Sappia il pubblico latitante di non poter sfuggire a Paola Carruba. Averla fatta franca finora non dia baldanza. La Carruba, dirigente Rai, possiede una miscela speciale: laureata in psicologia e diplomata in pianoforte sa come attrarre nelle sale da concerto. Ed è romantica: riempire un teatro, aldilà del necessario appagamento del botteghino, la commuove.

Sembra pervasa da quel genere di entusiasmo esistenziale che fa essere di buonumore anche quando non lo si è.

Ha ideato e sta tenendo il primo Master di II livello in Progettazione e Gestione di Processi Educazionali nella Musica dal Vivo nel Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo (SAGAS), ma interdisciplinare con i dipartimenti di Economia e Psicologia, dell'Università di Firenze.

Fino al 1988, ai tempi del Conservatorio, non faceva che suonare ma poi - “dato che non ero Martha Argerich” - si iscrive a un master in psicologia del lavoro e a un corso di specializzazione in psicodiagnostica - “a un’azienda avere uno psicologo all’interno serve, se è davvero uno psicologo, altrimenti conviene prendere un economista, no?” - e comincia a lavorare nelle risorse umane in società, tra le altre, dei gruppi Ferruzzi-Fondiaria e Telecom. “Nel 2000 l’approdo alla Rai, in modo assolutamente fortuito, con le due anime che albergano in me: la musica il mio passatempo preferito, coltivato con amore, le risorse umane sono la mia professione”.

Per anni sei la responsabile della gestione e dello sviluppo del personale, dopodiché ti arriva una richiesta.

Io ho sempre fatto carriera per disperazione.

Ecco il titolo dell’articolo.

Mi chiama il vice direttore generale: “Sta andando in pensione il responsabile delle edizioni e produzioni di RaiCom, sappiamo che è appassionata di musica, le andrebbe di andare?”. Ci penso, ci ripenso, ci vado. Colonne sonore, la sonorizzazione dei programmi, la musica contemporanea, la commercializzazione nel mondo dei diritti di opere riprese dalla Rai, come la Prima della Scala, i rapporti Siae. Fantastico. Ma ero in distacco e, a un certo momento, il direttore generale Gubitosi mi chiede di decidere. Non me la sento di rinunciare al contratto Rai per RaiCom e dove torno? A Radio 3. Michele Dall’Ongaro, responsabile dei programmi radiofonici della rete e sovrintendente dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, mi avvisa: “Per carità non ti muovere, tu sei l’unica che può andare a gestire l’orchestra a Torino”.

Ancora per disperazione?

Certo, non sapevano a chi rivolgersi. Per me un onore enorme. Era il 2015 e ho vissuto l’esperienza più bella in trent’anni di vita professionale. Trovo l’orchestra di una qualità musicale incredibile, ma dal punto di vista del posizionamento rispetto alla vicenda musicale italiana molto confusa, e fragile nelle relazioni con la città. Mi chiedo: qual è, negli anni 2000, la mission di questa orchestra nata negli anni ‘50 per far sentire la musica attraverso la radio a chi non poteva andare ai concerti? Comincio a stringere rapporti forti con Torino, voglio dare un senso a un servizio pubblico che è quello di essere presente nei luoghi in cui non è agevole sentire la musica e quindi organizzo una tournée al Sud d’Italia: Catania, Taranto e Reggio Calabria. Sarebbe un racconto…

Un racconto troppo lungo?

No, un po’ ruvido. A Reggio Calabria ho avuto paura che venisse giù l’edificio perché nei palchi si erano assiepate famiglie di quindici persone. I tecnici non sapevano di dover abbassare le luci e il nostro solista Mario Brunello, grazie a lui sono riuscita a fare la tournée, ha dovuto suonare con le luci accese e la gente che parlava durante l’esecuzione.

Si percepivano l’entusiasmo per una novità e una sorta di analfabetismo. A Taranto non c’è neanche un teatro e l’orchestra ha suonato in una chiesa.

Chi era il direttore principale?

Juraj Valčuha e il direttore artistico Cesare Mazzonis che amo alla follia. Avemmo un unico scontro, al principio. Ero in torto io. Gubitosi teneva all’idea della tournée al Sud, sapevo che stava per andarsene e non avevamo il solista. Nella mia ingenuità chiamo Brunello. Cesare non dice niente, aspetta una riunione e mi fa una partaccia di quelle tremende: io sono il direttore artistico, non tu. Mi sono scusata in ginocchio però poi lui è venuto con noi e non c’è stata una sola intervista, una sola riunione con i sindacati o con la commissione artistica in cui lui non abbia detto: dovete ringraziare per questa tournée solo la vostra sovrintendente. Un signore, un uomo meraviglioso.

