Nessuno sa ricostruire con precisione quando Stefano Zangrando cominciò a scrivere il suo nome ovunque girando con una penna a sfera Guilloché che, come si vociferava, teneva in mano senza mai posare se non la sera prima di andare a letto assieme alle lenti per la miopia o alla cintura che sfilava dai passanti dei calzoni, ma senz’altro questo fatto cominciò a risultare evidente e noto a partire dal 27 marzo 2013. Un mercoledì. C’era il sole, il cielo era chiaro, con qualche nuvola grigio sporco appesa qua e là, sembravano panni messi ad asciugare, forse per questo ogni tanto veniva giù qualche goccia. Nulla di preoccupante, però. Nulla che potesse mettere di cattivo umore o che potesse spingere un signore a fare quello che fece Stefano Zangrando.
Zangrando andò dal panettiere, era ritornato ad Avolasca per una visita ai suoi, a quanto i giornali raccontarono (con titoli quali «L’autografo che uccide» o «La penna assassina»), un cliente del panettiere (una boulangerie aperta da un paio di mesi, con un millefoglie da leccarsi i baffi) si avvicinò chiedendo un autografo a Stefano, dopo averlo riconosciuto. L’uomo (un signore di sessantacinque anni, alto un metro sessanta, i capelli bianchi, grinze vistose attorno agli occhi neri e grandi, la sua foto finì sui giornali con l’autografo di Zangrando sulla fronte, le macchie di sangue) insistette per avere un autografo da lui, a quanto i giornali riportano nei loro articoli insistette perché Zangrando glielo vergasse sul sacchetto di carta dove stavano infilate due gavassot, tre tirasse, un paio di rubatà e quattro biove, tanto più che, a quanto sembrava Zangrando aveva già in mano la penna, avrebbero fatto in fretta. L’uomo (il signor Arturo Sassotto, un pensionato, impiegato da una vita in una ditta di Tortona) con la sua richiesta dovette far montare su tutte le furie Zangrando se questi arrivò a fare quello che fece, ma altri testimoniarono che Zangrando non si fosse adirato, semplicemente gli era venuta l’idea di fare quello che fece e basta, che fosse solo un’idea e che probabilmente, come si dice, gli fosse solo “scappata la penna” mentre firmava l’autografo – in questo caso, però, non per modo di dire.
Fatto sta che a Zangrando venne l’idea di fare il suo autografo sulla fronte di Sassotto. Secondo le ricostruzioni, all’inizio Sassotto dovette pure stare al gioco, si prestò buono buono a farsi firmare la fronte (qualcuno testimoniò che continuasse a dire «Poi anche sul sacchetto del pane, poi anche sul sacchetto del pane»), ma dopo un poco Sassotto prese a urlare (qualcuno disse che sembrava uno di quegli uccelli di lago, un gabbiano, una gavia, un cigno), la sfera della Guilloché gli incise le carni della fronte, facendolo sanguinare, e anche un bel po’. Zangrando lo lasciò che era una maschera rossiccia col sangue che grondava dalle lettere del suo stesso nome scritto in stampatello con stanghette sconnesse: Stefano Zangrando. 27 marzo 2013.
La cosa che sconvolse i testimoni è che mentre il pennino della Guilloché entrava qualche millimetro nella carne della fronte di Sassotto fino a grattargli l’osso frontale del cranio e questi strillava come un’anatra, ebbene l’uomo non tentò nemmeno di scostarsi, non cercò, a quanto si racconta, di spintonare Zangrando lontano, Sassotto se ne stette buono al suo posto, soffrendo come un uccellaccio, sì, ma restando a prendersi il suo autografo. Nemmeno i clienti della panetteria si mossero quando Sassotto prese a urlare, ci misero un bel po’, sì, erano per lo più signore anziane e uomini col bastone, una dentiera che mal calzava nelle bocche, e però qualcosa avrebbero pur potuto fare subito, magari alla terza o alla quarta lettera in stampatello maiuscolo, magari aspettando fino alla quinta, e invece solo quando l’autografo fu eseguito completamente (ben sedici lettere, anche se dieci di queste non molto ben intagliate, la E, la F, la G, la R quasi irriconoscibili, Zangrando si era tenuto lontano dal fornire una, per quanto macabra, opera d’arte; più che altro la sua firma era uno sgorbio) qualcuno afferrò Zangrando per un gomito, cercò di allontanarlo da Sassotto. Questo perché presumibilmente tutti sapevano chi fosse Zangrando, per reverenza, rispetto.
