Breve riassunto delle puntate precedenti: nel 1990 intrapresi un viaggio solitario nell’isola di Sulawesi, l’antica Celebes dei tempi dei tesori e delle spezie.
Dopo una prima parte del viaggio in compagnia di un amico dove ho conosciuto il cuore verde di quella terra ed i fantastici popoli che la abitano, sono giunto, con un volo al cardiopalma, nella regione più settentrionale dell’isola dove, noleggiata una buffa macchinetta, ho iniziato ad esplorare il misterioso Nord di Sulawesi in attesa di imbarcarmi per Bunaken e Siladen con le loro celebri barriere coralline.
Dicono che quando Dio ti vuole punire esaudisce i tuoi desideri, e poiché io desideravo eroiche avventure solitarie ma finivo sempre per trovare compagni di viaggio, devo dedurre che, almeno in quel tempo lontano, godevo ancora della Sua Benevolenza.
In effetti, sarà stato il “fascino dell’avventuriero solitario” o semplicemente la curiosità di conoscersi che ancora animava i rari viaggiatori prima del boom del turismo di massa, fatto sta che qualcuno, nonostante il mio aspetto burbero ed ispido, cercava sempre di fare amicizia con me.
In quei primi giorni, esplorando i dintorni di Manado con il mio macinino, mi fermai una sera al Nusantara Diving Centre che, secondo la mia guida, la famigerata ma insostituibile “mattonella” della Lonely Planet, avrebbe dovuto essere il più attrezzato centro sub della zona, con stanze decenti a circa 10 dollari USA. Appena entrato nel complesso turistico vengo accolto da un orribile figuro, uno di quei tipi etnici locali che sembrano sempre malati delle peggiori dispepsie, minuscolo, giallo e bisunto anche se elegantissimo nel suo sarong color lilla il quale, mellifluo, mi dice prostrandosi in inutili scuse che le camere a 10 $ erano esaurite però, proprio per me, era disponibile, se volevo, una camera “luxury” a 40 $ con letto matrimoniale king size e aria condizionata.
Dovete sapere che secondo i canoni del viaggio “avventura in terre selvagge e inesplorate” nel quale un po’ maniacalmente mi ero calato, una camera lusso con King size bed (senza nemmeno le risorse umane a disposizione per poterlo almeno sfruttare) costituiva una deroga inaccettabile a tali canoni, inoltre 40 $ erano una vergognosa enormità per quei luoghi e quei tempi.
Decisi quindi di non darla vinta alla larva agghindata con quegli orribili denti rossi di betel che mi stava di fronte, per cui rifiutai e proposi un 20 dollari con l’aria di uno pronto a girare i tacchi. Ci accordammo per 25 $, sempre oltre il mio budget ma almeno avevo tenuto la posizione ed ottenuto un bello sconto.
Fermo la camera per i giorni necessari ad esplorare la regione di Manado che era ricca di bellezze naturali: soprattutto i vulcani che avevo visto raggelato dall’aereo, un famoso parco naturale dove speravo di vedere i celebri giardini di corallo - set preferito dal grande fotografo subacqueo David Doubilet - e di incontrare l’animale simbolo di Sulawesi il Tarsio Spettro che, con un nome siffatto, potrebbe essere un orrida creatura mentre invece è l’esserino più dolce, indifeso e tenero che si possa immaginare, vero simbolo della bellezza e della fragilità di questa terra.
Vengo a sapere poi che le immersioni costano 90 $ al giorno, con un prezzo medio internazionale di 60 $, e che le guide, mortacci loro, sono tutte indonesiane.
Piuttosto deluso mi fermo al ristorante costituito da un gran buffet dove sotto un ricco florilegio di orchidee e frangipane, che lì crescono come le margherite da noi, stanno quattro vassoi striminziti con robe strane, assurdi pseudo-salumi fluorescenti e, fortunatamente, una gigantesca ciotola del solito ottimo nasi goreng, il piatto di riso indonesiano da cui mi servo abbondantemente poiché sarebbe stata la mia unica portata.
