Il bosco mi ricollega immediatamente alla fiaba, all’infanzia e al mondo degli antenati. È un luogo incantato dove ricerco la mia centratura interiore, nello spiazzo fisico in mezzo agli alberi, ma anche nello spazio interiore della coltivazione letteraria del simbolo.
L’oggi sembra aver smarrito quei significati misteriosi celati in questo vocabolo delle fiabe, delle piante, degli spiritelli del piccolo popolo. Ha ormai perso il piacere della scoperta, del silenzio ritemprante, della lentezza senza tempo di questo posto magico. Ha ceduto il passo alla fretta e alle costruzioni mentali sempre più contorte e scomode, ai viaggi velocissimi, senza tempo per lo stupore. Eppure, esistono ancora personaggi strani che non sono allineati con le mode contemporanee, esploratori di senso amanti della natura e del mistero racchiuso in essa, come Francesco Boer, goriziano, scrittore e alchimista, così esperto di simboli che a guardarlo sembra egli stesso un simbolo, un giovane vecchio, spontaneo come un infante, ma sapiente come i nostri antenati. Ha scritto già così tanti libri che lui stesso ne ha ormai perso il conto, ma ogni volta che inizia un lavoro è come un bimbo curioso che si addentra nel suo viaggio incantato. Il suo percorso si snoda come quello dell’eroe, alla ricerca del simbolo perduto, tra i venti di bora e le arrampicate sulla roccia.
Nel libro Troverai più nei boschi affermi che “il simbolo è la via che ci permette di intuire la fratellanza fra coloro che sembrano estranei”. Quale simbolo può affratellare, nel mondo contemporaneo, l’uomo globalizzato e asservito con lo spirito del ribelle?
Fra la metropoli e il Waldgang jüngeriano, trovo ci sia una sintesi, diffusa e accessibile: la macchia. È un ambiente che porta nel nome un che di sporco, come se fosse un errore su una pagina altrimenti ordinata. Intrichi di rovi, arbusti, erba alta, ortiche. Cresce ai margini, in tutti i sensi: ai bordi delle strade, nei giardini delle case abbandonate, nelle periferie. Quando si manifesta in città, la bollano con il titolo di “incuria”; ma anche quello è un piccolo ecosistema, che resiste al degrado ben maggiore della cementificazione incontrollata. Non è solo un’oasi di verde, ma è anche la casa dove trova rifugio la piccola vita. Insetti, lucertole, rospi, ricci, uccelli. È una casa provvisoria: prima o poi arriverà uno dei zelanti tutori dell’ordine civico, per ripristinare il deserto a suon di decespugliatori. Ma proprio in questa precarietà sta il carattere rivoluzionario del darsi alla macchia: non è un controllo territoriale, ma è un’espressione di libertà, che pare effimera ma in realtà è flessibile, capace di disperdersi per poi riorganizzarsi altrove, con gli stessi movimenti con cui uno stormo sfugge ad un falco. Negli interstizi fra le sbarre della gabbia, ai margini che si aprono nella rete del controllo, torneranno sempre a spuntare nuove macchie.
E in questo ordine cittadino controllato e rigoroso c’è posto per lo scorrere delle acque, fontane, laghetti, riottoli di cui spesso non si riesce a percepire il suono. Nel bosco, invece, il sacro fiume serpeggia chiassoso e nel silenzio delle acque lacustri, in fondo in fondo c’è un grande rumore…
A volte si parla di un “silenzio della natura”, e non è del tutto sbagliato, perché è un sollievo per l’udito, finalmente libero dall’onnipresente rombo del traffico, non più tormentato dal chiacchierio cittadino, che non tace mai eppure non dice nulla.