Stefano Zangrando era uno scrittore di successo, ecco il motivo dell’interesse di Sassotto per il suo autografo. Aveva pubblicato quindici romanzi. E col terzo – nel 1995 – aveva venduto due milioni di copie. Si era trasferito dal suo appartamento di Avolasca a una villa a Roma presso San Lorenzo. E naturalmente non aveva fatto solo questo. Aveva cambiato anche la macchina, da una Ford dell’89 a una Mercedes del ’95 e poi ogni due anni si era concesso un’automobile nuova: una BMW, una Porsche e ultimamente, dopo quindici romanzi quasi invariabilmente da un milione di copie, una Ferrari testarossa. Aveva anche cambiato tre mogli, passando da Mery, sua compaesana ad Avolasca (con un neo sempre più scuro e peloso sulla guancia destra; quando l’aveva lasciata il neo stava ancora là, Mery non aveva fatto poi granché per tenersi il marito) a Rosy di Reggio Calabria (una studentessa di venticinque anni desiderosa di conoscere Zangrando per scrivere su di lui una tesi universitaria – il paio di gambe più burrose che avesse visto, percorse da vene assai erotizzanti, a volte, a letto, ci passava sopra la lingua, sporgevano, le pinzava con le dita, Giusy strillava, sembrava un uccello di lago) ad Alma (una che sculettava in televisione, facendo balletti, ventidue anni, terza di reggiseno, natiche spiaccicate sulla copertina di un numero speciale di Top Girl, e su qualche pagina interna di Astrella, Flair e Confidenze – e il tutto grazie anche al suo stesso nome, quello di Stefano Zangrando).
Era cambiato anche d’aspetto. Nel ’95 aveva capelli lunghi, li portava fin oltre le spalle, la carne del viso era bianchiccia, gonfia, gli zigomi non si vedevano, la mascella scompariva nella pelle pallida e rigata di barba nera, aveva un paio di semilune rigonfie e nerastre perennemente sotto gli occhi, erano occhiaie mollicce, il suo capo nell’ufficio dove lavorava prima che col successo del terzo libro mandasse tutti a quel paese diceva sempre che ci fosse qualcosa di sessuale in quelle occhiaie. Nel 2002 i capelli erano invece sparacchiati di qua e di là, ricadevano a destra e a sinistra sulla fronte, sembravano due corna, la pelle si era fatta tesa sugli zigomi, la fronte si era spianata, le rughe erano scomparse, anche le spalle si erano allargate, la schiena raddrizzata, la spina dorsale si era distesa, allungata. Stefano aveva acquistato tre o quattro centimetri d’altezza. Era un uomo di successo adesso, doveva solo preoccuparsi di non alzarsi un mattino con un cancro al testicolo o di non ritrovarselo tra le gambe direttamente, consumato dal troppo scopare.
In ogni caso, come forse si sarà già notato da queste parole, Stefano Zangrando, pareva proprio, presentava una pericolosa propensione a montarsi la testa a causa degli assegni a parecchi zeri che incassava grazie ai suoi libri – e alle ospitate televisive, alle interviste sui giornali, alle fiction tratte dai suoi libri, e alle pellicole cinematografiche: da Cammino nel Mondo Quarto a Prendisole sul parabrezza. E tuttavia il fatto occorso il 27 marzo 2013 aprì una serie di segnalazioni, storielle, alcune magari anche più dal sapore leggendario che altro, le quali fecero capire quanto effettivamente Stefano Zangrando si fosse montato la testa a causa del successo ottenuto dalle sue opere.
Sui giornali saltò fuori la faccenda che da un paio d’anni almeno Zangrando andasse per fiere letterarie, convegni, presentazioni, persino nelle registrazioni di qualche trasmissione televisiva era possibile vederlo mentre giochicchia con la sua Guilloché, con una penna in mano, e firmasse tutto quello che gli capitava a tiro. Fino a che non gli era venuto in mente di scrivere il suo nome sulla fronte di un anziano signore di Avolasca, le persone che lo circondavano avevano pensato si trattasse solo di una bizzarria, qualcosa per caratterizzarsi come vip, lui era quello con la penna in mano, pronto a farti l’autografo. Si pensava che fosse il suo modo di affrontare la questione della celebrità: di fronte a una pletora di idioti che ti inseguiva per strapparti l’autografo, magari aggredendoti, pretendendo il tuo nome su un pezzo di carta o sul retrofrontespizio di un suo libro (una volta un fan si era avvicinato chiedendogli di farlo su un romanzo di Giorgio Faletti), Zangrando reagiva buttandosi lui sui suoi fan, aggredendoli, pretendendo che fossero loro ad accettare il suo autografo, era un gesto di potenza, se non proprio di potere, l’idea di poter bollare qualsiasi supporto di carta in mano a una merda qualsiasi col suo nome.
