Zio Nello diceva sempre: “Mai fidarsi delle apparenze!”. Ero ancora un ragazzino, trascorrevamo le estati da lui, alla pensione Miramare, sulla costa adriatica. Ogni volta che si stava a tavola, in famiglia, si parlava di apparenze e tra un bisbigliare e l’altro, finivamo sempre per guardare tutti in direzione di un vecchietto, pacificamente seduto in terrazza. Quell’uomo si chiamava Otto.
Otto era originario della Germania e come noi, era diventato un habitué. A noi ragazzi il suo nome piaceva, faceva ridere e questo ci bastava. Ma intorno a Otto giravano anche altre voci, una, in particolare, era una storia che scoprii solo crescendo: era successo che un giorno zia Franca, moglie di zio Nello, nel rifare la camera, avesse trovato sul comodino accanto letto, una foto molto particolare: Otto giovane e senza occhiali, vestito con divisa nera e fascia rossa con svastica al braccio, giulivo e sorridente, intento a stringere la mano a Lui, sì proprio a lui, a Adolf Hitler. Su questa vicenda ci ricamammo tutti a lungo. Estate dopo estate, ogni volta che rivedevamo Otto, nascevano nuove domande. Ad un certo punto cominciammo a chiederci veramente chi fosse quell’ometto attempato e quali segreti nascondesse. Era chiaro che per essersi permesso tutta quella confidenza con Adolf doveva aver fatto qualcosa di speciale, qualcosa di gradito a Lui. Che non poteva che essere qualcosa di brutto e malvagio. Mio cugino Giacomo, che lavorava da barista nella pensione, ed era al corrente di tutta la storia, pensò bene di sdrammatizzare la situazione inventando un gioco. Tutte le volte che Otto ordinava dell’acqua gli chiedeva: “Liscia o…?”. Al che Otto, prontamente, rispondeva: “Mit gaz!”.
Quella frase, quando Giacomo ce la riportava – e lo faceva imitando l’accento – ci faceva rabbrividire e aveva l’effetto di una bomba, rimbalzando nelle nostre teste per settimane e settimane e alimentando immagini terrificanti di Otto in divisa da nazi, impegnato a passare in rassegna i prigionieri in uno di quei campi di sterminio tristemente famosi, di cui tutti avevamo studiato a scuola. Chissà quante volte - ci chiedevamo - Otto aveva già ripetuto là quel suo Mit gaz… mit gaz...mit gaz… Morbosamente affascinato da quell’incarnazione del male, avevo preso addirittura a spiarlo, cercando di decifrare certi rumori provenienti dalla sua camera, alla sera e immaginandolo in bagno, davanti allo specchio. Come poteva - mi chiedevo - un essere con tanta malvagità sulla coscienza guardarsi ancora in faccia?
Non riuscii a trovare una risposta.
E forse fu proprio a causa di quel mio spasmodico interrogarmi che Otto cominciò a visitare i miei sogni e quando succedeva e lui si presentava in divisa allora erano spaventi veri e finivo per svegliarmi madido di sudore, grato di essere sfuggito alle sue grinfie…
L’unico che pareva non subire gli influssi di Otto era nonno Cesare, strano perché nonno era stato un partigiano vero, uno di quelli della prima ora, che di crucchi, lo ripeteva sempre con orgoglio, ne aveva seccati parecchi. Non riuscivo a capire - lo riconosco, avevo paura di chiederglielo - come mai insistesse nel mantenere rapporti tanto cordiali con quel tedesco. Li vidi bere birra assieme varie volte alla festa dell’Unità e non potei non pensare a quell’ex nazista in incognito intento a guardarsi intorno e a fare la conta anche lì, “Mit gaz” per tutti… Uh! Un incubo.
Chissà, forse nonno era già allora un po' svampito, ignaro del morbo che da lì a poco l’avrebbe devastato.
O forse Otto sapeva il fatto suo ed era riuscito a mescolare bene le sue carte e a depistare tutti... Fu anche per rispondere a queste domande che si risvegliò in me, improvvisamente, la curiosità per il mondo delle ombre.
Appena cominciai la mia ricerca capii di non essere solo.