Quando Valčuha lascia, Cesare procura come direttore principale James Conlon, ma subito dopo va in pensione e viene sostituito da Ernesto Schiavi. Io sono venuta via alla fine del 2017 e i professori d’orchestra, che all’inizio mi avevano fatto tutte le contestazioni del mondo, ancora mi scrivono a Natale, per il compleanno, a Ferragosto. Hanno sperato che tornassi.

Avevo curato i grandi rapporti internazionali: tournée in Russia, in Oman, a Vienna, in Francia. Ho costruito la prima stagione education dell’orchestra sinfonica nazionale facendo dei concerti in cui c’erano una presentazione e un question time. La stagione si chiamava Classica per tutti. Ho messo in piedi Il mago di Oz.

I miei obiettivi: fare in modo che la città scoprisse la musica sinfonica e un posto dove essere accolti per poterla ascoltare, e avvicinare i bambini a questo tipo di linguaggio.

Come hai fatto?

Ho seguito il modello che porto nel Master all’università di Firenze. Tre punti.

  1. Se voglio far innamorare qualcuno di un contenuto che non conosce il primo incontro è assolutamente dirimente cioè se va male non creo nuovo pubblico ma getto il diserbante.
  2. Non posso pensare di avvicinarlo con degli eventi, ma con dei processi nei quali la vita delle persone venga punteggiata da questa presenza in modo che il seme messo nel terreno possa germogliare.
  3. La qualità. Troppi progetti education hanno come fine la facile cassa perché con i bambini si vendono i biglietti. Noi abbiamo fatto tutte le iniziative con l’orchestra parata a festa e con una grandissima motivazione dei musicisti che ho sempre coinvolto.
Del vulcan della tua mente…

Per conoscere gli strumenti i bambini molto piccoli li devono poter toccare, altrimenti non succede nulla. Nella Casa dei suoni abbiamo raccontato una favola, una metafora del circo e organizzato due incontri: uno alla scoperta degli ottoni e delle percussioni e un altro sui legni e gli archi. Un professore d’orchestra ha fatto suonare il fagotto anche a una bambina di tre anni. La viola, che non siamo abituati a pensare così vincente, era lo strumento in assoluto più gettonato.

Dal punto di vista del marketing la maggiore soddisfazione commerciale è stata la vendita di 900 abbonamenti agli studenti dell'università grazie a un calendario pensato insieme ai professori di musicologia. Offrivamo cinque concerti funzionali al programma di studio dei ragazzi che venivano accompagnati dai docenti.

900 sono un sogno.

E per tre anni di fila. Poi: la musica contemporanea. C’era Rai NuovaMusica e il tentativo di venderla ai vecchi abbonati che amavamo Brahms e Schumann era un po’ goffo. Ho immaginato, invece, che fosse un contenuto interessante per l’Accademia di Belle Arti: i ragazzi amanti dell’arte contemporanea amano anche la musica contemporanea. Con la pubblicità mirata non c’era il pienone, ma buonissimi risultati.

Gli anziani del Torinese. È faticoso uscire la sera, magari con la neve. Parcheggiare. Ho fatto degli accordi con i comuni nel raggio di trenta chilometri per un biglietto a prezzo scontato così ci rientrava anche il costo del bus. Gli spettatori si riunivano nella piazza principale del paese venivano portati in auditorium e riaccompagnati a casa. Uno dei sindaci al telefono: “Senta, ma c’è un limite massimo? Abbiamo una quantità di richieste incredibile”. La musica prescritta dal medico. Il Centro ricerche Rai collabora da anni con l’ospedale Le Molinette e uno dei progetti si rivolge alle persone sorde totali impiantate cocleari. L’impianto cocleare è un meccanismo che ti viene messo nella testa e che funziona un po’ come un Bluetooth… lo spiego male. Ho preso cinquanta posti di platea dell’auditorium li ho fatti cablare e gli spettatori sintonizzavano il loro apparecchio su quelle frequenze e sentivano il concerto in diretta, con il segnale radio che arrivava all’impianto cocleare. Per un sordo totale la musica sinfonica è complicatissima perché la sovrapposizione dei suoni è difficile da decodificare. Li abbiamo preparati all’ascolto. Alla fine, alcuni hanno dovuto spegnere l’impianto: erano sopraffatti emotivamente. So che anche il Covent Garden e altri teatri internazionali hanno fatto la stessa esperienza.

Quello che però ho più nel cuore è Il mago di Oz. Nell’opera ci sono le vicende, i costumi, il trucco ed è più facile divulgarla. Ma come si porge la musica sinfonica a chi non l’ha mai ascoltata? Io credo che la musica abbia valore nel momento in cui favorisce l’inclusione, il trasferimento di determinati valori; la vedo come un’opportunità di elevazione sociale e personale più che un luogo di raffinatezze musicologiche. Allora ho pensato di prendere una storia di grande significato e di rappresentarla con i bambini delle scuole di Torino e qui inizia il mio gemellaggio con la regista fiorentina Manu Lalli.

