Com’è possibile creare valore attraverso il circolo virtuoso imprese-università-istituzioni-territorio? Come progettare l’università che guarda al futuro? A queste e ad altre domande risponde il professor Giuseppe Tardivo. Al grande studioso, ritenuto una delle figure più autorevoli del mondo accademico, istituzionale ed economico-finanziario nazionale ed europeo nel settore del business management, il 5 e 6 maggio a Cuneo sono stati dedicati un workshop e degli “Scritti” in suo onore.
Professor Tardivo, la parola “valore” racchiude in sé una pluralità di accezioni e un'ampia varietà di concetti che il termine esprime in campo economico. Quali sono i significati principali di tale voce?
Il valore, dal latino “valeo", che letteralmente significa avere forza, avere potenza, star bene, ma anche essere capace, è il nucleo concettuale attorno al quale gravita tutta la riflessione economica. Oggi, il concetto di creazione di valore ha assunto una posizione dominante nella letteratura economica e nella pratica empirica di gestione aziendale, grazie alla persistenza del suo ruolo di ricerca del vantaggio competitivo. Le più recenti interpretazioni della teoria della creazione di valore enfatizzano infatti la necessità di sviluppare un nuovo potenziale imprenditoriale, capace di generare forze competitive e risorse innovative, conferendo maggior dinamicità e coerenza a una finalità dell’impresa che originariamente considerava unicamente la dimensione relativa alla generazione di capitale economico. Il processo di creazione di valore appare anche strettamente correlato al fenomeno della globalizzazione, avvenimento affascinante ma difficile da gestire che costituirà certamente la sfida imprenditoriale del futuro.
Cosa ritiene di valore per gli studenti, la comunità scientifica, le imprese e la collettività?
In un contesto competitivo caratterizzato da rischio e incertezza l'università è chiamata a riposizionarsi, a ripensare a sé stessa, a ridefinirsi rispetto a una situazione finalmente in movimento dopo anni di stallo: autonomia, responsabilità, trasparenza, capacità di competere e di creare valore, attrattività, orientamento alla ricerca rappresentano altrettanti criteri guida dell'università che vogliamo costruire, di un’università capace di usare il mercato, di misurarsi con il mercato e rispondere alle esigenze delle imprese e del sistema socio-economico di riferimento. Ma per l'università non esiste soltanto il mercato. Esiste anche la società nel suo complesso e nelle sue articolazioni che non hanno prezzo, ma sono tuttavia meritevoli di essere prese in considerazione. C'è la competizione, ma c'è anche la solidarietà. Questi, a mio avviso, sono i valori fondamentali di un’università orientata al futuro, capace di costruire "il cittadino di domani”.
Adriano Olivetti. negli anni '50 del ‘900 sognava la “fabbrica a misura d'uomo". Oggi quali sono le vie attraverso le quali i ricercatori del settore potrebbero generare valore per le imprese e quali dovrebbero essere le finalità e le caratteristiche di una moderna impresa?
Stiamo vivendo, ormai da anni, in un periodo di notevoli cambiamenti che incidono in maniera radicale sia sul modo di concepire l’impresa e il suo management, sia nella pratica operativa nella quale il mondo imprenditoriale si trova direttamente impegnato. In quest'ottica, un aspetto che si sta affermando con forza è il passaggio da un mercato basato sull'offerta a un mercato basato sulla domanda. Il consumatore ha un ruolo sempre più autonomo e sta diventando esso stesso stimolatore di innovazione, realizzazione di nuove linee di prodotti, servizi e conoscenza sul mercato. La capacità di sopravvivere sul mercato dell’impresa non si esprime più unicamente nella capacità di controllare i costi, e quindi nella sua efficienza, ma nella possibilità di rispondere adeguatamente alla domanda. É dunque da questi fattori che nasce nell'azienda di oggi la necessità di ricercare sinergie operative nelle sue componenti strutturali: gestione dei costi, gestione finanziaria, processo di pianificazione, approccio al mercato, acquisizione delle competenze scientifiche, tecnologiche, distributive e commerciali, organizzazione, rapporti con l'ambiente, gestione delle risorse umane.
Dalla Seconda guerra mondiale in Gran Bretagna fu introdotta l'espressione "Welfare State". Quali sono secondo lei leve di benessere che rappresentano i fattori di valorizzazione integrata delle relazioni tra capitale umano, capitale sociale e capitale semantico?
