La crisi dei rifiuti ha diverse sfaccettature a seconda della zona del mondo di cui si parla, ma non si può negare che abbia un’estensione globale. Più che i rifiuti in sé, gli scarti e i processi che li producono sono la cifra che caratterizza il nostro presente e, per alcuni, anche il nostro futuro. Secondo una recente ricerca pubblicata sulla rivista Nature (qui un’intuitiva rappresentazione grafica), il peso di ciò che l’uomo ha prodotto (anche detto “massa antropogenica”) ha superato quello della biomassa, cioè la materia vivente.
I paragoni che possono essere fatti sono tanti, e tutti ugualmente spaventosi. Il ritmo di produzione della massa antropogenica è tale, oggi, da eguagliare o addirittura superare il peso corporeo di tutte le persone sulla faccia della Terra… ogni settimana. All’inizio del Novecento, il rapporto tra massa antropogenica e biomassa era di 1:33: oggi, è di 1:1. E non fa che crescere. La massa antropogenica di New York è pari al peso di tutti i pesci del mondo. La plastica che abbiamo prodotto pesa il doppio di tutti gli animali messi insieme.
Non possiamo più nascondere il nostro ruolo centrale negli equilibri del mondo naturale. L’argomento è stato studiato dal punto di vista sociologico da Marco Armiero, storico dell’ambiente e direttore dell’Environmental Humanities Laboratory del KTH di Stoccolma, autore del libro L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale, edito da Einaudi.
Il libro è “un viaggio nella nostra epoca, il Wasteocene, l'era degli scarti. Un'era segnata dalla continua produzione di persone, comunità e luoghi di scarto. Una discarica globale che dobbiamo smantellare”. Il termine proposto per individuare la nuova era geologica in cui stiamo vivendo, “Wasteocene”, nasconde, innanzitutto, una critica all’Antropocene.
Con Antropocene si intende una proposta epoca geologica, nella quale l'essere umano, con le sue attività, è riuscito, apportando modifiche territoriali, strutturali e climatiche, a incidere sui processi geologici. In sostanza, un riconoscimento della grossa impronta collettiva che, come specie, stiamo lasciando sul Pianeta.
C’è una debolezza intrinseca in questa classificazione: l’Antropocene suggerisce, infatti, che tutta l’umanità sia ugualmente responsabile delle alterazioni ambientali. Secondo Armiero, invece, l’attuale crisi ecologica e sociale non può essere trattata semplicemente come un prodotto del genere umano in quanto tale. Come può essere che un abitante di Houston, in Texas, e uno di Maputo, in Mozambico, abbiano le stesse responsabilità nella crisi socio-ecologica che stiamo vivendo? Se è vero che viviamo tutti sullo stesso Pianeta, è anche vero che nel medio-lungo periodo qualcuno pagherà il conto più salato.
Per sottolineare queste disparità qualcuno ha proposto il termine “Capitalocene”, l’era del capitalismo. Ma, mentre il Capitalocene indaga le radici della crisi socio-ecologica, il Wasteocene, che Armiero ha proposto assieme a Massimo De Angelis nell’articolo Anthropocene: Victims, Narrators, and Revolutionaries, intende mostrare le sue conseguenze e svelare quanto essa sia reale e vicina a noi, oltre che globale.
Il Wasteocene non ha una precisa data di inizio che identifichi la sua delimitazione temporale, ma a grandi linee questa è da ricondurre all’invasione europea nel Nuovo Mondo. Vale a dire, il momento in cui la colonizzazione ha eliminato dal loro continente o reso schiavi decine di milioni di persone, in modo da estrarre ricchezza. Ha, in breve, prodotto “relazioni di scarto”.
Più che degli scarti intesi come rifiuti in senso letterale, infatti, il Wasteocene è l’era delle relazioni di scarto (wasting relationships), cioè i processi che scartano sistematicamente anche gli esseri viventi, umani e non umani, i luoghi, i saperi e persino i ricordi.
