Mi sono accorta di essere veneta da quando vivo a Firenze. A dire il vero, prima non ci facevo troppo caso, non mi ci fermavo a riflettere, sul mio grado di “veneticità”. Più che altro, avendo vissuto per un periodo in Inghilterra e negli Stati Uniti, ero abituata a sentirmi, per prima cosa, italiana. Poi, cinque anni fa mi sono ritrovata a vivere in Toscana, e a sentirmi immancabilmente dire, dinanzi al mio accento “nostrano”: “Non sei di qua, vero?”.
Essere veneta, da quando vivo in Toscana, è diventato soprattutto una riflessione su me stessa. Mi ritrovo a confrontare le mie abitudini, acquisite in oltre 40 anni veneti (seppur intervallati da periodi in terre straniere) con le usanze e i modi di fare dei fiorentini. A stupirmi, ogni volta, di quanto possano essere diversi.
Essere veneta a Firenze, mi porta a sperimentare tutta una serie di emozioni. Come le volte in cui prendo il treno per tornare dalla mia famiglia d’origine. A un certo punto, avverto una specie di “sussulto emotivo”, non appena dal finestrino scorgo la campagna veneta con le sue interminabili distese. In inverno, poi, quando fuori dal finestrino la campagna si fa inghiottire dalla nebbia, mi lascio cullare da una malinconia dolcissima, ripetendomi piano: “Ecco, sto arrivando a casa”.
Di nebbia ce n’è parecchia anche nella cittadina immaginaria del Nordest in cui è ambientato il romanzo Maida Vale (Ronzani Editore, 2021), opera prima di un altro veneto, Michele Benetello. Nebbia che, fatalità, è la risposta di Michele quando gli chiedo qual è la prima parola che gli viene in mente se dico “Veneto”. E ancora, non a caso, il colore che Michele associa al Veneto è il grigio (nebbia?). “Un situarsi a metà tra bianco e nero”, precisa.
Questo stare tra la luce del bianco e il buio del nero, questa terra di mezzo che sa essere il Veneto, tra bellezze uniche al mondo (Venezia, vi dice qualcosa?) e brutture edilizie altrettanto uniche, legate alla cementificazione. Terra di eccessi e contraddizioni, di compromessi in stile “t’amo, non t’amo”. Un po’ come il sentimento ambivalente che prova Michele, che vive da sempre in un paesino appena fuori Treviso, in mezzo alla campagna: “Amo il territorio, anche se è stato disossato”, riflette. “Il territorio ci appartiene per nascita, non si sfugge. Ci ho messo decadi per apprezzarlo”, ammette, aggiungendo subito: “Beh, credo sia il suo punto di forza invece”. E mi spiega perché: “In venti minuti vado in spiaggia, in altri venti minuti in collina. In un’ora posso raggiungere le montagne o paesini fuori dal tempo. A Venezia, ti bastano duecento metri per uscire dal Florian ed entrare nella bettola più puzzolente e ottocentesca”.
In Veneto, c’è tutto (nel bene e nel male). Io, per capirlo, ho dovuto andarmene. Il Veneto è un miscuglio, non solo di luoghi, mare, laghi, colline, monti, borghi, ma di genti, nel senso di etnie. “Siamo un crogiolo di razze” - osserva Michele - “genìa spuria; in Cansiglio vi è la comunità Cimbra; gli Sloveni affermano che i Veneti sono i loro antenati, abbiamo schegge austro-ungariche per necessità guerrafondaie. I Dogi hanno portato il Bosforo dentro le nostre case. Siamo meticci, slavi d’anima. La trovo una cosa bellissima”.
“Che melting pot bellissimo è il Veneto” - concordo. Oltre alle bellezze note a tutti, chiedo a Michele se ha in mente altri posti speciali, alternativi, da visitare: Cison di Valmarino, mi suggerisce, emozionandosi al pensiero del delizioso borgo trevigiano. O il delta del Po, da esplorare come alternativa alla gita veneziana. E per gli appassionati di musica, come Michele (“Io e la musica siamo andati di pari passo sin da quando ero in fasce e ascoltavo i 45 giri nel mangiadischi per addormentarmi”, mi racconta), c’è il famoso Vinile di Rosà, non lontano da Bassano del Grappa. Un locale dove, precisa in tono serio, “intere generazioni di musicisti, appassionati, addetti ai lavori o semplici curiosi hanno passato la loro giovinezza”.
Di musica ce n’è tantissima anche dentro il romanzo Maida Vale, specie per chi la sa cogliere: tra le parole e i pensieri dei personaggi, nei titoli dei capitoli. Nello stile con cui l’autore narra le vicende dei protagonisti: una lingua cadenzata, pulsante come un battito di tamburo, come una vena sul punto di esplodere, di far scorrere sangue, che alla fine è nettare, è vita. Una lingua diretta, “di pancia”, schietta (come il Veneto? “Abbiamo un talento naturale per declinare la bestemmia solo con il tono di voce, dando di volta in volta significati diversi solo usando l’inflessione”, sottolinea Michele, a proposito di lingua veneta “autentica”). Una lingua, quella che scorre nel romanzo, “ritmata con la cassa in 4/4”, scherza alla fine, “a tempo con i ventricoli, come ogni vera storia d’amore dovrebbe essere”.
Perché, alla fine, Maida Vale è una grandissima storia d’amore. E non solo tra un uomo e una donna che si ritrovano e si rincorrono, come in un ballo a due un po’ fuori tempo. Ma una storia d’amore per dei luoghi. Delle atmosfere. Un certo sentire. Per certe abitudini. Per le cose piccole e minime, di tutti i giorni, che sono preziose e vere. Come le osterie (che Michele confessa di adorare), “con i vecchi che bestemmiano e battono la carta sul tavolo, i matti del paese. Le macchiette necessarie”, mi dipinge davanti un quadro che ritrovo in ogni paesino veneto. “Vi è una sconfinata letteratura dell’anima in provincia”, conclude – colpendo nel segno.
La provincia, ti entra dentro – e lì ci resta. “La provincia può diventare una sorta di ‘ecclesia’, di circolo empatico dove ci si può declinare dentro un’unica entità”, osserva Michele. Un pregio, quello della provincia veneta, che però può diventare “anche il suo più grande difetto, perché ci si chiude in un bozzolo caldo e rassicurante”, avverte Michele. In quanti, expat veneti – mi chiedo –tendiamo a rincorrere altrove, quel bozzolo caldo e rassicurante?
Bozzolo caldo, certo, metaforicamente, ma gli inverni veneti, che inverni! Spesso scherzo con i miei amici fiorentini, dico loro che l’inverno a Firenze non esiste. Dovrebbero provare l’inverno che si vive a Venezia, mentre si cammina per le calli (lì l’auto col riscaldamento mica c’è), col vento che ti sferza le guance, con le estremità del corpo che ti si ghiacciano: il “vero” inverno. Non posso evitare di chiedere a Michele, come si sopravvive a tutto questo. Al freddo, all’umidità (alla provincia?) veneta. “Si sopravvive e si può anche vivere bene se comprendi che ti è stata data in dotazione con il tuo venire al mondo”, rimarca lui, filosofico. E mi regala una battuta finale che abbraccia i protagonisti (veneti) del suo romanzo… e forse anche lui, forse anche me? “Siamo umidi nell’anima - dice a un certo punto il protagonista - beh, vuol dire che abbiamo il cuore sempre ben lubrificato”.