Nelle mie conferenze che hanno come oggetto l’evoluzione della coscienza umana in base alla storia dell’Arte, la Cena in Emmaus del Caravaggio (in particolare quella della versione esposta presso la Pinacoteca di Brera a Milano più che in quella della National Gallery di Londra) ha sempre rappresentato un tassello fondamentale tra le immagini di cui possiamo disporre per comprenderne il senso e il cammino. Lo spettatore attento, emotivo, colui che vive l’arte con il più profondo e sincero desiderio di comprenderne i meccanismi e i messaggi, mi può senz’altro capire.
Con quasi tutte le meravigliose opere del Merisi accade il miracolo con cui, già alla prima visione di esse, il fruitore dell’arte prova a pieno titolo l’esperienza del risveglio. L’uomo di allora e ancora l’uomo di oggi, con esse, raggiunge il massimo livello della magia che è possibile trarre da una raffigurazione; solo qualche decina d’anni prima delle loro realizzazioni tutto ciò sarebbe stato impossibile.
Il mondo rappresentativo del Caravaggio, i suoi spunti, i suoi squarci di luce che vivono a dispetto delle tenebre del mondo circostante, sono parte di un linguaggio estetico innovativo, moderno e futuribile. L’anima umana si evolve così come la storia dell’arte e alcune opere, tra cui le sue, ne sono l’esempio più lampante.
Il suo alfabeto visivo crea un divario con il passato che sgomenta e affascina: improvvisamente l’uomo, grazie ai suoi dipinti, ha avuto l’opportunità di scoprirsi adulto, più complesso, capace di discernere e di approfondire, in bilico tra quel bene e quel male che il mondo quotidianamente ci propone, con i suoi enigmi e i suoi messaggi nascosti.
Il linguaggio estetico di Caravaggio è quindi il primo che possa essere ritenuto veramente contemporaneo, perfettamente adatto alle coscienze degli esseri umani nati dal diciassettesimo secolo in poi, fino ai nostri giorni. Caravaggio è fotografia, teatro, se non addirittura cinema. I soggetti dipinti con una capacità tecnica fino ad allora senza eguali, al di là del contesto storico che rappresentino, sono come figuranti in movimento sul palco della vita, sulle assi della scenografia dell’umanità. La lancinante e improvvisa entrata in scena della luce divina nel mondo tenebroso terrestre, governato dal male e impersonificato dall’invisibile ma immanente Diavolo, è qualcosa di scandaloso e di sublime, così potente da squarciare ancora oggi i nostri spiriti sognanti e sofferenti. In questo contrasto tra Lux e Tenebrae viviamo infatti immersi anima e corpo e vi ci riconosciamo appieno.
Caravaggio, ormai tutti lo sanno bene, non fu un esempio biografico tale da diventare un modello per i posteri: per Michelangelo Merisi le risse, la violenza, le reazioni istintive colme d’odio e di ira, i ferimenti e financo gli omicidi erano, se non il pane quotidiano, la dimensione di normalità della propria vita. È chiaro, è quasi banale dire che se tutti gli uomini agissero seguendone l’esempio, il mondo (che già tende fin troppo all’orrore e alla tragedia) non sarebbe affatto migliore. Più importante è però affermare con assoluta decisione che le sue opere d’arte hanno alzato l’asticella del senso della meraviglia che l’umanità è in grado di provare. È per questo motivo che posso affermare che Caravaggio non fu né angelo né diavolo: fu semplicemente uomo. E lo fu in modo sublime, con tutta la sua violenza, la sua imprevedibilità, l'angoscia e le sofferenze, subìte e procurate: con l’arte ripagò e andò pienamente in credito nei confronti dell’umanità apportando genialità, coraggio, speranza nel poter andare oltre i propri limiti individuali, anche per chi ha fallito nell’impresa, come lui.
Caravaggio ci mostrò da allora che luce e tenebre coesistono e che il nostro vivere è un’eterna rappresentazione ambientata nella scenografia più ardita e allo stesso semplice mai creata: la nostra realtà. Caravaggio nella sua biografia, una disperata e tragica biografia, si sacrificò nel senso più letterale del termine: l’agnello era lui, la testa mozzata era la sua, come lui stesso ha raffigurato in Davide e Golia. Al contempo, con le proprie opere, ha cantato un inno alla sacralità, al mistero della vita umana e al destino che ci guida.
In Caravaggio la ricerca del sacro, che sente mancare nella propria disperata esistenza, è sempre e comunque evidente e forse per questo ancora più emblematica, nella sua violenza. Fu, la sua, la prima indagine del divino in chiave moderna, da uomo contemporaneo, da figlio ormai solo e che ha compiuto il più terribile degli omicidi: il parricidio di Dio.
Il primo ad aver bisogno di Dio è proprio il Diavolo, senza il quale neanche esisterebbe e al quale deve tutto: la sua missione, la sua nascita, il suo destino.
È per questo che, mai come in nessun altro dipinto nella storia, nella Cena in Emmaus Caravaggio ha cercato di creare, o meglio, ritrovare un dialogo con il Cristo, ormai quasi dimenticato dall’uomo contemporaneo pur tra continue e vane citazioni. L’uomo Michelangelo Merisi, nell’opera, si raffigura al tavolo di una qualunque osteria del suo quotidiano, seduto proprio di fronte al Cristo, alla sua destra, mentre ci dà le spalle. Non ci mostra semplicemente il Cristo risorto raccontato nell’episodio evangelico: ci raffigura invece il suo colloquio personale con un uomo speciale, il più vicino alla perfezione, che sia o meno il figlio di Dio. Gli pone delle domande, di fronte ad altri esseri umani, basiti e incuriositi; il Cristo è colto nell’atto di rispondergli. Il dialogo è partito, è nel vivo. Quel dialogo che in vita lui probabilmente non ha mai avuto, che ha disperatamente e in tutti i modi cercato e che, probabilmente, negli altri uomini non ha mai trovato. Non basta solo il non aver commesso omicidi per essere uomini migliori.
A quel tavolo, così povero e così polveroso, se ci pensiamo bene ci siamo seduti tutti. Noi siamo lui. Né angeli, né diavoli. O forse, siamo contemporaneamente l’uno e l’altro: Ecce homo. È forse questa la più grande lezione del genio lombardo.