Mi accorsi ben presto che la maggior parte delle persone che conoscevo, seppur senza consapevolezza, già da tempo faceva i conti con le proprie ombre. E per la prima volta riconobbi di aver io stesso, dentro di me, un mondo nascosto, un vero e proprio spazio interiore colmo di elementi rimossi. La cosa, inizialmente, mi inquietò molto. Né mi confortò percepire quelle “zone scure” come piccole e frastagliate. Capii subito che ciò non mi avrebbe salvato: le ombre piccole, non erano, alla lunga, meno insidiose di quelle grandi, anzi, proprio perché di dimensioni ridotte, apparivano inoffensive, agendo, come minuscole particelle di limo sospese sul fondo di un fiume. Una volta sedimentate contribuivano a creare una massa di fango spessa e scura.
Quali fossero però le conseguenze di queste oscurità ancora lo ignoravo. Fino al giorno in cui ebbi coscienza di un possibile collegamento tra i miei naufragi sentimentali e una triste esperienza avuta anni prima a Parigi.
Era successo che, dopo una piacevole serata con amici, mi fossi smarrito nei cunicoli della metropolitana. Là, mio malgrado, fui testimone di una aggressione ai danni di una ragazza da parte di un uomo, Le grida strazianti della donna si udivano già a parecchi metri di distanza. Quando fui vicino alla scena notai lei a terra, in lacrime, mentre lui, dritto davanti a lei, la pestava con violenza, colpendola sia con le mani che con i piedi. L’uomo parve subito non preoccuparsi gran che di me, da parte mia, il fatto che i due si urlassero addosso ripetutamente i loro nomi, mi fece pensare alla degenerazione di una lite coniugale più che all’imboscata di un bruto. Per questo motivo, mi allontanai senza intervenire. Quando però uscii dalla stazione mi sentii sopraffare da un profondo senso di colpa, forse per questo non raccontai a nessuno dell’accaduto, ricacciando sistematicamente indietro le terribili immagini, che la mente non smetteva di presentarmi.
Contai sul fattore tempo per dimenticare. Ma fu una illusione. Qualcosa era già cambiato dentro di me. Senza rendermene conto, mi ritrovai più fragile. Da allora, con le scuse più assurde e in qualunque città mi trovassi, evitai di usare la metropolitana. Ma ciò che mi spaventò di più fu scoprire come dopo quell’esperienza mutò radicalmente la mia modalità di relazione con l’altro sesso. Dopo quel giorno, adottai sistematicamente atteggiamenti iperprotettivi con tutte le mie partner, indistintamente, arrivando, di fatto, con le mie ansie soffocanti a far naufragare ogni nuovo rapporto.
Un’altra esperienza drammatica alimentò in modo smisurato la mia ombra qualche anno più tardi. Tornando a casa in macchina in una notte di pioggia, dopo aver imboccato l’ultimo tratto di strada che collegava la città al villaggio dove abitavo, ebbi un incontro sconcertante. Conoscevo bene il percorso essendo diventato di routine negli ultimi anni. Quella sera avevo festeggiato un compleanno, ero rilassato e felice. La visibilità, scarsa, mi costringeva a moderare la velocità, avevo anche bevuto qualche bicchiere in più, nonostante ciò, sentivo di poter tranquillamente padroneggiare la guida dell’auto. All’improvviso vidi apparire in mezzo alla strada una grossa sagoma scura. Fu una questione di secondi, non feci neppure in tempo a toccare i freni. Udii un urlo disumano e un tonfo spaventoso sul cofano. Sul parabrezza scivolò una creatura dalla faccia livida sulla quale feci in tempo a scorgere gli occhi e la bocca, deformata in una smorfia di dolore, mentre mani, come artigli, cercavano un impossibile presa scivolando sul vetro impastato di sangue e fango. Misteriosamente, quando fermai l’auto e feci retromarcia non trovai nulla. “L’essere” era scomparso, pareva essere stato inghiottito dall’oscurità. Decisi di scendere a dare un’occhiata. In una scena da film dell’orrore, sotto la pioggia battente, esplorai palmo a palmo il tratto di strada, pronto al peggio. Con il cuore in gola cercai ancora e ancora fino a quando decisi di tornare alla macchina. L’assenza di ammaccature sul cofano aumentò la mia ansia: avevo dunque sognato? Ma cosa era stato? Non riuscivo a capirlo. Non si era trattato di un animale, di questo ero certo. Avevo quindi ucciso un uomo? Il solo pensiero mi rendeva pazzo. La mente fu invasa da un’onda di angoscia spaventosa e scoppiai a piangere. Risalii in auto, decisi di tornare indietro, illuminando questa volta il bordo della strada con i fari della macchina.
Fu tutto inutile.
