Patrizia Borsellino, laureata in Filosofia e in Giurisprudenza, è professore ordinario di Filosofia del Diritto e di Bioetica presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, dove ha ricoperto, tra i vari ruoli, quelli di direttore del Dipartimento dei Sistemi Giuridici, di direttore del Master in Bioetica e Diritto per la Pratica Clinica e di componente del Comitato Etico dell’ateneo. Autrice di numerosissime pubblicazioni sui temi teorico-giuridici e, soprattutto, sui temi al centro della bioetica e del biodiritto, ha svolto un’intensa attività volta alla promozione e alla diffusione della cultura bioetica anche in contesti extra accademici, operando all’interno di organismi, quale il Comitato per l’etica di fine vita, di cui è presidente, e di comitati scientifici di realtà associative, quali il Vidas di Milano, o “I Braccialetti bianchi” di Genova, impegnati nella promozione dei diritti dei malati alla fine della vita. Ha partecipato, in qualità di esperto, alle audizioni nelle commissioni della Camera dei Deputati e del Senato, in relazione ai disegni di legge in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate sui trattamenti e, nella legislatura in corso, in relazione ai disegni di legge sul suicidio assistito e sull’eutanasia.
Autoritratto
Sono una donna che non si è mai arresa alle difficoltà di fronte alle quali la vita mi ha posto sul piano personale e su quello professionale. Penso che ciò sia dipeso dall’inclinazione, che pare abbia avuto fin da bambina, a portare a compimento - con una certa ostinazione - le cose iniziate, perlomeno quelle che mi stavano a cuore. Penso, comunque, che molto abbia influito su di me anche l’esempio di una madre forte e coraggiosa, che dopo la prematura scomparsa di mio padre, avvenuta prima che io compissi sedici anni, è riuscita a farmi comprendere che non c’è dolore, e quello è stato per me uno dei più grandi, se non il più grande che abbia provato, che ci deve distogliere da ciò che più per noi conta nelle vita, né farci mettere da parte i nostri progetti e i nostri obiettivi, o farci dimenticare quanto importante sia non isolarsi e aprirsi agli altri.
Sono insegnamenti che non ho mai dimenticato e che, per quanto possibile, ho cercato di trasmettere agli altri. Molto ho avuto, e qualcosa di buono credo di aver dato, innanzitutto, grazie alla capacità di rivolgere attenzione alle persone nei più diversificati contesti e di rispettarle, anche nella divergenza di opinioni. Riguardo ai miei progetti e obiettivi, si è andata definendo con crescente nitidezza in me l’esigenza di coltivare campi di studio, quali quelli della filosofia e del diritto, che consentono non solo di interrogarsi sugli aspetti problematici del vivere e di comprenderne le radici, ma anche di individuare le strade percorribili per una loro possibile soluzione.
Ho avuto la fortuna di incontrare grandi maestri che mi hanno trasmesso l’amore per il rigore nel pensiero e per la chiarezza nell’argomentazione, radicando in me la profonda convinzione sia che posizioni sostenibili sono solo quelle supportate da valide ragioni, sia che l’onestà intellettuale debba sempre prevalere sull’opportunismo.
Arrivata a una fase della vita in cui si incomincia a fare bilanci, so di poter passare il testimone a giovani allievi animati dallo stesso amore e dalla medesima convinzione, in controtendenza con ancora troppo diffuse inclinazioni bassamente compromissorie. E questo è per me motivo di consolazione e di soddisfazione.
La “bioetica” è parte fondamentale dei suoi studi e del suo insegnamento: ce ne può sintetizzare il significato?
Il mio incontro con la bioetica risale alla seconda metà degli anni Ottanta, ed è stato favorito soprattutto dalle sollecitazioni che mi sono venute dal confronto con lo studioso accanto al quale ho avuto il privilegio di compiere i primi passi nell’attività universitaria, e di avviare, presso l’Università degli Studi di Milano, il percorso di ricerca e di insegnamento nel campo della Filosofia del Diritto, poi proseguito in altre università nelle successive fasi della mia carriera accademica. Mi riferisco a Uberto Scarpelli, esponente di primo piano della cultura giuridica della seconda metà del Novecento, che della bioetica è stato in Italia pionieristica figura di riferimento.
