Il canto X del Paradiso – per me molto importante nell’economia dell’opera dantesca – inizia con la contemplazione della trinitaria sapienza divina, dove tutto è mirabilmente e perfettamente disposto e orientato. Così l’universo – che riverbera quella divina perfezione – è sapientemente costruito e governato per render gloria a Dio, anche laddove non ci parrebbe a prima vista (“Il mondo non è contraddizione, ma equilibrio, armonia. A lungo andare le cose che sembrano elidersi, che sembrano respingersi, entrano nel loro giusto incastro”, così Pier Angelo Soldini).
Ed anche l’iniziale annotazione astronomica del versetto 16 (“che se la strada lor non fosse torta”) sembra proprio indicare – quasi come un preludio al tema del canto – quella “imperfezione salutare” (per cui l’inclinazione dello zodiaco sull’equatore reca notevoli benefici alla terra) come paradigma della divina perfezione, che si giova anche delle apparenti contraddizioni. Ma se così avviene nel mondo fisico, tanto più è difficile capire profondamente le cose spirituali. Ecco allora la sintonia di questa annotazione dantesca con il seguente versetto sapienziale: “A stento raffiguriamo le cose terrestri, … ma chi può rintracciare le cose del cielo? Chi ha conosciuto il tuo pensiero, se tu non gli hai concesso la sapienza? (Sapienza 9,16). Ed è evidente che l’argomento del canto – siamo nel cielo del sole, nella quarta famiglia degli spiriti sapienti – ci richiama la meditazione biblica sulla sapienza. Anzi, attraverso l’articolata introduzione del canto, Dante sembra volerci preparare alla vertigine della mirabile sapienza teologica. Del resto, come si può capire il creato – sia fisico che spirituale – senza il divino soccorso della sapienza di Dio? (“Con te è la sapienza che conosce le tue opere, che era presente quando creavi il mondo…”, Sapienza 9,9).
Ben riflettendo – poi – che per noi credenti (come ci ricorda San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, versetti 1,22) la sapienza è Cristo, perché: “Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”.
Sempre in questa prima parte del canto, è interessante notare – come rileva Vittorio Sermonti – il “complicato congegno di psicologia allegorica” dei versetti 58 e seguenti, nei quali Beatrice – che pur conservando la sua bellezza e la sua femminilità ha però abbandonato la vanità terrena – si compiace che Dante distolga da lei lo sguardo per contemplare la sapienza divina; tuttavia tanto ne rimane estasiata - di questo giusto orientamento di Dante “a l’alte ruote” – che la sua gioia irradia così nuova e più intensa luce da “dividere” la mente di Dante concentrata (unita) in Dio su più oggetti, Dio, Beatrice e la ormai prossima corona dei beati (“mia mente unita in più cose divise”). In questo modo vi è un primo accenno al problema “dell’unità nella molteplicità”, cioè alla complessità del creato, seppur a Cristo orientato.
Il discorso di Dante – che non si perde mai in fredde nozioni teologiche, ma che riesce a comunicarci la ricchezza del suo messaggio con la grazia della poesia e con l’evidenza delle sue concrete figure storiche – incomincia ad entrare nel vivo del tema affrontato nel versetto 76, laddove quei dodici ardenti soli, cantando e danzando in modo così dolce, fanno tre giri intorno a Dante e Beatrice, finché si fermano per farsi presentare: senza però interrompere le movenze della danza, come fanno le donne nelle tipiche ballate medioevali, dove si arrestano in silenzio, rimanendo in ascolto, finché non abbiano udito le nuove note musicali, che annunciano un altro giro di danza (mentre l’espressione del versetto 66 - “più dolci in voce che in vista lucenti” – unitamente al loro perfetto danzare, mi richiama il seguente versetto biblico: “La sapienza è il più agile di tutti i moti; per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa”, Sapienza 7,24).
