Non tutti gli spettacoli di Fog hanno avuto una tempra amara. In the Landscape di Alessandro Sciarroni per il Collettivo Cinetico, fondato nel 2007, a Ferrara, dalla coreografa Francesca Pennini, qui in scena con altri sei danzatori, gioca con cerchi azzurri da hula-hop proprio nello stesso salone maggiore della Triennale.
È contemplativo, estatico e sottilmente appassionato come l’eponima musica di John Cage (1948), da cui trae il suo titolo. Gli interpreti, in gonne, calzini, e scarpe si dilettano a far roteare i cerchi nei modi più diversi, anche sopra la testa. È un esercizio di bravura e di estrema concentrazione, di posture del corpo e di piccoli gesti delle braccia che talvolta si distraggono dalla loro missione.
Sciarroni, già Leone d’Oro alla Biennale Danza 2019, crea uno dei suoi “format” più poetici, lasciando che le braccia di Teodora Grano fluttuino per un attimo in alto, che il naturale carisma e la grazia di Angelo Pedroni vengano allo scoperto, al pari dell’energia della Pennini quando s’impone in prima fila. In accordo (unisono), o in disaccordo, le personalità degli interpreti risultano sempre trasparenti in questa raffinata tranquillità.
Assai meno pacato è Somnole, l’assolo di Boris Charmatz, diventato da poco, e a sorpresa, direttore artistico del Tanztheater Wuppertal che fu di Pina Bausch. Concepito dal coreografo (classe 1973) come se fosse in uno stato di assopimento e di risveglio repentino, Somnole è in realtà una concitazione di movimenti continua, in cui sono pochi i tempi che inducono a pensare al suo primo stato vicino al sonno: quando si trascina a terra, o si affloscia ad una quinta. In gonna e a torso nudo, Charmatz soprattutto fischietta dall’inizio alla fine motivi classici, pop e di musica nota rivelando un’invidiabile forza e polmoni d’acciaio. È una bella idea, originale, ma non risponde alla domanda “so what?”cadendo in quella forma di virtuosismo esasperato che attanaglia anche la danza contemporanea.
Non è il caso della calibratissima Stefania Tansini; nell’assolo My body solo entra in scena con la sua esile figura in maglietta e pantaloni e trasforma se stessa in una incessante affabulatrice muta su di un palcoscenico (del Teatro Out Off) diviso tra scuro e chiaro-oro.
Superlativo il ricamo dei gesti che talvolta sembrano voler interloquire con l’altro da sé, in una variegata gamma di posizioni, soprattutto a terra. Sconcerto, perplessità, paura, nostalgia, il tutto con torsioni del corpo e delle braccia angolari, intrecciate, distese e contorte in cui anche il volto è coinvolto, ma non per narrare alcunché: solo per suggerire o lasciar intuire ciò che più aggrada al pubblico. Entro il suono di Claudio Tortorici, somigliante a un ambiente di note, il passaggio alla zona dorata coincide con salti a braccia levate e ad una maggiore leggerezza, quasi come se la coreografa/interprete abbia preso le ali per dirci di una sua necessità quasi angelica di confrontarsi solo con il sé che ha in sé.
In 40 minuti il già premiato assolo svetta su gran parte dei pezzi solistici accolti a Fog non solo per la bravura che è di molti, ma per quella relazione del suo corpo-mente duttile e flessibile con un mondo davvero diviso a metà: tra perpetuo chiacchiericcio perturbante e talvolta solipsistico, e bisogno di un silenzio che può portare “davanti alla porta che s’apre sulla mia storia”, direbbe Samuel Beckett in L’innominabile: “Lì dove sono, non so, non lo saprò mai, nel silenzio non si sa, bisogna continuare”, e Tansini continua.
In Maqam, altro spettacolo di rilievo a Fog, basta la presenza di Biagio Caravano cofondatore di mk e complice del coreografo Michele Di Stefano, già Leone d’Argento alla Biennale Danza 2014, per esprimere, nella sua vibrante immobilità, tutto il dolore del mondo. Le luci rosso sangue che fanno da fondale alla figura pregna di una sofferenza tutta interiore, nascondono Amir El Saffar, canto, tromba, samir per il suo essere conoscitore della musica tradizionale irachena e in particolare del maqam da cui la pièce trae il suo titolo, e Lorenzo Bianchi Hoesch, abituale accompagnatore di mk con i suoi suoni elettroacustici.