Il "Welfare State" (letteralmente "Stato sociale" o "Stato di benessere”), può essere definito come lo Stato che assume la responsabilità di coprire i bisogni fondamentali delle persone in quanto riconosciuti come diritti inalienabili. L'obiettivo è di superare la tentazione dell'individualismo rendendo tutti consapevoli che la persona non può esistere e non si realizza se non in reciproca connessione e interattività relazionale. Seguendo H. Arendt: "Il divenire della persona e l'umanizzarsi non avvengono nella misura in cui ognuno afferma sé stesso a danno degli altri, ma nella relazione con gli altri”. Per la costruzione del “Welfare State” occorre ripartire dalle comunità territoriali con la loro storia, la loro cultura, la loro economia, le loro aggregazioni sociali, il loro sistema di valori, individuando percorsi di crescita e prospettive condivise per costruire un futuro basato sulla "centralità della persona". In quest'ottica il concetto di "impresa sistemica", che vede l'impresa al centro dei molteplici interessi degli stakeholders, recentemente proposto dalla dottrina economico - manageriale, rappresenta sicuramente un rilevante "passo in avanti", un "salto concettuale" rispetto al passato per una diversa e più incisiva partecipazione al "bene comune".
Per Aristotele, nell'antica Grecia avere a cuore la vita della polis rappresentava il bene comune. Oggi possiamo ancora considerare lo stesso concetto di bene comune al centro dell'interesse della cultura laica?
L'espressione "bene comune" è piuttosto difficile da definire. Possiamo appoggiarci alla definizione che ne dà il Cardinal Martini: "L'insieme delle condizioni di vita di una società che favoriscono il benessere e il progresso umano della collettività". Aristotele, citato nella sua domanda, considera "beni" i fini che l'uomo persegue nel suo agire e afferma che il più alto fine che l'uomo possa perseguire è la costruzione della polis, della città. Concetto ripreso dalla cultura romana, in particolare da Cicerone e Seneca, con la res publica e ritornato prepotentemente in auge nel Medioevo con San Tommaso d'Acquino. In tempi più recenti, il concetto è stato approfondito dalla Dottrina Sociale della Chiesa. Papa Giovanni XXIII, ad esempio, nell'Enciclica Mater et Magistra lo considera come "l'insieme delle condizioni della vita sociale che permettono alla collettività e ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione". Sulla base di questi concetti la cultura laica che permea la politica contemporanea ha ampliato il concetto di "bene comune", considerandolo "motore di sviluppo della collettività”, superando così il rigido bipolarismo Stato - impresa con l'attenzione, ripresa anche in ambito accademico, al "Terzo settore", cioè al soddisfacimento delle esigenze della collettività e del territorio.
Don Luigi Sturzo affermava: "L'economia senza etica... diventa diseconomia". Quali sono le sue opinioni in merito?
La tematica del comportamento etico dell'impresa è ormai da anni al centro del dibattito economico internazionale. Si è assistito negli anni a una vera e propria evoluzione delle finalità aziendali. Se l'impresa per Friedman aveva come dovere quello di massimizzare i profitti, ora, e faccio riferimento al concetto di impresa sistemica che ho citato in una precedente domanda, considera come sua principale finalità la capacità di sopravvivere sul mercato nel lungo periodo (Rapaport), espressa dalla "creazione di valore" per gli stakeholders (portatori di interessi) e per la collettività. Risulta pertanto possibile "fare impresa" conseguendo fini sociali che si aggiungono a quelli di natura economica. Integrare l'etica nella “mission” e nella “vision” di un'impresa, costituisce oggi, nella teoria economico - manageriale contemporanea, un'opportunità e una fonte rilevante di vantaggio competitivo. L’adozione di un comportamento etico da parte dell'impresa costituisce pertanto un “faro” con cui la nave (l'impresa) può evitare gli scogli su cui naufragare, rendendo concreta la speranza che il comportamento sociale possa favorirne la sopravvivenza sul mercato.
Italo Calvino, ne Le città invisibili, descrive città di fantasia. Come immagina la sua smart city?