Ho chiamato l’iniziativa Wow (Wonderful orchestra world). Un mago di Oz di cinquanta minuti, attraversato da una voce narrante e accompagnato dall’orchestra sinfonica che suona brani sincroni con l’andamento emotivo del racconto. Una colonna sonora di una bellezza straordinaria, costruita dai professori d’orchestra, che è uno dei fattori di riuscita. Lanciamo il progetto nelle scuole di periferia, che di solito non hanno l’opportunità di partecipare. Si iscrivono 1500 bambini di IV, V elementare, prima e seconda media. Per scegliere gli scolari-attori facciamo un talent chiedendo alle maestre quali potevano essere i più adatti, non perché i più belli, ma quelli con un qualcosa che poteva essere migliorato con la nostra idea. Sui 200 proposti ne abbiamo scelti 50, di 30 nazionalità diverse. Bambini di case famiglie, bambini abusati. Non avevamo previsto, mi vengono i brividi, l’orgoglio dei compagni di classe di avere un loro rappresentante sul palcoscenico.

Le prove?

Da marzo a giugno tutti i venerdì, il sabato venivano le maestre che il lunedì rifacevano gli esercizi a scuola insieme agli alunni. Ripresa a settembre e in scena a novembre. Nel frattempo, gli altri scolari hanno ricevuto quattro incontri in classe per imparare il Corale di Bach in tedesco, cantato tu devi sentire come, e L’Elisir d’amore che era il finale del mago di Oz.

I movimenti scenici con la potenza dell’orchestra. Spettacolo dirompente. L’abbiamo fatto per le scuole, io ho pianto a ogni recita, e poi le soirée con le famiglie. Tutto esaurito.

L’assessorato all’istruzione del comune di Torino ci ha chiesto di fare delle rappresentazioni destinate ai bimbi dell’ultimo anno della materna e abbiamo ricevuto seimila ‘topini’ di cinque anni. Seduti in auditorium non si vedevano, talmente erano piccoli.

Da questo successo ho cominciato a ragionare su quello che sta accadendo nell’universo education. Il pubblico è sempre meno. Le istituzioni musicali più blasonate “deportano” i ragazzini e se parli con le maschere ti descrivono l’inferno: patatine sgranocchiate, viavai, schiamazzi.

Telefonino.

Pure gli adulti.

Perciò hai proposto il master all’ateneo fiorentino?

Sì, è per giovani che abbiano una laurea magistrale, non solo in Musica, Conservatorio, ma anche in Giurisprudenza, Economia, Lettere. Lo scopo è formare professionisti dell’education che potranno essere impiegati nelle istituzioni musicali come organizzatori (motivare le maestre, mettersi d’accordo con il Provveditorato) oppure come operatori teatrali (scrivere gli spettacoli, costruirli, accompagnare i vari partecipanti all’interno dei progetti). La sfida è formarli non solo alla divulgazione della lirica, ma della sinfonica e della ‘cenerentola’ musica da camera che, secondo me, la pandemia ha reso di nuovo protagonista.

I punti sono tre.

  1. La conoscenza della musica.
  2. Una competenza gestionale seria: budget, marketing.
  3. La psicologia perché se devo favorire la fascinazione, che è un piccolo processo di apprendimento, devo conoscere qual è il modo di acquisire di ogni essere umano nelle sue fasi di età. L’education, infatti, non è solo per i bambini. I ‘miei’ anziani venivano a sentire per la prima volta un concerto a oltre settant’anni. L’obiettivo era che tornassero, comprando un altro biglietto.
Per salutarci?

La mia ultima creatura è Caruso per il centenario della morte del tenore (1 agosto 2021). Su sollecitazione di David Livermore, regista dell’inaugurazione della Scala per quattro stagioni consecutive, e Sabina Colonna Preti, anima dell’Orchestra Internazionale 'Pequenas Huellas', una costola del sistema Abreu, che ha partecipato al progetto, abbiamo messo insieme i ragazzi delle scuole di Genova, i professori d’orchestra e il coro di voci bianche del Carlo Felice, due cantanti, Manu Lalli, che ho ritrovato, per raccontare la vita e valori di Caruso, il suo riscatto sociale attraverso il canto.

Con la musica non si mangia? Lui ci ha mangiato e anche molto bene. Fu l’unico a investire nel vinile quando i suoi colleghi lo consideravano un argomento deteriore ed è stato il primo a vendere un milione di dischi. In una parte dello spettacolo i migranti hanno il passaporto in mano e la regista Manu Lalli fa un ragionamento meraviglioso sul significato di questo documento che noi sottovalutiamo.

Ne è uscito un documentario mandato in onda da Rai 5 in cui c’eravamo anche noi e una ‘prima della prima’ dedicata allo spettacolo.

Livermore ci ha tenuto molto a essere il testimonial e mandato un messaggio video dal Rossini Opera Festival, mi ha inorgoglito. Vuol dire che anche gli artisti più glamour hanno consapevolezza della situazione e voglia di mettersi in gioco.