I due si esibiscono dal vivo e pure loro fornirebbero, da soli, un’immersione nella complessità dell’esistenza. Maqam in arabo significa “luogo”, “collocazione”, ma qui siamo sospesi in un nulla parlante, privo di scene ma con un saliscendi di luce e ombra che segue l’andamento di canto e suoni. Chi parla, esprimendosi con il solo movimento, sono i sette danzatori, in assoli femminili e maschili - bellissime le pazze rotazioni di Francesca Ugolini che pare volersi scontrare con i musicisti, e nell’ombra la perfezione di Luciano Ariel Lanza. Ma poi vi sono, a ripetizione continua, raggruppamenti in cerchio, catene, duetti infilati entro il gruppo, ove spicca Sebastiano Geronimo, a petto nudo, con la sua verve energetica.
A lode di Michele Di Stefano va quel suo ormai rodato sistema di composizione “casuale” che riempie lo spazio di un’armonia dissonante: non ce ne avvediamo, se non scrutando una, due, tre volte la struttura compositiva con tutta evidenza costruita da improvvisazioni poi rivisitate, e ci porta in un altrove talmente lontano da risultare vicinissimo alle temperie odierne.
Infine, crediamo che l’artista di punta in Fog 2022 sia stato quell’inafferrabile Christoph Marthaler che in Aucune idée ribadisce il suo teatro musicale dell’assurdo. Così Fog, in apparenza rassegna “locale” per il suo titolo–omaggio alla nebbia milanese, si apre definitivamente, con questo ed altri spettacoli non citati, a panorami internazionali. E come asserisce Umberto Angelini, il suo direttore artistico:
Vuole dare un segno di scoperta, di rischio (culturale) e sorpresa, in cui i sensi, non solo visivi, si amplifichino, la visione si faccia poetica, incerta e immaginifica, i confini disciplinari mutino, la dimensione temporale apparentemente sospesa lasci spazio all’ascolto e alla riflessione. Così come la nebbia, nasconde e apre a improvvise visioni, così il festival pone al centro la questione dello sguardo, in una visione aperta che indaga la molteplicità di linguaggi e formati, prospettive e punti di vista.
In Aucune idée, il regista svizzero Marthaler, grazie a Graham F. Valentine, attore scozzese e collaboratore di lungo corso, e Martin Zeller, suonatore di viola da gamba, sembra fare il verso al filosofo Gilles Deleuze quando diceva: “Avere un idea è sempre una festa, soltanto che è raro avere idee, anzi è una cosa che non capita spesso…”. Qui l’idea guida e filosofica sembra essere la lacuna sul piano cognitivo. I due personaggi abitano uno spazio in cui dominano porte dietro le quali si potrebbero anche nascondere altre presenze di cui percepiamo il soffio nel caleidoscopio di rimandi, nelle citazioni argute e nei rimbrotti incomprensibili. Ma su questa sorta di pianerottolo i due sembrano occupati a rintracciare - grazie alla drammaturga Malte Ubenauf - l’origine di questi vuoti di memoria e anche dei lapsus che in loro insorgono all’improvviso.
L’andare proustiano “verso la memoria perduta” è scandito da un mix musicale coerente e perciò vagabondo, da Bach a Wagner, da canzoni popolari irlandesi a Leo Ferré. Il violista Zeller è un campione di amnesia canora e sonora e accompagna il grandissimo attore Valentine nelle sue azioni paradossali, e spiazzanti. Improvvisi accadimenti come la rottura di un calorifero le cui canne emettono un fastidioso rumore, la posta attesa ma che non arriva, la luce che c’è e scompare, disgregano il loro-nostro agire quotidiano. Siamo certi che si tratti davvero di una ricerca dell’origine di disturbi mentali e non piuttosto di un mondo odierno squassato e in cui tutto sembra non funzionare, in cui occorre vivere confusamente, portando a termine un’azione, una sola, con estrema fatica?
La mano di Marthaler qui è quasi soavemente aggraziata; punge senza crudeltà e nel suo ritorno al teatro dell’assurdo di molti anni fa, sembra rassegnato. Soprattutto sorride.