Va subito sottolineato come al centro della bioetica vi sia l’ampia gamma di questioni connesse agli interventi sulla vita umana, e non umana, resi possibili dagli straordinari progressi in ambito medico e biogenetico avvenuti a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo. Questi hanno determinato un radicale cambio di scenario rispetto alle precedenti fasi della storia umana, creando le condizioni per un sempre più incisivo controllo su fenomeni, quali la nascita e la morte, tradizionalmente considerati affidati al caso e/o alla necessità, e hanno fatto sì che la vita sia divenuta ambito di possibili, anzi necessarie, scelte (di cui ci si deve assumere la responsabilità) e, in quanto tale, come contesto di problematizzazione etica.
È su questo sfondo che la bioetica si è presentata come una sorta di luogo ideale nel quale impegnarsi in una riflessione sugli interventi sul mondo della vita mirata a individuare le linee d’azione meritevoli di essere adottate, perché giustificabili sulla base di quei criteri orientativi delle prassi (e delle scelte che vi sono presupposte) offerti dai principi, dalle norme e dai valori, di cui l’etica costituisce il metaforico contenitore. E aggiungerei, un ambito tematico particolarmente “sfidante”, nel quale a svolgere un ruolo di primo piano (peraltro accanto a portatori di diverse competenze) potevano essere proprio gli studiosi di etica, vale a dire tutti coloro, quali i filosofi della morale, ma anche e non meno i filosofi del diritto, che hanno o, quantomeno, dovrebbero avere strumenti adeguati a “maneggiare” i sopra menzionati criteri orientativi delle condotte.
L’approdo alla bioetica mi è, d’altra parte, apparso in quegli anni, ma ha continuato ad apparirmi anche nel mio successivo percorso di studio e di insegnamento, pienamente congruente con il modello che non ho mai smesso di considerare come il più meritevole di essere adottato nel lavoro teorico che è chiamato a svolgere un filosofo del diritto. Mi riferisco al modello “neoilluministico” condiviso, all’indomani della Seconda guerra mondiale, da importanti studiosi, tutti fondamentali nella mia formazione, quali, fra gli altri, Nicola Abbagnano, Giulio Preti, Mario Dal Pra, Uberto Scarpelli, Norberto Bobbio, accomunati, oltre che dall’insofferenza per ogni forma di vaniloquio filosofico, dall’intento di svolgere un lavoro culturale costruttivo, con il quale incidere in una società, come quella italiana post-bellica, bisognosa di trasformazioni profonde. Il modello, quindi, di un lavoro teorico, suscettibile di avere un impatto sul piano etico, sociale e civile, la cui adozione in un ambito di questioni che incidono nella vita di tutti gli individui, quali quelle in relazioni alle quali viene chiamata in causa la bioetica, se, per un verso, favorisce soluzioni adottate a muovere da un sicuro dominio dei percorsi argomentativi e sulla base della consolidata pratica di addurre ragioni in un contesto giustificativo, per altro e opposto verso, rappresenta la migliore garanzia per non lasciare quelle questioni senza soluzione o prospettarne alcune a fondamento delle quali vi sono veri e propri errori di ragionamento, oltre che rappresentazioni distorte della realtà, alimentate da radicati pregiudizi.
La bioetica ha favorito l’incontro tra discipline diverse?
Pur avendo le credenziali per essere considerata una disciplina o, forse, meglio, un’impresa di carattere filosofico, la bioetica non può essere considerata monopolio dei filosofi di professione. Se così fosse, si smentirebbe il connotato più diffusamente messo in rilievo nelle caratterizzazioni metodologiche della bioetica. Mi riferisco all’interdisciplinarità, al configurarsi della bioetica, come “fiume di cui sono tributari numerosi affluenti”, per usare una felice metafora di Uberto Scarpelli. Non v’è, infatti, questione di rilevanza bioetica che possa essere adeguatamente affrontata e risolta se non si dispone di un adeguato bagaglio di conoscenze scientifiche di tipo medico, biologico, genetico, ma, sempre più anche di tipo bio-ingegneristico e bio-informatico. Altrettanto necessari, anzi indispensabili, sono però gli strumenti d’analisi in possesso dei conoscitori (studiosi di etica, giuristi, filosofi del diritto) dei criteri orientativi delle prassi, rappresentati dai principi, dalle regole e dai valori, così come gli strumenti di cui dispongono diverse figure di studiosi del comportamento umano, quali gli psicologi, gli antropologi, i sociologi.