Visibilmente provato, rimasi seduto al posto di guida, inerte, per un tempo che mi parve infinito. Quando vidi in lontananza i fari di un’auto in arrivo mi preoccupai di essere scoperto e mi affrettai a ripartire. Confuso e disperato, mi sentii sollevato solo quando vidi apparire lungo la strada l’insegna di una trattoria. Mi fermai.
Il locale stava chiudendo. Parte dell’illuminazione era già stata spenta. Il gestore, un uomo anziano dalla faccia buona, dopo avermi osservato, disse: “Che tempaccio questa sera”. Annuii con il capo. E mi misi subito a sedere, ordinando un caffè con un sussurro.
Una voce interiore mi suggerì insistentemente di raccontare l’accaduto: non la ascoltai. Proprio in quel momento entrò un nuovo cliente, un giovane uomo, mi parve di riconoscerlo per questo motivo deviai il mio sguardo. Lui invece andò dritto al bancone e rivolgendosi al vecchio disse: “Ho appena investito un cinghiale! Era piccolino ma a momenti volavo nel fosso! Che spavento che mi sono preso!”.
Il gestore del locale squadrò il nuovo arrivato e ripeté: “Che tempaccio questa sera”. Ma poi aggiunse: “La vedo provato, si sieda su che le offro un grappino”.
“Sì, grazie” rispose l’uomo visibilmente frastornato, volgendo a quel punto il suo sguardo verso di me, quasi fosse alla ricerca di approvazione.
Io invece ho investito un uomo, cazzo!
Immaginai per un attimo la mia voce risuonare forte e piena in quel locale e come posseduto da un improvviso spirito di rivalsa restai in attesa della reazione dei due.
Ho investito un fottuto essere umano varrà ben più di un cinghialetto, o no? Urlai ancora una volta, più forte dentro di me, liberando tutta la mia paura e il mio tormento percependo nello stesso momento l’ombra incombente, la sentivo, sì, impegnata a prendersi i suoi spazi.
L’altro cliente aveva nel frattempo preso a guardarmi con insistenza. Il mio stato alterato mi permise di cogliere nel suo sguardo un che di livoroso, di fatto gli avevo rubato la scena. Non ne fui confortato. Il vecchio dietro al bancone invece aveva iniziato a trafficare con le bottiglie di vino. Che fosse in procinto di regalarmene una per confortare anche me? La proporzione sarebbe stata giusta, pensai.
In realtà nella mia testa permaneva uno stato di caos incredibile e fui felice di tornare a casa, soprattutto di essere solo quella notte e non dover raccontare a nessuno ciò che era accaduto. Solo in bagno, vidi lo sguardo smarrito di un uomo a me somigliante fissarmi per un istante allo specchio. Poi crollai sul letto.
Riprendersi da quell’esperienza non fu facile.
Il giorno successivo non fui in grado di alzarmi e così fu anche per quello dopo, che trascorsi tappato in casa, febbricitante.
Due giorni dopo, nonostante mi sentissi ancora debole, mi recai all’edicola e comprai il quotidiano locale chiedendo anche la copia del giorno precedente. Nessuna notizia di incidenti stradali, nessun necrologio di persone investite. Ne fui deluso e al tempo stesso sollevato ma volli continuare la ricerca e tornai più volte nel luogo fatidico. Ripercorsi più volte la strada cercando di ritrovare il punto preciso dell’impatto. Scesi dalla macchina e provai a piedi. Fu tutto inutile. C’era una parte di me che non si voleva arrendere, che era certa di aver vissuto qualcosa di reale e si sentiva totalmente responsabile aggiungendo a questa percezione, la frustrazione di non sapere cosa fosse realmente successo. Anche in quella occasione cercai di dimenticare. Da quel giorno fu l’ombra, non più la mia ingenua speranza, a guidare le sorti della mia vita. Che prese una piega totalmente inaspettata. Nonostante fossi sempre stato un amante del silenzio e con uno stile di vita appartato, decisi repentinamente e con incredibile leggerezza di spostarmi in città. La vita, al contempo benevola e crudele, mi costrinse ben presto a confrontarmi con la mia ombra. E forse non fu un caso che proprio in quel periodo incontrai una donna. Percependone istintivamente l’estrema pericolosità cercai di sabotare la relazione sul nascere. Ma questa volta non ci riuscii.