Mezzo stordito dal profumo celestiale ma pesantissimo dei frangipane mi siedo solo soletto a gustarmi l’insperato riso che, per un mio vezzo, mangio sempre alla orientale con i bastoncini cinesi quando noto due tipi, una coppia, che mi sta guardando con aria irresoluta, sicuramente europei, giovani e carini quindi certo non inglesi o tedeschi, avrei detto italiani o spagnoli poiché i viaggiatori francesi, arroganti come sono, non assumerebbero mai un’aria così persa e sconsolata.
Comunque, presto lo avrei scoperto perché lei viene verso di me con aria timida ed impacciata: “Excuse mi ser, We arrive today from Italy end...”, non riesco a trattenere un sorriso, un inglese con accento più meneghino di così non lo avevo mai sentito, dissi, e anche lei scoppiò a ridere.
Rotto il ghiaccio li chiamo al mio tavolo e scopro che sono appunto milanesi, due sposini trentenni, grafici pubblicitari, giunti ieri dall’Italia e in cerca di avventure ma a corto di informazioni.
Dissi che ero arrivato anche io quel giorno per cui ne sapevo quanto loro però sarei stato lieto di raccogliere notizie insieme sulle escursioni nei parchi attorno a Manado.
Avevamo tutti la insostituibile guida cartacea di cui ho accennato poc’anzi per cui, come primo passo per orientarci e decidere il da farsi, ci mettemmo a consultarla dopo aver steso sul tavolo la mia lisa, abusata carta stradale della Michelin perché allora, manco a dirlo, Google Map o navigatori satellitari erano ancora di là da venire e i nostri giovani occhi leggevano comodamente la micrografia di carte e guida.
Bisogna dire che in quegli anni, per viaggiatori come noi non reclutati, impilati e spediti come pacchi postali dai grandi tour operator in ogni angolo del globo come avverrà in seguito, ma che volevano scoprire il mondo a modo loro e, per così dire, con le proprie gambe, le guide della Lonely Planet erano irrinunciabili.
Devo quindi spendere due parole per questi amati e odiati volumetti, amate perché estremamente affidabili e precise e sempre aggiornate su tutto ciò che riguardava la logistica, prezzi in dollari usa e in moneta locale di ristorantini, alberghetti o locande a buon mercato ma di charme, affittacamere, ecc., inoltre fornivano accurate piantine dei principali siti di interesse archeologico e naturalistico nonché accuratissime piantine dei principali centri abitati di tutto il globo terracqueo con la loro caratteristica stampa in bianco e nero a caratteri microscopici.
Odiate perchè chiunque viaggiasse come noi le usava e, vista la loro diffusione, ogni angolino segreto veniva svelato grazie a loro e, in breve, preso d’assalto dai sempre più numerosi viaggiatori “avventurosi.”
Su una cosa però erano estremamente approssimative: per la parte che riguardava l’ambiente naturale; infatti, la flora e la fauna dei luoghi veniva descritta ed elencata in maniera sbrigativa e vergognosamente carente di particolari e informazioni essenziali per un viaggiatore che volesse avere qualche ragguaglio su piante e animali del Paese in cui si trovava, ma questo per me non era un problema poiché era un ambito in cui io ero preparatissimo.
Finito di consultare la guida ripiego la preziosa carta stradale e, accomodati su consunte e traballanti sedie sdraio in un patio delizioso tra raganelle che saltavano qua e là e grosse falene, racconto ai miei nuovi amici del mio viaggio nel cuore di Sulawesi, dei Toraja e dei laghi turchesi negli antichi regni dimenticati di Wulu e di Poso, e vedo i loro occhi illuminarsi del mio stesso entusiasmo perché come me erano giunti fino lì per il medesimo amore per la natura e per le genti che vivono in armonia con essa.
Sapendo che avevo un’auto e che avevo appunto intenzione di esplorare i dintorni, Paolo, lo sposino, lancia l’idea di continuare il viaggio assieme, tanto loro viaggiavano leggeri, io avrei messo la mia maggiore esperienza di viaggiatore e le mie vaste conoscenze naturalistiche, di cui loro erano tanto avidi quanto assolutamente sprovvisti, loro una invidiabile destrezza nei calcoli (io cominciavo a capire come funzionava il cambio di un Paese quando salivo sull’aereo che mi riportava in Italia) e un notevole senso pratico e organizzativo, inoltre avremmo diviso alcune spese.