Proprio perché richiede che portatori di diverse competenze mettano le loro rispettive conoscenze gli uni a disposizione degli altri, la bioetica ha creato le condizioni, e ha rappresentato il contesto appropriato, per superare la rigida separazione dei saperi e la scarsa propensione alla comunicazione e al confronto dei cultori di tutti i settori disciplinari.
Se si considera l’attività svolta dai comitati etici, gli organismi, investiti della valutazione etica della ricerca e della pratica clinica, che hanno tradotto sul piano istituzionale il connotato caratterizzante della bioetica rappresentato dall’interdisciplinarità, si possono avere significativi riscontri dell’accresciuta disponibilità dei portatori di diverse competenze non certo ad abbandonare i loro linguaggi specialistici, bensì a operarne una traduzione funzionale alla comprensione e alla condivisione. Resta, però, ancora molta strada resta da fare per migliorare il confronto e favorire, in via di regola, e non di eccezione, l’incontro tra la ricerca volta a disvelare i meccanismi di funzionamento/disfuzionamento del vivente e, in particolare, a studiare la vita umana nella dimensione biologica, da una parte, e la ricerca che guarda alla complessa trama di relazioni in cui la vita umana si svolge nella dimensione biografica, dall’altra. E molta ne resta ancora da fare per diffondere tra i ricercatori in ambito biomedico la consapevolezza “etica” che non può rimanere estranea al loro operare l’attenzione per le regole volte a garantire che la ricerca sugli esseri viventi, in generale, e sugli esseri umani, in particolare, così come l’applicazione che se ne fa in ambito clinico, siano realizzate nel rispetto dei diritti, della sicurezza e del benessere dei soggetti coinvolti. Si tratta di una strada che passa per il ripensamento dei percorsi formativi e per il loro arricchimento in un’ottica multidisciplinare già nel contesto universitario, prima che in ulteriori momenti di formazione, soprattutto, anche se non solo, nei corsi di laurea in medicina. È una strada senza scorciatoie, che non ci si deve stancare di sollecitare, nonostante le resistenze frapposte in ossequio a un’impostazione tradizionale degli studi, funzionale a ergere steccati più che a creare ponti, a supporto del cui mantenimento è assai difficile intravedere ragioni diverse dalla preoccupazione di presidiare consolidati assetti e poteri accademici.
Dalla bioetica al biodiritto…
Nei primi dieci, forse quindici anni del dibattito, quale si è andato svolgendo nel continente europeo e, soprattutto, in Italia, è prevalsa l’idea che considerare gli interventi sulla vita dal punto di vista etico significasse dare evidenza alle loro implicazioni morali. La bioetica italiana è stata, quindi, inizialmente realizzata sotto l’insegna della filosofia morale, mentre non si è prestata attenzione all’adeguatezza del diritto vigente e delle categorie giuridiche tradizionali rispetto ai nuovi scenari della vita umana delineatisi sotto la spinta delle innovazioni tecnologiche, o, addirittura, si è considerata con diffidenza e preoccupazione l’entrata in campo del diritto in questo ambito tematico. Lo si è fatto da prospettive e con argomenti diversi, ma, per lo più, a muovere dalla convinzione che per orientare i comportamenti, ad esempio, nelle delicate decisioni di inizio vita (interruzione della gravidanza, ricorso alle tecniche di procreazione assistita), oppure di fine vita (sospensione di trattamenti salvavita, aiuto attivo a morire, ecc.), fossero sufficienti i criteri offerti dalla propria visione morale, per lo più elevata al rango di unica “Morale” con la “M” maiuscola. Una sopravvalutazione della morale, quindi, alla quale si è accompagnata, soprattutto dalla parte del mondo medico e scientifico, una rappresentazione negativa del diritto, visto come “pesante marchingegno sanzionatorio”, volto a frapporre ostacoli allo svolgimento della ricerca e alle sue applicazioni. Ma l’asserita “sufficienza” del ricorso alla “Morale” è stata costretta a fare i conti con la sempre più marcata connotazione pluralistica della società in cui viviamo e con la conseguente concorrenza di visioni morali improntate a differenti e non sempre conciliabili principi di riferimento. D’altra parte, la preoccupazione per il diritto come strumento limitativo, che interviene solo con divieti, è parsa poter essere ridimensionata, dando rilievo a un diverso modo di guardare al diritto, quello secondo cui, sulla scorta dell’insegnamento già di Montesquieu, di Kant e di Mill, il diritto può essere, e va considerato, anche e soprattutto, come un insieme di regole funzionali a garantire le libertà degli individui, e a consentire la coesistenza, all’interno della società, di non coincidenti visioni morali.