Uno spirito – San Tommaso d’Aquino, il “Doctor Angelicus” – illustra, uno ad uno, i dodici soli della gloriosa corona (quindi anche se stesso, nell’oggettività della grazia celeste). Non può stupire di certo che sia Tommaso d’Aquino a fare da guida, dal momento che rappresenta uno dei principali pilastri teologici della Chiesa cattolica (canonizzato nel 1323, papa Pio V, nel 1567, lo proclamò Dottore della Chiesa). Egli è anche il punto di raccordo fra la cristianità e la filosofia classica di Aristotele. E non può neppure stupire il numero – dodici – degli spiriti sapienti, in quanto simboleggia l’universalità dei beati (del resto, il numero dodici ricorda, ad esempio, i mesi dell’anno, le ore del giorno o i segni dello zodiaco – nell’ordine fisico; oppure le tribù di Israele, le porte del tempio di Salomone o il numero degli Apostoli – nell’ordine spirituale).
Il primo spirito presentato da Tommaso (il secondo della schiera) è il suo maestro di teologia: Alberto Magno, vescovo domenicano, considerato il più grande filosofo e teologo tedesco del medioevo, capace di far coesistere fede e ragione applicando la filosofia aristotelica al pensiero cristiano. Il terzo è il famoso giurista Graziano: monaco camaldolese italiano, giurista e canonista del periodo medioevale “che l’uno e l’altro foro aiutò sì che piace in paradiso”, vale a dire con un notevole e sistematico impegno per conciliare il diritto civile con quello canonico, in un superiore ideale di giustizia. Il quarto spirito è Pietro Lombardo: sommo teologo italiano che divenne anche, dopo esser stato professore presso la scuola cattedrale di Parigi, vescovo di Parigi. La quinta luce – pur non espressamente nominata – è quella di re Salomone: il re più sapiente di tutti i tempi (risolvendo il dubbio di Dante, Tommaso, nel successivo canto XIII, spiega proprio che con l’espressione “a veder tanto non surse il secondo” – con cui viene definita la impareggiabile sapienza di Salomone – non ci si riferisce in senso assoluto “a tutti gli uomini”, ma soltanto alla “prudenza regale” attribuibile ai re, per cui rimane salvaguardata la giusta opinione di Dante sulla preminente sapienza – fra tutti gli uomini, in generale – di Adamo e di Gesù).
La sesta luce – anch’essa non espressamente nominata – è quella di Dionigi l’Areopagita, giudice dell’areopago che, secondo gli Atti degli apostoli (17,34), fu convertito dalle preghiere di San Paolo, poi divenne primo vescovo di Atene e martire. Autore di varie opere, gli venne anche attribuito uno studio in quindici capitoli sulla divisione gerarchica e funzionale degli angeli.
Della settima luce, invece, rimane incerta l’esatta attribuzione. Si potrebbe trattare di Sant’Ambrogio, dello storico spagnolo Paolo Orosio, di Lattanzio, o Tertulliano, di san Paolino da Nola o, forse, di Mario Vittorino (io preferisco quest’ultima attribuzione, perché in effetti della traduzione in latino dei dialoghi platonici effettuata da Vittorino si avvalse sant’Agostino, per conoscere il pensiero di quel filosofo).
L’ottava luce è quella di Severino Boezio (Roma, 476 – Pavia, 25 ottobre 525), filosofo latino che influenzò notevolmente la filosofia cristiana medioevale, tanto che alcuni lo considerano tra i fondatori della Scolastica. Dopo, in rapida successione, vengono elencati Isidoro di Siviglia (arcivescovo e scrittore, venerato come santo e riconosciuto come Dottore della Chiesa); Beda il venerabile (monaco e storico inglese, dichiarato santo e Dottore della Chiesa) e Riccardo di San Vittore (teologo e filosofo francese, grande mistico del XII secolo).
Infine, a conclusione della eletta schiera dei beati sapienti, ecco arrivati al personaggio, forse, più importante (non a caso è l’ultimo di quelli presentati da Tommaso) e sicuramente il più misterioso e interessante da interpretare: Sigieri di Brabante (filosofo fiammingo, nato attorno al 1235 e morto, pare assassinato, ad Orvieto nel 1282). Grande conoscitore di Aristotele, attraverso gli studi compiuti sui testi di Averroè si pone in contrasto proprio con Tommaso d’Aquino. Egli insegnò all’università Sorbona di Parigi, finché, nel 1277, gli venne proibito l’insegnamento e venne convocato dall’Inquisitore di Francia. Per sfuggire all’inquisizione partì per Orvieto, in quel tempo residenza del Papa, dove si appellò al pontefice Martino IV; e, mentre attendeva la decisione papale, venne pugnalato a morte. Ma qual è, allora, il significato di questa collocazione dantesca di un filosofo, in odore di eresia, nella sublime ghirlanda paradisiaca, proprio a fianco del più eminente teologo cattolico?