La sua bizzarria, però, come ebbero a raccontare le persone che lo conoscevano o testimoni occasionali, non si era fermata a questo, aveva assunto connotati ben più grotteschi, inquietanti. Se a una fiera c’era un poster con la sua immagine appeso allo stand delle case editrici che tendenzialmente lo pubblicavano (Newton Compton, Piemme, Fanucci), Zangrando ci si avvicinava e lo firmava, e la firma la faceva ben visibile, non in un angolino in basso a destra, ma sulla sua stessa faccia o sullo sparato bianco della giacca. Solo che alcuni raccontano di averlo visto arrivare a eccessi come firmare etichette di bottiglie di champagne che ordinava al ristorante prima di alzarsi e di andarsene via. Un barista a Chiavenna conserva un pezzo di muro con l’autografo di Stefano Zangrando sopra – secondo il barista, Zangrando si era fermato con uno sballo di ragazza per prendere un caffè, aveva lasciato il suo autografo sul muro, in un primo momento il barista nemmeno si era reso conto che Zangrando fosse Zangrando, l’uomo era più addentro ai videogame che al mondo dei libri.
Se Zangrando passava una serata in birreria sul tavolo di legno restava inciso il suo cavolo di autografo. E se veniva un cameriere con un blocchetto a prendere le ordinazioni? Gli diceva: «Ma lei lo sa chi sono io?» e poi diceva di essere Stefano Zangrando lo scrittore, e che il cameriere mostrasse o non mostrasse di riconoscerlo Zangrando firmava con la Guilloché, o sul blocchetto dove quello prendeva le ordinazioni o su un tovagliolino o su un sottobicchiere della Heineken, insomma dove si poteva. Il suo nome, a volte anche una dedica, ma senz’altro Zangrando regalava il suo nome e cognome.
E non è finita qui. Legata alla sua mania di far autografi ovunque, a Zangrando erano anche venute altre idee. Aveva pagato, a quanto saltò fuori sui giornali, un gruppo di graffitari per scrivere il suo nome sui muri del quartiere. Anche ad Avolasca c’era il suo nome sui muri dei palazzi e delle case. Qualche volta erano veri e propri disegni, altre volte era semplice stampatello spruzzato alla bell’e meglio, e in un giornale locale alessandrino era saltato fuori un articolo in terza pagina, non particolarmente lungo né vistoso, ma comunque presente, dal titolo Ho visto Zangrando deturpare ammennicoli urbanistici con bombolette spray e nell’articolo il cittadino Diego Mannichetti raccontava la sua testimonianza: Stefano Zangrando visto alle quattro del pomeriggio mentre scriveva il suo stesso nome su un muro servendosi di una bomboletta spray. L’articolo non fece particolare scalpore, passò quasi inosservato.
Ma non passò inosservato quando Alma rilasciò un’intervista a Rolling Stone dove mostrava sul bicipite sinistro il nome del suo fidanzato tatuato sopra: Stefano Zangrando. Inequivocabile. Era scritto con le stanghette disegnate a lingue di serpente, nell’articolo Alma spiegava persino quali serpenti, un lavoro eseguito da un tatooing di Vigevano. Nelle settimane successive altre donne saltarono fuori sostenendo di essere state amanti o flirt di Stefano Zangrando e di essere state da lui costrette a tatuarsi il suo nome: una di queste, Nina, diceva di essere stata costretta a tatuarsi il nome del suo ex-boyfriend vip niente meno che nel bassoventre. Le accuse furono smentite, ci furono anche un paio di querele (in seguito ritirate), dato che non c’era modo di provare che tali affermazioni fossero vere. Ma se si mettono accanto queste testimonianze alla storia dei graffiti più la bizzarria di rilasciare autografi in continuazione, allora viene quasi voglia di credere alla versione raccontata dalla povera Nina.