“Scartare”, afferma Armiero nel libro, “significa decidere che cosa ha un valore e che cosa non lo ha. Scartare è un processo sociale tramite il quale le ingiustizie di classe, etnia e genere vengono incorporate nel metabolismo socio-ecologico che produce tanto i giardini quanto le discariche, corpi sani e corpi malati, luoghi puri e luoghi contaminati”.
Lo “scarto” non è considerato, all’interno del libro, come una cosa, ma come “un insieme di relazioni socio-ecologiche tese a (ri)produrre esclusione e disuguaglianze”. Un meccanismo che, alla base, ne riproduce uno molto elementare, la “produzione dell’altro, o di chi sta all’esterno”. Che, alla fine, rivela qualcosa tanto sul prodotto che sul produttore: “gli scarti non definiscono soltanto chi sono gli altri, ma anche «chi siamo noi»”.
Il tutto ha risvolti molto pratici. Le relazioni di scarto producono profitto per pochi attraverso l’estrazione di valore dalle miniere, dal sottosuolo, dagli umani e dai non umani. Uno degli esempi nel libro di Armiero è la strage del Vajont. Lo Stato e un’azienda idroelettrica da una parte, gli abitanti di una valle montana dall’altra. Un’infrastruttura idroelettrica imposta, che sfida le note fragilità del luogo. E alla fine una frana, che cade nel bacino e genera un’onda che supera la diga: le 2000 vittime sono uno scarto, forse imprevisto, ma non imprevedibile.
Anche l’attuale pandemia richiama i meccanismi del Wasteocene. Li si è visti nella retorica, diffusa soprattutto nei primi tempi, dell’essere “sulla stessa barca”, come se tutti avessero le stesse possibilità di “rimanere a casa” per far sì che si potesse “tornare alla normalità” il prima possibile. La realtà è che le classi sociali non sono tutte ugualmente vulnerabili o responsabili delle emergenze sanitarie, così come di quelle ambientali.
Ma le dinamiche del Wasteocene ci toccano ancora più da vicino. Si chiede Armiero nel libro: “Cos’è il mar Mediterraneo, oggi, se non il paradigma del Wasteocene, la barriera concettuale e materiale contro la quale migliaia di esseri umani si infrangono nel tentativo di forzare i confini che dividono coloro ai quali si attribuisce un valore da coloro che si possono scartare?”.
Di soluzioni efficaci, finora, nemmeno l’ombra. Quando si parla di rifiuti, spesso il discorso si sposta su possibili soluzioni tecnologiche alla “cosa” in sé, invece che alle relazioni socio-ecologiche che l’hanno prodotta. Lo scarto è visto come un problema tecnico, che richiede soluzioni tecniche: di fatto, si depoliticizza la questione. Opporsi a una visione tecno-soluzionista, per Armiero, non significa rinunciare alla scienza, bensì spingere per una prospettiva più ampia, integrata, che non cerchi di risolvere la “cosa”, ma le relazioni. Ecco com’è che “il Wasteocene ripoliticizza la crisi socio-ecologica: scartare è una relazione, non una cosa o un errore a cui porre rimedio”.
Un possibile antidoto al Wasteocene per Armiero è il commoning, che si realizza attraverso relazioni di cura e condivisione (sharing and caring), in antitesi con quelle del Wasteocene basate sullo sfruttamento e sullo scarto (wasting). In altre parole: “mentre le relazioni di scarto si fondano sul consumo e l’alterizzazione, cioè sulla decisione di che cosa e chi sia da rifiutare, le pratiche di commoning si basano sulla riproduzione delle risorse e delle comunità”.
Uscire dal Wastocene è difficile, ma possibile. La strada è quella della tutela dei beni comuni (in inglese, appunto, commons): dall’acqua alle foreste, fino ad arrivare alla cura degli spazi pubblici e dei giardini del proprio quartiere. Secondo Armiero, ci si deve “riappropriare dei mezzi di produzione e riproduzione delle narrazioni”. Portare avanti una “guerriglia narrativa” che dia voce alle comunità subalterne e contrasti le “narrazioni tossiche” che colpevolizzano le vittime e naturalizzano le relazioni socio-ecologiche basate sullo scarto.
Il commoning mostra che un’altra storia, un altro racconto, sono possibili.