Molte possono essere le ragioni che hanno spinto il cattolicissimo Dante a questa scelta, per cui cercherò brevemente di illustrarne, a mio giudizio, le motivazioni essenziali e, soprattutto, il messaggio finale (e spirituale) che questo enigmatico personaggio consegna alla nostra coscienza di uomini e di credenti.
Dante (come ben ricordava Bruno Nardi, nel suo studio pubblicato nel 1911 sulla Rivista di filosofia neo-scolastica) perché aveva potuto riservare un così importante posto a Sigieri? Non certo per mera simpatia (per le vicende tragiche di un personaggio che, in qualche modo, gli ricordavano il proprio esilio; del resto “Non è questa la prima volta che il poeta fiorentino va contro al giudizio degli uomini della sua età, e arditamente osa rialzare, vittima egli stesso dell’ingiustizia de’ suoi concittadini, coloro che a suo modo di vedere sono periti sotto il flagello di vili calunnie”); e, ancor meno, per semplice ignoranza, da parte di Dante, delle controversie filosofiche del tempo. Anzi, probabilmente, nello spirito del Poeta l’averroismo di Sigieri poteva essere rielaborato e inserito in un corpo di dottrine che costituiscono la filosofia dantesca (dominata dallo sforzo personale di risolvere le contraddizioni e superare vecchie posizioni ideali, nel mirabile equilibrio della visione beatifica, governata dalla sublime carità).
Più in generale, Dante ci ha abituati a collocazioni – soprattutto paradisiache o infernali – non tanto bizzarre ma proprio imprevedibili e radicali, per spingere la nostra mente a capovolgere – nella fede – le nostre limitate opinioni. Il fondamento biblico di questo procedere - seppur sul piano poetico, di Dante – è facilmente rintracciabile nei seguenti versetti: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Isaia 55,8); ed ancora: “In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passeranno avanti nel regno di Dio” (Matteo 21,31); inoltre: “Esaminate ogni cosa: ritenete ciò che è buono” (1° Lett. Tessalonicesi 5,21). Dante, conclude Nardi, “Non è averroista e neppure tomista; non esclusivamente aristotelico, né soltanto neoplatonico, o agostiniano puro… Il suo sistema, come il campanile giottesco, è monumento di marmo multicolore”.
La continua ricerca dantesca di equilibrio è, poi, rintracciabile, in altri versi della sua opera (dove, come notava Inos Biffi, “Il sapere teologico si trova trasfigurato nella bellezza poetica”); ad esempio, nei canti seguenti, Tommaso farà l’esaltazione di Francesco unitamente alla severa condanna della corruzione dei domenicani (“u’ ben s’impingua se non si vaneggia”); mentre Bonaventura farà l’esaltazione di Domenico unitamente alla solenne deplorazione della decadenza dei minori francescani. Questo non tanto per una sorta di “galateo celeste” (e neppure per quella tradizione omiletica, per cui un domenicano predicava per la festività di San Francesco, ed un francescano per quella di San Domenico), ma proprio per richiamare la necessità che la varietà dei carismi giovi all’unità della fede.
Leggevo in un articolo (Avvenire del 1° marzo 2009) – a proposito della ricorrenza degli otto secoli della Regola francescana – di come Francesco “non pretendeva per nulla che la cristianità al completo si conformasse al suo rigoroso modulo; era lontanissimo dal pensare che quella fosse l’unica maniera di essere perfettamente cristiani. Ma quella era la sua via, che il Signore aveva indicato a lui e ai suoi”. Ecco allora, nel disegno di Dante, la sinfonia delle molteplici vocazioni risolversi in armoniosa unità nella carità.
Il personaggio di Sigieri – poi - è qui rappresentato come onesto e disinteressato ricercatore di verità. E in quel supremo tratteggio della sua figura – “a morir li parve venir tardo” – risuona l’eco di queste parole sapienziali: “Acquista la sapienza; a costo di tutto ciò che possiedi acquista l’intelligenza. Stimala ed essa ti esalterà, sarà la tua gloria, se l’abbraccerai. Una corona di grazia porrà sul tuo capo, con un diadema di gloria ti cingerà” (Proverbi 4,7). “Riflettere su di essa (la sapienza) è perfezione di saggezza, chi veglia per lei sarà presto senza affanni” (Sapienza 6,15); con l’avvertenza che: “Molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore” (Qoelet 1,18).
