Quanto sta accadendo in Ucraina, sul campo e come viene riportato dai media, rilancia un tema che ciclicamente si ripropone, al primo esplodere di una guerra: chi si macchia di delitti che non rientrano nella dinamica ''accettata'' di un conflitto deve o può essere perseguito e, se sì, da quale autorità.
È, come sempre, un problema di regole che devono essere accettate per valere.
Soprattutto se si basano sul concetto di giurisdizione universale, che poggia su regole che, valendo per tutti, laddove siano violate volontariamente, si devono potere perseguire, anche se ad occuparsene è un potere giudiziario fisicamente lontano dai confini dei luoghi teatro di una violazione dei diritti umani.
Riavvolgendo il nastro della narrazione di queste settimane, ci accorgiamo che, ad eccezione dei media russi vicini al regime e di un manipolo di sostenitori acritici di Putin (ce ne sono parecchi anche di italiani), il racconto sembra essere uniforme, con civili ucraini vittime non solo degli attacchi - aerei o di artiglieria - da parte della macchina bellica russa, ma anche di atti di violenza al di fuori di scontri tra gruppi armati.
Sarebbero, quindi, da ascrivere a proprie e vere esecuzioni i decessi di decine di civili, spesso avanti in età, i cui corpi si cominciano a contare, e non solo nella cittadina di Bucha, assurta a luogo martire per l'intera Ucraina.
Quindi, i morti ucraini si possono dividere in due disgraziate categorie: quelli morti sotto i bombardamenti e quelli che sono stati passati per le armi senza che avessero colpe specifiche, se non essere ucraini.
Se i primi rientrano nelle statistiche, i secondi alimentano il capitolo dell'orrore perché quasi tutti non sembrano combattenti attivi, sia per la loro età e il loro sesso, che per il loro abbigliamento, posto anche che accanto a loro non sono state trovate armi, ma solo oggetti riconducibili alla vita quotidiana, sia pure in una condizione di guerra.
Si rientra nella casistica dei crimini di guerra più esecrabili - anche se è impossibile fare una graduatoria dell'orrore - di cui si potrebbe occupare una autorità chiamata a pronunciarsi sull'oggettività dei fatti e non condizionata da un preconcetto ideologico.
Impresa difficile quando si costituì la prima corte internazionale - quella di Norimberga - composta non da giudici terzi (quindi potenzialmente immuni da contagi ideologici esterni), ma nominati dai Paesi usciti vincitori dal secondo conflitto mondiale. Erano Geoffrey Lawrence (britannico, giudice principale e presidente); Norman Birkett (Regno Unito); Francis Beverley Biddle (statunitense); John J.Parker (statunitense); Henri Donnedieu de Vabres (francese); Robert Falco (francese); Iona Timofeevič Nikitčenko (sovietico) e Aleksandr Fëdorovič Volčkov (sovietico). E da vincitori si comportarono con sentenze capitali per i gerarchi nazisti più compromessi.
Ma oggi quella struttura della magistratura internazionale giudicante non è più proponibile, demandando tutto ad organismi sovranazionali, quale la Corte penale internazionale che, negli ultimi anni, tra mille difficoltà, s'è occupata soprattutto di crimini contro l'umanità quando ai condannati venivano contestati delitti - sia direttamente, sia per averli ordinati o non opponendovisi - contro i civili o contro militari nemici disarmati.
Ma il cammino della Cpi, laddove dovesse ufficializzare l'avvio di una istruttoria sulle vicende ucraine, sarebbe arduo non tanto per il lavoro investigativo (il materiale, purtroppo, non manca: vedi alla voce “fosse comuni”), quanto perché per la prima volta vedrebbe sul banco virtuale degli imputati un capo di Stato in carica. E di che Stato!
Vladimir Putin, se i pubblici ministeri riuscissero a dimostrare che egli è a piena e condivisa conoscenza di quanto accade in Ucraina, andrebbe incontro ad una condanna appena simbolica, che lo colpirebbe solo in caso uscisse dai confini della Russia e andasse in uno degli oltre 120 Paesi che riconoscono la giurisdizione e quindi il ruolo della Cpi.
Saremmo in piena fantascienza o nel delirio di onnipotenza dello Zar.