Festeggiamo l’accordo con un bicchierino di un orribile liquore nerastro che dovrebbe essere il vanto della casa e ci rechiamo nei nostri alloggi dopo aver fissato la meta per l’indomani: la salita sul vulcano Mahawu.
Il mattino seguente, di buon’ora, partimmo verso la città di Tomohon ad un paio di ore d’auto da Manado, sotto un cielo splendente, in una di quelle giornate ai tropici, dove un sole abbagliante illumina un mondo sfavillante dopo la fitta pioggia calda caduta nella notte a irrorare un paesaggio dolcissimo di colline ricoperte di foresta e risaie luccicanti.
Io guidavo lentamente cercando di vedere ogni cosa, di gustare fino in fondo tanta bellezza, i miei compagni di viaggio erano letteralmente estasiati, era la loro prima esperienza in un Paese tropicale e per loro era tutto nuovo e sorprendente.
Appena usciti dalle dolci risaie la strada cominciava ad inerpicarsi su una collina dove il terreno coltivato lasciava spazio ad una foresta sempre più fitta fino ad entrare, aggirato il fianco meridionale della piccola altura, in una valle nascosta completamente ricoperta di foresta pluviale primaria.
Era la prima volta che Paolo ed Elena vedevano la gloria e la maestà di una grande foresta vergine ed erano commossi, guardavano come ipnotizzati e io gioivo condividendo con loro una meraviglia sempre nuova.
Fermo la macchina e scendiamo in un paesaggio di un verde talmente carico da sfumare nel blu, dove a lato della strada siepi di una bellissima felce che avevo già visto nelle montagne dei Toraja impedivano di addentrarsi nella giungla.
Camminiamo un po’ lungo la strada quando alla nostra destra si apre un varco che ci permette di entrare in quella cattedrale vivente.
Appena pochi passi ed Elena grida giurando di avere visto una lucertola volare. Paolo le chiede, prendendola in giro, cosa si fosse fumata a colazione, ma lei insiste indicando un tronco colossale lì accanto: “È lì… si è posata lì”. “Elena ha visto bene, ecco qua un Drago volante”, dico, e con la mano a coppa blocco sul tronco una piccola lucertola grigia, la mostro loro, poi la lancio in aria ed essa apre letteralmente una sorta di ali arancioni e vola planando fino ad un tronco più lontano dove si posa, praticamente invisibile dopo avere riposto le ali fiammeggianti. Spiego, sfoggiando le mie conoscenze erpetologiche, che in realtà non vola ma plana con una membrana dermica chiamata patagio sostenuta da una costola eccezionalmente lunga e che la bestiola è innocua e si nutre fondamentalmente di formiche.
Pochi passi e un altro grido di Elena mi permette di sfoggiare nuovamente le mie conoscenze questa volta entomologiche perché lei indica una grande, meravigliosa farfalla gialla e nera che vola pesantemente inseguita da un’altra uguale in una danza ipnotica che ci lascia senza fiato.
“Quella farfalla si chiama come te” dico solenne ad Elena “hai appena visto due Troides Helene, una farfalla della stessa famiglia del nostro macaone ma molto più grande”.
E così via tra una meraviglia e l’altra circondati da quella assordante, fantastica sinfonia corale che è il sottofondo sonoro delle foreste tropicali, brulicanti di migliaia di vite invisibili che tutte insieme cantano la loro gioia di esistere.
Dopo poco il sentiero si interrompe svanendo nel fitto fogliame e come a ribadirne la chiusura una enorme ragnatela di Nephila ci sbarra il cammino e la padrona di casa, un ragno variopinto grande come una mano, troneggia al centro di quel capolavoro di eterea bellezza.
