Lo studio legale di Rossella Amodeo ha maturato una pluriennale competenza multidisciplinare nelle varie branche del Diritto Civile, con particolare attenzione al Diritto di Famiglia e al Diritto Minorile. Tra i procedimenti di maggiore rilievo si citano separazione, divorzio, cessazione della convivenza di fatto, questioni concernenti limitazione della responsabilità genitoriale, sottrazione internazionale di minore con svolgimento di udienze anche all’estero, affidamento minori, risarcimento danni e tutti i casi che interessano i soggetti deboli e vittime di violenza di genere.
Dal 2012, socia e dal settembre 2018 presidente dell’Associazione di promozione sociale Anacaona Mujeres dominicanas en Italia. Dal 2016, consulente legale dell’Associazione di Promozione Sociale “Progetto Aisha”, che offre attività di consulenza in materia di minori e famiglia e presa in carico di casi stragiudiziali e giudiziali.
Ha fatto delle scelte precise nella sua attività lavorativa. Ci vuole raccontare da dove origina questa sua dedizione all'assistenza di donne maltrattate e/o violentate?
In realtà nasco come giuslavorista. Inizio a lavorare a 18 anni part-time in una società di telecomunicazioni e intanto mi iscrivo a legge. Rimango affascinata dai grandi cambiamenti che hanno caratterizzato il mondo del lavoro negli anni ‘90, ricordo le lotte sindacali, le assemblee nella sala mensa che duravano fino al mattino. Così scrivo una tesi sugli aspetti giuridici del telelavoro, perché credevo in un modo di lavorare più flessibile specie per le donne, mie colleghe, studentesse e madri. Penso di essere stata profetica mentre all’epoca quando ne parlavo mi guardavano come un’aliena.
L’impatto con il mio primo studio legale è stata una miccia. La mia dominus Maria Pia Vigilante è stata la mia musa ispiratrice: forte, libera indipendente e poi mi incuriosiva quell’associazione che nominava sempre e di cui è tutt’ora presidente, Giraffa Onlus di Bari. Oltre a lottare a favore dei diritti dei lavoratori, difendeva tenacemente le donne con le loro vicende difficili. La transizione dal diritto del lavoro al diritto di famiglia è stata naturale, alla fine pensandoci si tratta pur sempre della lotta a favore dei soggetti più deboli. Il mio studio ora è il luogo dove accolgo tutte le storie di donne, madri e dei loro figli vittime di abusi e maltrattamenti Non faccio distinzioni di status, nazionalità e genere. La violenza endofamiliare è una piaga trasversale, è molto più diffusa di quanto si pensi. Vorrei che tutte le donne si sentano in un luogo protetto e che recuperino il concetto di casa, quella interiore da ricostruire mattoncino dopo mattoncino.
Da dove scaturisce in lei il desiderio di diventare avvocato?
Penso di aver compreso sin da bambina il concetto di diversità. Sono figlia di immigrati calabresi, mio papà aveva vinto negli anni ‘70 il concorso nelle Ferrovie dello Stato e così, appena ventenni i miei genitori si impiantarono a Milano. Che fatica per loro cercare una casa in affitto, giovani, tre figli e per giunta terroni. Io avevo 9 mesi ho imparato a parlare senza inflessioni dialettali, ma molti miei compagni di classe venivano derisi per il loro accento che io trovavo semplicemente curioso. Non sopportavo gli sfottò ed intervenivo spesso in loro difesa.
Avevo 6 anni quando chiedevo ai miei genitori di regalarmi il Cicciobello nero. Non lo volevo come le mie amiche, biondo con gli occhi azzurri. Io ero cocciuta, lo volevo solo nero, ed ora quando guardo il Cicciobello nero a casa di mia mamma accanto a quello biondo di mia sorella, provo una immensa tenerezza per quella bambina che lottava per esaltare il bello della diversità.
Essere avvocato specializzato in diritto di famiglia cosa comporta? Cosa significa di fatto?
Oggi non si può pensare di lavorare in solitaria. È una materia talmente complessa che puoi affrontarla solo con una valida rete di professionisti a partire dai centri antiviolenza ai percorsi psicologici individuali e quelli di sostegno alla genitorialità. Oltre all’aspetto processuale in senso stretto occorre affrontare il rapporto con i servizi sociali territorialmente competenti. Il lavoro è quello di trovare un buon equilibrio tra la parte giudiziale e quella psico-sociale. Non dimentichiamo poi l’area penale dove si lavora sempre in tandem.
Come ha conosciuto l’Associazione Anacaona di cui oggi è presidente?
Un mio collega penalista mi chiese se avessi voglia di seguire un caso di riconoscimento di una minore da parte di una mamma minorenne di origine dominicana. Si trattava di un caso semplicissimo perché il Comune avrebbe dovuto applicare la legge del Paese di cui la minore era cittadina e, dunque, iscrivere la neonata all’anagrafe. Dopo il rifiuto del Comune di procedere, accadevano una serie di macroscopici errori giudiziari che portavano all’emissione di un decreto di adottabilità della minore. Il mio intervento tempestivo presso il Tribunale Ordinario di Vercelli determinava la chiusura del procedimento di adottabilità ed il riconoscimento della minore da parte della giovane madre. Ho tenuto in braccio la neonata sul treno da Vercelli a Milano. L’ho portata a casa.
E così conobbi la allora Viceconsole della Repubblica Dominicana Milagros Guzman che unitamente a Marlene De La Cruz aveva fondato l’associazione Anacaona Mujeres Domininicanas en Italia.
Ringrazio infinitamente Milagros e Marlene poiché sono state loro ad includermi nella loro associazione dove, qualche anno più tardi venivo nominata Presidente.