Il silenzio naturale non è tuttavia un mutismo. Una privazione assoluta di suoni sarebbe d’altronde altrettanto opprimente. La quiete che avvertiamo non è nell’ambiente che ci circonda; è in noi che si accende. È un silenzio interiore, l’anima che finalmente si sgombra dal rumore di fondo che la distraeva senza condurla a nulla. Non più costretta a difendersi, ora può ascoltare, aprirsi nella ricezione. Si partecipa allora a un grande concerto, quasi trattenendo il fiato. Ronzii, frulli, schiocchi e fischi lontani: i suoni della natura ci compenetrano, riconnettendoci a ciò che ci circonda.
Come si addentrano nel bosco l’uomo di scienza e quello più intuitivo?
Che gli scienziati abbiano una mentalità esclusivamente razionalista è un pregiudizio. Come tutti i pregiudizi diffusi, a volte viene creduto anche da chi lo investe, che finisce così per adeguarsi, rispettando inconsapevolmente la narrazione. Tuttavia conosco di persona molti appassionati uomini di scienza, che non hanno dimenticato l’arte dello stupore, la capacità di abbandonarsi all’incanto.
Il razionalismo è la pretesa che la logica – per lo più di stampo pragmatico – possa spiegare e governare ogni cosa. In ciò, si comporta come una parte che pensa di essere il tutto. Questo non significa che la razionalità sia di per sé negativa, anzi; né che sia nemica di altre facoltà umane, come l’intuito, il sentimento, la creatività. Il trasporto soggettivo non offusca per forza la logica oggettiva; al contrario, un’empatia consapevole nutre il ragionamento, e questo a sua volte permette di allungare le radici immaginali che ci connettono al mondo.
Che radici immaginali spuntano dalle formiche e dalle api? Cos’hanno da insegnarci?
Le comunità degli imenotteri sociali offrono al contempo fascinazione e timore. A osservarli e studiarli si scopre una straordinaria organizzazione interna, con una complessa suddivisione di compiti e una quantità di adattamenti ingegnosi che in prima battuta non ci saremmo mai aspettati di riscontrare in forme di vita così minuscole.
È inevitabile, a questo punto, riflettere sulle affinità fra la società umana e quella di un alveare, o di un formicaio. Ci appaiono come un potente simbolo, sia perché ci assomigliano, sia perché differiscono in alcuni aspetti chiave. Se si trattasse di una semplice similitudine, in fin dei conti, non sarebbe che uno specchio didascalico. La discrepanza maggiore è che in questi insetti manca il conflitto fra individuale e collettivo, che è una delle difficoltà e al tempo stesso una ricchezza fondamentale della società umana. L’ape non ha diritti, la formica non sogna nemmeno una ribellione al sistema che la ingloba. L’individuo si fonde completamente in un super-organismo, come se l’ape non fosse che la cellula di un alveare vivente. È vero che questo annullamento della persona è stato invocato anche da certe ideologie umane: un Leviatano totalitario sarebbe in ciò molto simile a un formicaio, a cui però si aggiungerebbe la sofferenza diffusa di un senso di libertà perduta.
La città piena di cemento e una distesa d’erba, come possono parlarsi? Sono costellazioni distanti anni luce?
La città esclude del tutto la natura solamente se si concepisce come uno spazio di controllo assoluto. Per garantire comfort e sicurezza, si tende a chiudere fuori tutto ciò che è imprevedibile, selvatico, ingovernabile – in poche parole, ciò che più genuinamente mostra i segni della natura. In una certa misura, è necessario: tutto sommato, anche gli animali stessi si costruiscono tane e ripari. Ciò che fa la differenza, appunto, è il grado in cui si spinge il controllo del territorio abitato, che nella nostra società giunge a pensarsi assoluto, totalitario.
Parlando di controllo e sicurezza, nell’ambito urbano, viene da pensare a sistemi di sorveglianza, pattuglie di polizia, norme e burocrazia. Ma questa tendenza la si ritrova in maniera esplicita anche nel rapporto con il verde urbano, che dev’essere per forza curato, tenuto sotto controllo, messo in sicurezza. Piuttosto che lasciare spontaneità a un’aiuola, la si rasa in una forma geometrica. Se il ramo di un albero minaccia di cadere, si preferisce abbattere l’intera pianta, senza possibilità di appello.