Tutti e tre soffriamo di aracnofobia quindi giriamo i tacchi e torniamo circospetti alla strada socchiudendo gli occhi perché, abituati alla penombra della foresta, il sole accecante fuori di essa ci ferisce la vista.
Riprendiamo il viaggio verso Tomohon, che scopriremo essere un agglomerato di squallide casette dove, con difficoltà, riusciamo a trovare il sentiero che porta, dopo circa un ora di salita, al cratere del vulcano Mahawu.
Il sentiero, facilitato da rozzi gradini, si arrampica lungo i fianchi della montagna: uno strato di vulcano attivo la cui ultima eruzione risale al novembre del 1977. Non è particolarmente faticoso, infatti dopo circa un’ora giungiamo, senza incontri particolari, sul bordo del cratere, proprio poco prima del tramonto, quando la luce dorata del sole illumina a Ovest i vulcani gemelli Lokon ed Empung e, a Nord, l’arcipelago di Bunaken con l’isoletta di Siladen e dietro il perfetto cono ammantato di foresta del Manado Tua.
Scendiamo rapidamente e, giunti alla macchina, torniamo al Nusantara non senza difficoltà, anche se guidare di notte, riattraversando la foresta vergine, ci ha permesso di vedere e ascoltare l’incanto che ammanta la giungla al calare delle tenebre, quando si accendono le luminarie delle lucciole e il coro diurno lascia il palcoscenico a quello notturno, ancora più magico e incredibile. La via, inoltre, va percorsa guidando molto lentamente per schivare la grande quantità di animali di ogni forma e dimensione che sembra abbiano scelto proprio il momento del passaggio della nostra auto per suicidarsi.
Al ritorno troviamo la cucina chiusa ma per fortuna la vita di strada, nelle città dei tropici, non dorme mai, per cui una baracchetta con ottimo street food la si trova sempre, con buoni piatti da gustare a patto di non chiedersi mai cosa si stia mangiando.
La mattina seguente, di buon’ora, partimmo per il parco naturale di Tangkoko dove speravo di vedere i giardini di corallo e, soprattutto, speravamo di vedere il famoso Spettro delle foreste di Sulawesi.
La strada si dipana tra le oramai familiari risaie e fazzoletti di foresta vergine fino all’entrata del parco dove giganteggia un enorme busto di Alfred Russell Wallace, esploratore naturalista che assieme a Darwin elaborò la teoria dell’evoluzione delle specie attraverso la selezione naturale.
Il punto di raccolta era una specie di bungalow dove si radunavano i ranger, uno dei quali sarebbe stato la nostra guida, poiché non si poteva entrare autonomamente nel parco.
C’era una strana atmosfera, una certa tensione, come una nota stonata in un luogo così bello. Ma certo! Era lo sgradevole e inquietante aspetto dei guardaparco, giravano armati di fucile con tanto di cartucciera che dava loro un aspetto piratesco facendoli sembrare la sparuta banda di ribelli di Mompracem spuntata da un racconto di Salgari.
Ci venne spiegato che qui, i cattivi, non erano i romantici daiacchi al soldo del raja bianco di Sarawak, ma sordidi bracconieri che cacciano i preziosi macachi neri, endemici di Sulawesi, per mangiarli. Sì, avete capito bene: precisamente per affumicarli e mangiarseli, e proprio quella notte una guardia era stata ferita in uno scontro a fuoco con loro.
Ecco, l’idillio si era spezzato! La truce realtà imposta dagli uomini strideva come una nota stonata in una sinfonia meravigliosa, come un orribile eczema in una giovane e fresca pelle di bambino. Riemerse il ricordo di un’ombra, una convinzione perniciosa che, come un parassita, fin dagli albori della mia coscienza si era insinuata e infine radicata nella mia mente: l’idea che noi esseri umani siamo nemici della natura, della bellezza e della vita.
Qualche anno dopo uscì un film talmente profetico da diventare un’icona generazionale, durante una scena il cybercattivo incaricato di distruggere il genere umano recita un monologo nel quale afferma di avere avuto una geniale intuizione riguardo la nostra specie: “Voi non siete veri mammiferi, tutti i mammiferi d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate… Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce e l’unico modo in cui sapete sopravvivere è spostarvi in un’altra zona ricca; c’è un altro organismo che adotta lo stesso comportamento: i virus... Voi umani siete un’infezione, un cancro per questo pianeta…”.