Il progetto più bello realizzato nell’ambito dell’iniziativa regionale “Progettare la Parità in Lombardia” è stato dedicato alla “Comunità latino-americana e istituzioni italiane unite per aiutare le donne a uscire dal silenzio”: una cordata di 7 consolati latino-americani (Bolivia, Colombia, Ecuador, El Salvador, Messico, Perù e Repubblica Dominicana) con la partecipazione dell’Università degli studi di Milano, del Tribunale Ordinario di Milano, dell’Ordine degli Avvocati di Milano, del Consultorio Aied e del Cav dell’Ospedale Buzzi, tutti uniti contro la violenza sulle donne.
Ancora oggi Anacaona viene invitata presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca per tenere lezioni in tema di violenza sulle donne.
Ha fatto scalpore il caso del piccolo Christian.
Aveva solo nove anni quando Christian veniva rapito a Brescia dal padre spagnolo che rivendicava l’affido esclusivo del bimbo. Veniva portato via dalla mamma di origine cubane e dal piccolo fratellino Angelo nato dal matrimonio con un ragazzo di bresciano. Non avevo molto tempo tant’è che la scelta è stata quella di recarmi direttamente a Torrevieja ed aprire un procedimento di rimpatrio ai sensi della Convenzione dell’Aja. Nel giro di una settimana avevo in mano la sentenza che ordinava il rimpatrio di Christian ma il padre, invece di riconsegnare il minore alla mamma, lo aveva nuovamente rapito minacciando di uccidersi con il bambino piuttosto che riportarlo indietro. Sono seguiti giorni di grande paura e di tensione prima che l’Interpol mi avvisasse di farmi trovare all’aeroporto di Madrid. Christian, rintracciato ai confini con il Portogallo, arrivò tutto stropicciato, magro, con due occhi da cerbiatto e con un sacchetto di plastica tra le mani che conteneva qualche oggetto personale da cui non voleva separarsi. Con la mamma siamo stati scortati fino ad Alicante dove pernottammo un paio di giorni. Christian era silenzioso e cupo, non faceva domande e mi ignorava completamente. Una sera mentre mangiavamo una pizza all’aperto, calcio per errore un tappo di bottiglia e Christian mi risponde passandomi il tappo. Finiamo per giocare calcio con il tappo della bottiglia. Poi mi guarda con quegli occhioni grandi e mi chiede come ti chiami? Da lì Christian è un fiume in piena, i suoi racconti spontanei e veri mi hanno raggelata. Dopo un anno mi ha invitata a vederlo a giocare a calcio a Brescia. Una gioia immensa.
Davvero commoventi l’impegno e la dedizione a livello personale per dare aiuto concreto a persone sofferenti, emarginate, vittime di un sistema sociale che, oltre a fare fatica nel riconoscere e far rispettare i diritti, sembra a volte intralciare la realizzazione di percorsi volti a tutelare e rispettare il diritto all’umanità. Lei è anche impegnata nel progetto Aisha? Di che cosa si tratta? Qual è il suo ruolo?
Conosco Amina Al Zeer e successivamente Selma Ghrewati la presidente. Si spalanca un nuovo mondo una nuova cultura un nuovo modo di approcciare le donne. Anche in questo caso sono le donne dell’associazione ad avere incluso me. Un plauso va alle volontarie del progetto, volontarie con la V maiuscola.
Quale risonanza emotiva si verifica nell'affrontare queste situazioni al limite?
Non posso negare un grande coinvolgimento emotivo ma cerco sempre di mantenere la terzietà nello svolgimento dell’incarico.
Se la sente di raccontare qualche esperienza in particolare?
Una madre che dopo l’archiviazione delle denunce subite dall’ex marito si ritrova ad affrontare un inconcepibile sequel di violenza istituzionale: affido e collocamento dei figli al padre e incontri madre-figli in spazio neutro. Ecco, questo è un limite del nostro sistema giuridico che impone un intervento correttivo immediato. Si parla di violenza secondaria ed è quella più subdola.
Quanto spazio rimane alla sua vita privata, dopo un impegno così gravoso e continuo nel sociale?
Più di quanto si possa pensare. Occorre solo organizzarsi.
Come riesce a bonificare dentro di sé tutto il dolore, il male di cui si è fatta e si fa continuamente carico?
Cerco di ritagliarmi i miei spazi vitali. Non rinuncio alla mia attività fisica due volte alla settimana sono appassionata di pesi e ogni volta è sempre una sfida. Valeria, che mi allena da tre anni, mi aiuta a trasformare il carico di dolore in energia vitale.
Milano è una città che ha sufficiente cura delle questioni che lei tratta o le sembra piuttosto assente o noncurante?
Milano è uno dei poli di eccellenza sulle tematiche che riguardano la violenza sulle donne. Occorre lavorare ancora per diffondere la cultura della non violenza.
C'è qualche lacuna che vorrebbe segnalare per richiedere alla città una maggior attenzione e partecipazione concreta?
Molto deve essere ancora fatto in punto integrazione delle donne nel tessuto sociale specie per le donne immigrate.
Qual è il suo angolino di conforto in città? Quel posto speciale che può accoglierla e nutrirla di sensazioni buone e lenitive compensando le fatiche del suo lavori?
In realtà amo rientrare a casa, abito fuori Milano in campagna. In questa stagione adoro rilassarmi dopo cena sotto i miei pini a leggere un buon libro. Nel weekend raggiungo il mio compagno Nicola e la sua bimba Nadia, sono il mio rifugio per eccellenza.
Ha qualche appello o comunicazione o pensiero che ritiene utile esprimere qui perché, a suo parere, importante rispetto alle situazioni sociali di cui si prende cura?
Lavoro, lavoro e ancora lavoro per le donne, nidi e asili gratuiti per le donne che subiscono violenza. L’indipendenza economica è la vera chiave di volta.