Lo stesso principio si moltiplica e amplifica in un modo globale di pensare e agire. Tuttavia, questa attuale pretesa non è per forza l’unico modo che abbiamo per abitare il mondo; anzi, si rivela un’abitudine insostenibile, e in ultima analisi anche irrealizzabile. La spontaneità della vita trova sempre modi di aggirare i controlli, di intrufolarsi oltre le rigide barriere del controllo artificiale. Ed è un bene che sia così, perché questo confronto apporta nuova linfa a quella che altrimenti sarebbe una sterile autocrazia.
Città e prato, dunque, non si escludono per forza l’un l’altra. Si può lasciare che lo spazio urbano venga compenetrato dalle altre forme di vita, pur nei limiti di una convivenza sostenibile per entrambi. Per questo, occorre però abdicare al trono su cui l’essere umano si è innalzato da sé, auto-dichiarandosi il solo governatore dello spazio in cui si abita. Significa accettare inconvenienti, rinunciare a un certo grado di sicurezza; e comprendere che i benefici di questa scelta ricadrebbero soltanto in piccola parte a favore di noi umani. Il bene che ne deriverebbe sarebbe più ampio, rivolto a una comunità estesa che ricomprende anche le altre forme di vita.
Chi è il lupo che ci perseguita?
Nel mondo simbolico, il lupo è simbolo di voracità. Non è un appetito sano, che pur è una manifestazione di vitalità; ma una mancanza patologica, che la gola cerca di colmare, senza però mai riuscirci. Anzi, i tentativi di colmare quel vuoto interiore con beni materiali non fanno che ingrandire il buco spirituale che lo condanna.
Non si tratta, ovviamente, del lupo animale, che vive sulle nostre Alpi, e sugli Appennini. Nel simbolo non si parla del Canis lupus ma dell’Homo homini lupus. Un’avidità ferina e ferale, eppure quanto mai umana. Il lupo cattivo di oggi è nell’economia che si fa speculazione, che trasforma le persone in consumatori, che sbrana la natura in nome di un miope profitto.
Paradossalmente, a fare le spese di questa avidità devastante è stato anche il lupo vero, l’animale in carne e ossa. Visto come un pericolo per gli allevamenti, è stato perseguitato fin quasi a scomparire. Gli esemplari scampati al massacro sono poi stati assediati dalla distruzione del loro habitat, consumato con ritmo sempre crescente dalle attività umane. Soltanto negli ultimi decenni, per fortuna, la popolazione di lupi sta tornando a espandersi anche nel nostro paese.
Tuttora, però, l’animale lupo sconta la sua cattiva fama simbolica, etologicamente del tutto immeritata. Conoscere bene i simboli serve anche a distinguere il piano del significato, dal segno che lo riflette. È vero che nell’immaginazione della nostra cultura il lupo ha giocato il ruolo dell’ombra; è stato l’attore che ha incarnato le nostre oscurità interiori. Ma prendersela con l’animale in sé sarebbe insensato: proprio come tirare sassi alle ombre, invece che affrontare ciò che le proietta – noi stessi.
E il misterioso ragno e la sua ragnatela ci suggeriscono una traccia per il futuro? Come possiamo ricostruire ciò che abbiamo distrutto?
Il ragno tesse una trappola meravigliosa. Quando l’aria è umida, i fili di seta si riempiono di perle di rugiada. Se il sole brilla con la giusta angolazione, nella tela riverberano i colori dell’arcobaleno. Viene da chiedersi se ogni trabocchetto non sia, per forza di cose, una fascinazione: il passo falso di caderci è forse la resa a una tentazione. È indicativo che il nostro mondo sia ormai completamente avvolto da una ragnatela, quel World Wide Web che al tempo stesso ci ammalia e ci avvinghia. Sarebbe oltremodo semplicistico considerarla soltanto come una trappola, ma è senza dubbio uno degli aspetti simbolici da tenere in conto. La stessa parola “rete”, d’altronde, ha una valenza duplice: da un lato è l’intreccio che connette, il tessuto vivente della società stessa; dall’altra è uno strumento per delimitare, segnare recinti che escludono e trattengono. In questa come in altre ambiguità, sta a noi adoperarsi – sia individualmente che collettivamente – affinché a prevalere sia il significato più costruttivo.
