che ci aiuti a volare nella luce,
come gatti in cerca di domani

Ritorna il pensiero antico della speranza
che sta nascosta nella grotta della felicità
Si annaspa nel quotidiano
per non annegare nell’oceano dei ricordi,
per non precipitare nell’abisso del sapere

La notte graffia il cuore,
ferisce i sogni, uccide il pensiero
con la sofferenza del passato
che non ha futuro, eppure il giorno
torna a risplendere

La parola è potente, travalica il senso,
è soffio di altre vite, chissà dove,
chissà quando

Dov’è la purezza? Dov’è l’innocenza?
Sembrano perdute nel vortice del tempo
che non perdona

C’è un fine nella sofferenza?
C’è una pienezza che colmi il vuoto che inquieta,
che non concede riposo, il riposo dell’animo
che ha accolto la prova del destino?

Non ci è dato sapere.

Ognuno di noi sta compiendo il proprio percorso e deve confrontarsi con la fragilità, con il tempo sospeso, con l’incertezza dell’oggi ancor prima che del domani.

L’impermanenza è la grande verità che più che mai si è svelata ad una umanità lanciata senza freni verso l’eterna sicurezza di spettacolarizzata felicità, di progresso senza fine.

Sappiamo nel corpo che tutto scorre, si trasforma, finisce e ritorna, sappiamo nel corpo la sofferenza; eppure, continuiamo caparbiamente a contrapporre la gioia a un dolore che ci mette a dura prova ma ci modifica nel profondo.

A fatica tengo a bada la tristezza e quasi mi sento sperduta inoltrandomi in pensieri che sfuggono al controllo di una possibile gaiezza.

Tra quelli che, come si faceva un tempo, ho scelto come libri dell’estate, voglio attingere alle parole di Franco Arminio nel suo Manifesto della terza medicina edito da Animamundi:

Ora ho capito
che la mia vita è veramente bellissima
Non ci credevo
non ci volevo credere, pensavo che la
morte
se la potesse portare via questa bellezza
e invece la morte è solo una scatola poggiata
nella mia stanza, io ci frugo dentro
come se volessi trovare qualcosa di ulteriore
a quello che trovo nella vita.
Abbiate cura di credere
alla bellezza della vostra vita,
è difficile che non sia bella,
è veramente difficile.
E non dovete combattere con nessuno
e nessuno vi deve guarire,
non dovete chiudervi in una forma,
ma volteggiare,
trapuntare il mondo con un ago,
con la testa di una farfalla,
e restare sospesi,
non serve a nulla decidere,
conficcarsi, il segreto è soffiare
sui sentimenti, tenerli in aria
assieme agli angeli e alle nuvole.
Oggi siete tutti salvi ai miei occhi,
non ho niente da contestare,
alla fine so fare solo due cose:
scrivere e farmi chiaro,
portare nel mondo il chiarore
che portano gli uccelli.

Sono parole assai diverse dal pensiero dominante ed anche dal mio, ma sono un profondo e prezioso terreno di riflessione per i mesi che ancora ci separano dal grande freddo.
Sono parole che mi colpiscono perché fatico ad essere in armonia con questo tripudio di fiducia, eppure provo gioia nel dipanarsi di questo filo di amorevolezza e speranza.
Parole liete di offrirsi e offrire una ventata di allegrezza, una parola ormai cancellata dal linguaggio non solo per raggiunti limiti di età bensì perché sempre più fatichiamo a ricordare che c’è stata nella vita di ognuno una pausa d’allegria, una scheggia di gioia spensierata, una risata lasciata uscire dal cuore.

A cura di Save the Words®