Dopo l’autografo sulla fronte al suo fan, Zangrando dovette cominciare a difendersi. Rifiutava interviste. Sporgeva denunce. Volevano appioppargli un personaggio a dir poco scomodo! Quello dello psicopatico, niente di più niente di meno. L’uomo dalla psiche in cimbali, causa successo. Poi saltò fuori una cosa ancora più succulenta – almeno per i giornali; per i lettori, invece, la parola è «raccapricciante». Anzi due cose e l’una trascinò l’altra con sé. Analizzando alcune registrazioni televisive qualcuno si accorse che la Guilloché aveva fermaglio e pulsante d’osso, e anche il pennino e il tappuccio erano d’osso. Erano bianchi. Ed erano ossa. E qualcuno cominciò a insinuare che fossero ossa umane. E c’era un altro dettaglio. L’inchiostro della Guilloché era rosso. Ogni volta che Zangrando firmava un autografo, lo firmava rosso. Solo che osservando meglio, si trattava di un rosso strano, nerastro. Qualcuno fece analizzare un autografo (tra l’altro firmato da Zangrando sulla copertina del suo decimo romanzo: Budello N. 44, cinquecentomila copie in due settimane; sulla copertina, non sul risvolto interno, sul frontespizio o sul controfrontespizio, Zangrando aveva fatto il suo autografo sulla copertina) e saltò fuori il grottesco: l’inchiostro era sangue. Zangrando andava in giro con una Guilloché contenente sangue. Gli autografi analizzati fecero stabilire che si trattava sempre dello stesso sangue appartenente sempre allo stesso gruppo sanguigno: AB Rh+. Guarda caso, lo stesso gruppo sanguigno di Stefano Zangrando: AB Rh+. Zangrando rilasciava autografi col suo sangue. La storia venne naturalmente smentita. Le vendite ovviamente si impennarono; e tuttavia nessuno si azzardò più a ospitare Zangrando nemmeno in una libreria di provincia, altro che salotto televisivo.
Poi arrivò la notizia che abbiamo appreso, tutti quanti, in questi giorni sui giornali. 6 febbraio 2014. Zangrando ritrovato cadavere in viale Vittorio Veneto in una rastrelliera delle biciclette nei pressi dello Spazio Oberdan a Milano. Era da quelle parti forse solo per un giretto. Il giorno successivo, proprio allo Spazio Oberdan, Zangrando avrebbe dovuto recarsi, secondo quanto testimoniato dalla sua terza moglie, a una maratona di pellicole girate da David Lynch, non come ospite, solo come comune visitatore. Fu ritrovato con la giacca dello spezzato aperta, la camicia strappata, brandelli di canottiera accanto al cadavere. I calzoni gli erano stati sfilati a forza. Via le mutande, le scarpe. Il cadavere di Zangrando fu ritrovato in condizioni disgustose, sanguinolento, pieno di tagli. Il sangue nero, denso, copriva il corpo, ma quando il cadavere venne trasportato altrove e fu ripulito, chi lo controllò si accorse di un fatto agghiacciante. I segni sul corpo dell’uomo non erano semplici trafitture. Erano lettere dell’alfabeto. Erano nomi. Alessio Petyx. Michele Astrini. Sebastiano Nuvoletti. Valentino Baroni. Marco Canida. Verino Lunari. Cristiano Balti… In tutto venticinque nomi. Furono fatti accertamenti. La maggior parte dei nomi risultò inventata, le persone contattate che coincidevano con quei nomi si capì subito che nulla c’entravano con l’accaduto, erano solo omonimie. No. Il rituale era chiaramente simbolico: Zangrando aveva ricevuto l’autografo di venticinque lettori, di venticinque persone comuni, di venticinque merde. Le indagini sono in corso ancora oggi, sono passati già tre mesi e quattordici giorni. Molti i punti interrogativi. Si è trattato di un gruppo di fan? O di un uomo solo? Sembrerebbe che gli autografi sul corpo di Zangrando siano stati eseguiti da mani diverse. Davvero è ipotizzabile una delegazione di venticinque fan organizzatasi per impartire a Zangrando quella lezione? Non ci sono risposte. Non ancora, perlomeno. Una cosa però è certa: Stefano Zangrando conserverà a lungo quegli autografi, se li è portati con sé nella tomba. Compreso il suo stesso autografo, scritto in stampatello maiuscolo con stanghette sconnesse. Sulla fronte.