Invece che correre come il biancoconiglio guardando continuamente l’orologio, l’albero resta fermo, abbarbicato alle sue radici e si espande ramificando e germogliando. In che modo somiglia alla vita dell’uomo?
L’albero rimane sul posto, ma non è certo fermo. I suoi rami giocano col vento, mostrando un’elasticità strutturale simile a una danza. Più che assomigliare alla nostra vita, sarebbe un’ideale a cui puntare: sapersi muovere pur rimanendo fermi, accettare il cambiamento ma restare fedeli a sé stessi.
Come scorre il tempo nella strada del bosco?
Come una spirale: gira in tondo, ma non torna mai su sé stesso. Gli alberi e le piante del sottobosco, e anche tutti gli animali dall’insetto fino al cervo: ogni specie partecipa a modo suo alla grande giostra dell’anno.
Basta osservare un albero. Già prima di marzo, spuntano le gemme sul ramo; passano le settimane, e crescono le prime, timide foglie. Giunge allora la bellezza sfrontata della fioritura, che porta alla generosità nella stagione dei frutti. I mesi freddi vengono allora a scuotere i rami, spogliandoli delle foglie: a vedere l’albero nudo, pare una fine senza ritorno. Ma sappiamo che già i primi tepori di fine inverno lo risveglieranno al ciclo della vita.
Il ciclo non è però un cerchio sempre uguale a sé stesso. Ogni anno l’albero cresce. La sua corteccia mostra le cicatrici del tempo, a volte perde rami alle tempeste. Anch’esso non è eterno: prima o poi soccomberà al disfacimento che attende tutto ciò che vive. Allora il terreno su cui gettava ombra sarà risvegliato dal sole, germogli di nuovi alberi si contenderanno il ruolo di successore.
Anche il bosco nel suo complesso – abitanti compresi – gira sempre in tondo, eppure cresce e cambia. E anche noi che lo frequentiamo potremmo adeguarci a questa danza, imparando a coniugare una stabilità ciclica con l’evoluzione che solo il mutamento sa innescare.
Ti sei mai piacevolmente perso in un labirinto intricato?
Mi sono perso tante volte – su sentieri reclamati dalla selva, nella nebbia, o in decisioni di vita che poi si sono rivelate un tortuoso senso unico. Non è però mai stato piacevole. Se si smarrisce la via in un bosco, e il cuore rimane sereno, allora non ci si è perduti veramente: è solo un’avventura, forse in fondo sappiamo già che ce la caveremo.
Il labirinto diventa iniziazione solo se ci perdiamo veramente – e “perdere” vuol dire allora anche abbandonare, lasciare qualcosa di sé alle spalle. Occorre la nigredo dell’angoscia affinché il percorso sia davvero trasformativo: è attraverso la dissoluzione che l’anima rinasce.
Né ha senso, in quest’ottica, cercare di perdersi di proposito. C’è chi va in cerca delle oscurità più cupe, non per necessità ma quasi per noia, come se fosse un passatempo. Per loro fortuna, con una simile disposizione raramente trovano qualcosa di più della loro stessa ombra. La trasmutazione dell’anima non è qualcosa da ricercare attivamente, ma l’ultima, disperata via di uscita, che si presenta quando si credeva ormai che il labirinto fosse invincibile.
Anche un bosco reale può trascinarci – nostro malgrado – in un simile dedalo. Perdersi nel mondo esterno può innescare un risolutivo cambiamento interiore. Ma cercare questa prova di proposito significherebbe mancare di rispetto al mistero che il bosco incarna.