La città intelligente preconizzata da Calvino è frutto di un cambiamento culturale in cui la visione sostenibile si fonda su nuove tecnologie. Pensiamo, ad esempio, al fenomeno delle energie rinnovabili e dei "prosumer". Spesso l'idea di "smart city” è associata al concetto di “città del futuro" e fa riferimento soprattutto alle grandi realtà del nostro Paese. Il pensiero corre a Milano o Torino e Verona. Nella realtà la città intelligente stenta ancora a decollare. In Italia sono ancora poche le realtà territoriali che hanno colto i benefici dell'innovazione applicata al contesto urbano. Peccato, perché il concetto di smart city è volto, in ultima analisi, a migliorare la visibilità, l'attrattività e la competitività del territorio. Questi sono gli elementi chiave con cui, personalmente, immagino la smart city. La testimonianza della loro importanza è comprovata dal rilevante incremento, in questi ultimi anni, dei finanziamenti pubblici per ridurre l'impatto delle città sull'ambiente e l'inquinamento e migliorare il benessere dei cittadini. Gli ostacoli allo sviluppo delle smart city in Italia sono sostanzialmente due: risorse economiche scarse e modelli di business da inventare e consolidare. I risultati fin qui raggiunti e l'attenzione dedicata al fenomeno dai mass media e dal mondo accademico consentono tuttavia un cauto ottimismo su un successo nel prossimo futuro.
Negli ultimi anni, soprattutto tra i giovani si assiste a una digitalizzazione delle emozioni, a nuovi rapporti tra industria e distribuzione, cosa ne pensa del ruolo degli "influencer" nella moderna economia?
Oggi gli "influencer" non possono essere semplicemente considerati come canali di comunicazione, ma piuttosto come "creatori di relazioni sociali" che le aziende con cui collaborano tendono a sfruttare per raggiungere i propri obiettivi di marketing e quindi di vendita. I leader di uno specifico settore acquisiscono autorevolezza in virtù della loro esperienza, cultura e posizione, delle loro competenze e qualifiche rispetto a uno specifico settore o argomento. Un ruolo fondamentale nelle strategie di comunicazione è e sarà sempre più svolto dai social media, principalmente, ma non solo, attraverso l'utilizzo del "blogger". L'influencer (o testimonial) per essere efficace deve possedere alcune caratteristiche: tantissimi followers, una credibilità consolidata, alti tassi di social engagement, capacità di coinvolgere i propri seguaci nella condivisione del contenuto del messaggio. Uno dei canali di utilizzo più efficaci è sicuramente costituito da Instagram, social network basato principalmente sulla condivisione dei contenuti. L'importanza degli influencer nella società contemporanea ha determinato, a livello accademico ed economico -manageriale, la nascita di un nuovo filone di studi: il social media marketing.
Che valore attribuisce all' espressione: "Grazie, Professore, mi ha dato un'idea"?
Come ho già sottolineato, oggi l'impresa non è solo più un sistema tecnico-organizzativo, è soprattutto un "sistema sociale". La moderna teologia dell'imprenditorialità impone al docente, in particolare al professore universitario, l'obbligo (credo di poter utilizzare questa parola così forte) non solo di diffondere una conoscenza tecnica, ma di creare una cultura dell'impresa che la ponga al centro degli interessi della collettività, affiancando sempre più ai concetti dottrinali consolidati riflessioni sulla forza delle relazioni, dei valori della persona e dell'importanza di un comportamento etico in grado di costruire "il cittadino di domani”. L'insegnamento universitario a questo riguardo è ancora fortemente ancorato alla trasmissione di saperi. Esempi evidenti di questo sono la persistenza di un modello nel quale la valutazione dello studente viene fatta in base al grado di apprendimento delle conoscenze e non al grado di sviluppo delle capacità. Il rapporto tra docente e allievo è interpretato in chiave di erogazione unilaterale di cultura e non di scambio (il docente insegna allo studente, non "lavora" con lui). Occorre passare dalla trasmissione di conoscenze alla formazione di capacità, dalla multidisciplinarietà alla interdisciplinarietà (connessione tra le varie discipline di insegnamento), dal governo della complessità al governo dell'incertezza. L'università è dunque in movimento verso un nuovo modo di assolvere la propria missione in una comunità che cresce in attese ed esigenze da soddisfare. La sfida è avvincente e dà adito alla speranza, ma occorre giocarla da protagonisti e non limitarci a subirla.