Va anche ricordato come Dante, nel successivo canto XIII, ci metta in guardia dall’esser troppo sicuri e presuntuosi sulla conoscenza della sorte futura delle anime, che è nota soltanto a Dio (come colui che calcola in anticipo il valore della messe, prima che sia giunta a maturazione)… “Non creda donna Berta e ser Martino,/ per vedere un furare, altro offerere,/ vederli dentro al consiglio divino;/ chè quel può surgere, e quel può cadere” (cioè, per il fatto che possiamo vedere uno rubare e un altro fare pie offerte, non crediamo di poter sapere quale destino sia ad essi assegnato da Dio).
L’aver posto, allora, l’elogio di Sigieri nella bocca di Tommaso “Vuol dire che i due avversari si sono riconciliati dopo la morte nell’aspetto della verità intera, di cui tutti e due avevano visto solo una parte”. La conferma di questa visione di "celeste conciliazione" è rintracciabile anche nell'ultimo personaggio ritratto nella seconda corona dei sapienti - illustrata da san Bonaventura da Bagnoregio (nel canto XII) – che corrisponde, come dodicesima figura, a Gioacchino da Fiore, monaco le cui idee, pur condannate dalla chiesa, influenzarono molti francescani spirituali, che furono combattuti proprio da Bonaventura.
Suggestiva, da ultimo, la tesi secondo cui furono proprio le ardite tesi di Sigieri che permisero a Tommaso di scrivere pagine di altissimo valore (confermando - sul piano filosofico – la stessa positività fisica – richiamata all’inizio del canto – data dalla strada “storta” dei pianeti). Tuttavia, la migliore interpretazione del valore simbolico della figura di Sigieri (a parte il fatto, come suggeriva l’esploratore britannico William Penn, che “spesso la verità riceve più danno dall’ardore dei suoi difensori che dagli argomenti dei suoi avversari”), sembra derivare da questo sapiente avvertimento biblico: “Davanti al male c’è il bene e davanti alla morte la vita, così davanti all’uomo pio c’è il peccatore. Guarda così a tutte le opere dell’altissimo, due a due, l’una davanti all’altra” (Siracide 33,14).
Come non citare, infine, a conclusione di questa mia lettura, la geniale intuizione di Blaise Pascal. “Le due ragioni contrarie. Bisogna muovere di qui: altrimenti, non si comprende nulla e tutto è eresia. E inoltre, al termine di ciascuna verità, aggiungere che ci si rammenta della verità opposta”. Infatti, “tutti errano in modo tanto più pericoloso in quanto seguono ognuno una verità: il loro errore non sta nel seguire una falsità, ma nel non seguire un’altra verità”!
Anche Papa Francesco (nella Esortazione apostolica Evangelii gaudium) insiste giustamente in questa idea: quella di non fidarsi del “perfettismo” in quanto pericoloso: “lo è anche nella pastorale perché, come figlio della superbia, blocca anche quanti con umiltà si pongono in ricerca del bene e del meglio, togliendo loro tempo e spazio per farlo… Dicendo di no alla ‘sfera’, papa Bergoglio opta per il poliedro come modello di pastorale. Il poliedro riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità. Sia l’azione pastorale sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno. Con i suoi molti lati, con le sue molte rifrangenze, con le sue piccole unità e l’originalità del loro comporsi appoggiandosi l’una all’altra, il poliedro forma un insieme oltremodo interessante e bello”, che – anche attraverso la testimonianza di Sigieri – offre proprio (come somma delle “parzialità umane”) una meno sbiadita immagine delle divine perfezioni.
E in virtù della sublime armonia sostenuta con forza dal Poeta, si conclude il canto con la perfetta musicalità poetica (per chi ancora dubitasse della poesia della terza cantica!) della stupenda similitudine finale, che ci invita ad unire le nostre singole ed umili voci nel coro soave della chiesa, che ogni giorno prega incessantemente lo Sposo perché ci doni la sua grazia.