Con orrore, con profonda vergogna ancora oggi questo pensiero, come allora, si fa strada ed emerge prepotente in me ogni volta che assisto ad assurdi scempi come questo, come la caccia agli squali solo per privarli delle pinne per farne una zuppa, o il massacro dei rinoceronti perché il corno contiene un potente afrodisiaco!
Mi accorgo, lo confesso, di detestare i miei simili e me stesso con loro, di non nutrire alcuna speranza per noi e per la natura come la conosciamo. Io lotto da sempre contro questo blasfemo pensiero, cerco di scacciarlo ma puntualmente riaffiora in me, come ora, nel momento stesso in cui raccolgo questi ricordi, nel marzo 2022, quando l’arbitrio di un pugno di uomini come me, membri della mia specie, getta nuovamente il mondo sull’orlo di un incubo nucleare che ci spazzerebbe via definitivamente.
Il bello è che mi sento colpevole, come se fosse anche mia la responsabilità di tanto orrore, e forse lo è: ogni uomo, in diversa misura, non condivide la colpa e la sorte che il genere umano decreta a se stesso con le proprie azioni?
I miei amici, che mi vedono assorto e adombrato, mi chiedono se mi sento male. Io li rassicuro “No, no, tutto a posto… andiamo pure”.
Cerco di scacciare quei cupi pensieri immergendomi nella foresta, in coda al gruppo. Dopo poco però la seduzione della natura selvaggia, come sempre, ha su di me un grande potere taumaturgico, e il sorriso riaffiora come per incanto sulla mia faccia.
Di lì a breve avvistiamo un gruppo di macachi neri, si tratta di una scimmia di taglia media che si nasconde nella penombra della giungla, la cui presenza è rivelata soprattutto dai profondi e inquietanti occhi arancioni che spiccano sul pelo nero insieme ai denti bianchissimi.
I macachi ci fissano con quegli incredibili occhi rosso-arancio dallo sguardo interrogativo, come se volessero chiedere a noi, che ne sappiamo quanto loro, perché sono lì? E perché siamo qui? Li lasciamo con un tocco di dita quelle strane, tenere e forti dita dal tocco timido che hanno le grandi scimmie.
Intanto la breve giornata dei tropici volge al termine e la foresta si fa scura, si avvicina l’ora degli spettri. La nostra guida a un certo punto del sentiero sparisce dentro un enorme albero di ficus.
Dopo un po’ ci chiama e con la torcia elettrica, puntata in alto dove le radici aeree del tronco colossale pendono come stalattiti, illumina due paia di puntini luminosi a tre metri sopra di noi. Più in basso, all’altezza delle nostre teste ci sono altri due occhietti luminosi e dietro di loro, allargato il fascio luminoso, appare un esserino improbabile, con un musetto improntato a un dolcissimo sorriso sotto un nasino un po’ spiovente, due grandi orecchie e una lunga coda pelosa, aggrappato a una radice con zampette dotate di lunghe dita rosate da raganella! Il tutto non più lungo di 20 centimetri! Il famoso terribile Tarsio spettro era davanti a noi talmente buffo e tenero da sembrare irreale, uscito da una di quelle favole che si raccontano ai bambini quando si vuole farli felici e contenti, quando ancora si può raccontare loro la fiaba di un mondo fantastico abitato da buffi e benevoli spiritelli.
Dopo un po’, lungo il sentiero, ne scorgiamo altri più in alto mentre cacciano insetti arrampicandosi su liane o radici avventizie di alberi talmente alti che la loro chioma va oltre il fascio di luce della torcia.
Tornati alla sede del parco veniamo fatti alloggiare in bungalow spartani, anche per me che sono davvero frugale, poco più che un pagliericcio alla luce di una candela… ma che ci piacciono moltissimo. Dopo la cena al chiosco del parco parlammo a lungo nella fioca luce fuori dalla mia capanna, come si fa tra persone che si sono conosciute da poco, con cui si è creata quella sintonia generata da interessi e passioni comuni e con cui ci si apre senza riserve sapendo che probabilmente non ci si incontrerà mai più.