Perchè lei, prima tra tutte, trovò il mio temporeggiare eccitante e romantico e non mollò la presa. Quando fummo sul punto di iniziare a convivere liberai inavvertitamente le mie ansie e rivelai per la prima volta le mie paure, senza vergogna. Lei accolse le mie fragilità e neutralizzò con delicata ironia molte delle mie fobie. Con senso di reciprocità mi sorprese aprendosi lei stessa e confidandomi gli aspetti più contraddittori del suo carattere.
Mi parve di toccare il cielo. Ero libero dunque?
Venne poi il giorno in cui parlammo delle nostre famiglie e scoprii di aver vissuto a lungo a pochi chilometri dalla casa dei suoi genitori e ciò parve l’ennesimo segno della predestinazione del nostro amore. Ridemmo felici. Fino a quando mi raccontò di suo padre.
-È morto investito, di notte. Una tragica fatalità. Aveva perso l’autobus e nonostante la pioggia aveva deciso di tornare a casa a piedi…
-Ma chi l’ha investito?
Chiesi con voce tremante sentendo fronte già piena di sudore gelato.
-Non si è mai saputo. L’hanno trovato riverso in un fosso, povero papi…
Ruppi immediatamente in un pianto inconsolabile e tra un singhiozzo e l’altro raccontai la mia storia. A nulla servirono i suoi tentativi di consolarmi dimostrando l’evidenza dei fatti: le date non coincidevano e neppure il luogo preciso, si trattava evidentemente di due episodi separati. Eppure, rimasi per lungo tempo incapace di credere a quella nuova versione della realtà. E quando sposai Elisa, questo è il suo nome, continuai segretamente a pensare di aver in fondo compiuto un gesto riparatore. Anche a distanza di anni, l’ombra non smise mai di chiedermi pegno per quello che probabilmente era solo stato il frutto di una allucinazione…
Quando nacque nostra figlia, tra gli innumerevoli doni che portò con sé, ricevetti un regalo inatteso: la possibilità di gettare uno sguardo in un nuovo mondo di ombre ancora sconosciuto, quello delle ombre ereditate. Chi ha avuto esperienze di psicoterapia o ha anche solo partecipato a sedute di costellazioni familiari sa già di cosa parlo. Si tratta di aspetti dei nostri antenati che ereditiamo geneticamente, non solo traumi, violenze subite o perpetrate, abbandoni e mancanze ma anche sogni mai realizzati e progetti interrotti. Il tutto concorre a creare in ognuno di noi importanti interferenze e vuoti incolmabili, ostacoli al nostro sviluppo.
Tutte le volte che mi ritrovai a sollevare la piccola Maria e a giocare con lei lanciandola in aria per poi subito recuperarla e godere del suo riso, come fanno tutti i papà orgogliosi, un giorno udii dentro di me una voce imperiosa che mi metteva in guardia. Non si trattava di prudenza, in questi casi più che auspicabile, no, quella voce era molto diversa, drammatica, e spaventevole. Chi parlava dunque?
Lo scoprii molti anni dopo accompagnando mio padre nelle sue ultime ore da vivo, in ospedale. Mi confessò una cosa terribile, di aver sollevato da giovane un infante mentre si trovava sul balcone di una casa. La madre, una sua amica, era appena scesa dalla macchina, nel piazzale da basso. Mio padre, che pensava di fare cosa gradita alla donna, improvvisando l’acrobazia della bambina mancò la presa e la piccola volò giù, non morì ma rimase inferma per tutta la vita. E se è vero che nonostante tutto ciò mio padre visse una vita apparentemente normale appare innegabile che un tormento sopravvisse mantenendo intatta tutta la sua forza corrosiva. Tanto da giungere fino a me.
Non riuscii mai a sconfiggere le mie ombre.
Ma forse non è giusto usare questo termine perché la sconfitta prevede il fatto che ci sia stato un conflitto e quando di parla di ombre il massimo a cui si può ambire è solo e unicamente la conoscenza delle ombre stesse e la loro trasformazione da ombre nascoste e temibili a ombre visibili e conosciute.
Ancora oggi, nell’approcciare le persone nuove, la mia domanda prioritaria è: di quali ombre è portatore/portatrice la persona che ho davanti? E poi, a seguire: che cosa ha inventato questa persona per adattarsi a esse? Come si è organizzata interiormente per sopravvivere nonostante le sue ombre? È consapevole delle sue ombre? E in che misura?
Le risposte a queste domande, insieme a ciò che appare, costituisce la forma organica delle persone che incontro. Che non sono mai solo luce o solo ombra ma una combinazione unica di entrambe.