La mattina seguente saliamo in precarie piroghe armate a catamarano tramite robusti bilancieri di bambù gigante con rumorosi fuoribordo per esplorare la costa del parco e dove forse vedrò i famosi coralli.
La giornata è ventosa e, da navigato subacqueo, noto subito due cose non proprio favorevoli: il mare mosso e, di conseguenza, la scarsa trasparenza dell’acqua.
Il paesaggio costiero è, manco a dirlo, stupendo con scogliere a picco ricoperte di una vegetazione lussureggiante dove giganteschi buceri volano maestosi come pteranodonti del Triassico, tra altri numerosi uccelli marini.
Nei luoghi dove avremmo dovuto immergerci con maschera e pinne l’acqua era piuttosto torbida ed il paesaggio subacqueo roccioso e non certo corallino. Tanto pesce ma piuttosto diffidente, segno sicuro che qui, oltre che ai macachi, i bracconieri rivolgono le loro attenzioni anche alla fauna ittica.
Piuttosto delusi ci avviamo verso la sede del parco, che dista diversi chilometri, lungo un sentiero che si infila nella penombra della giungla e che si arrampica su basse collinette con una vegetazione lussureggiante: orchidee, epifite liane che si issano sui tronchi immani.
Come spesso accade: più piante ci sono… meno animali si vedono; per cui, non incontrando nulla di speciale, camminiamo un po’ assorti nell’ombrosa calura quando, con la coda dell’occhio, noto un riflesso dorato che danza alla mia destra in una piccola radura dove al centro di una lingua di sabbia scorre un piccolo ruscello.
Ero in fondo al gruppetto e dico agli altri di aspettare un attimo, mi infilo tra le frasche ed entro nella radura dove alcuni raggi di sole riescono a penetrare la canopia che si trova cinquanta metri sulla mia testa, e la vedo: un riflesso d’oro sfavillante che danza un attimo in un raggio di sole poi si posa sulla riva del ruscello forse per suggere sale come spesso fanno le farfalle, poi riprende il suo volo per posarsi sui piccoli fiori gialli di un cespuglio lì accanto.
“Marco tutto bene?”. “Sì - rispondo piano - venite a vedere”. Arrivano i miei amici, si acquattano dietro di me e io indico loro quella meraviglia che volava tranquilla sui fiorellini di quel cespuglio lanciando fantastici riflessi dorati.
Paolo ed Elena, così sensibili, erano come pietrificati dalla meraviglia. “È la grande farfalla d’oro di Wallace, una rara Ornitoptera Croesus, che porta il nome di Creso, il mitico re della Lidia che pare trasformasse in oro tutto ciò che toccava. Guardate che bellezza, guardate che armonia, così fragile e così forte! E così... perfetta!”.
Ogni piccola, insignificante o splendida creatura è così, ogni singolo stelo d’erba è così, ogni stella è così: fragile e forte, il bilanciarsi di forze colossali! Un capolavoro della Natura, la grande artista, che profonde le sue meraviglie affinché riverberino le une nelle altre, nel microcosmo come negli abissi dell’universo, la sua gloria in una sacra agape a cui non sono più sicuro che noi umani siamo ancora invitati.
Con rinnovata gioia e ancora negli occhi tale meraviglia racconto loro, mentre camminiamo, che Wallace, nel suo celebre The Malay Archipelago, racconta il momento in cui catturò un esemplare come questo, e descrive esattamente le stesse sensazioni che ho provato io quando ho vista danzare nel sole la sua farfalla.
Ma questi sono emozioni e sentimenti che solo un naturalista può comprendere appieno. Questa sera sarà velata di tristezza poiché dovrò salutare i miei amici che rimangono a Sulawesi, mentre io domattina, di buon’ora, partirò per l’arcipelago di Bunaken dove finalmente mi immergerò negli agognati giardini di corallo del mare di Celebes.