È vero che nel nostro contesto nazionale la Chiesa e la cultura cattolica ufficiali hanno continuato a rivendicare una sorta di legittimazione esclusiva in ambito morale e che, proprio in materia di famiglia e di scelte in ambito bioetico, hanno prospettato per il diritto il ruolo “ancillare” di mettere i suoi strumenti coercitivi al servizio dell’unica “Morale” ritenuta meritevole di trovare accoglimento. Ma questo non ha impedito l’affermarsi di una sempre più condivisa consapevolezza, sul piano del dibattito teorico, circa l’irrinunciabilità del ricorso al diritto come strumento di prevenzione e di risoluzione dei conflitti, nonché di tutela dei diritti, sullo sfondo della considerazione del pluralismo come un valore da tutelare, e non come il prodotto di un “disorientamento” transitorio a cui porre rimedio riaffermando un'unica visione morale. E non ha, d’altra parte, impedito, l’adozione di provvedimenti legislativi e di orientamenti giurisprudenziali significativamente improntati, a partire dagli anni Settanta fino ai nostri giorni, al rispetto della libertà dell’individuo e al suo diritto di compiere, in conformità con le sue proprie convinzioni, le scelte che più incidono sui suoi piani di vita e, prima di tutto, sulla sua salute.
Certo, si è trattato di una strada costellata di difficoltà e che si è ben lontani dall’aver percorso sino in fondo, ma è anche l’unica percorribile in una società e in uno Stato laicamente configurati, oltre che l’unica compatibile con l’assetto valoriale delineato nella nostra Costituzione.
Siamo nell’era tecnologica, improntata all’applicazione delle conoscenze scientifiche a scopi pratici; in particolare, le biotecnologie hanno permesso enormi sviluppi nella medicina contemporanea anche con un enorme potere sulla salute e la vita dell’individuo: come tutelare l’autonomia del paziente?
La risposta a questa domanda richiede che si faccia riferimento al quadro normativo nel quale vanno oggi cercate le regole che disciplinano gli interventi in ambito clinico, oltre che quelle riguardanti gli interventi sull’uomo in contesti di ricerca e di sperimentazione.
Si tratta di regole giuridiche (e deontologiche) che, in controtendenza con una lunga tradizione di esclusione dei destinatari degli interventi dalla partecipazione alle decisioni sugli interventi stessi, hanno concordemente sancito l’illegittimità di qualunque intervento o trattamento posto in essere senza o contro la volontà che l’interessato esprime, dando il suo consenso o esprimendo il suo rifiuto. In particolare, dopo l’entrata in vigore della legge, la n. 219/2017, “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, che ha disciplinato in maniera organica la relazione di cura, appare fuor di dubbio che ogni individuo adulto e competente vada considerato, in relazione agli interventi sul suo corpo, titolare di “autonomia decisionale”, vale a dire, della prerogativa di accettare o rifiutare qualunque trattamento, compresi i trattamenti salvavita, e di manifestare, eventualmente, la propria volontà anche in relazione a trattamenti futuri, che gli dovessero essere praticati quando non più capace.
Una volta riconosciuto nell’autonomia un valore da rispettare, per quanto possibile, anche quando si ha a che fare con soggetti minori o incapaci, bisogna però creare le condizioni per l’effettivo esercizio dell’autonomia, instaurando con i pazienti una relazione comunicativa all’interno della quale soltanto possono essere messe a loro disposizione, nella modalità più adeguata, le informazioni indispensabili per una scelta consapevole.
In altre parole, tanto più si potrà garantire l’autonomia dei pazienti, quanto più si impronterà l’assistenza all’idea, peraltro anch’essa recepita dalla legge n. 219, che “il tempo della comunicazione è tempo di cura”, mettendo in atto le trasformazioni organizzative e le iniziative formative purtroppo congelate, negli ultimi due anni, a causa o con il pretesto dell’emergenza sanitaria.
Ha affermato che uno degli elementi che accomuna l’umanità è la sofferenza fisica e la finitudine costituita dalla morte. Se la medicina finora si prefiggeva principalmente di “guarire”, oggi non dovrebbe aprirsi al significato più ampio di “curare”? E vi sono strumenti che oggi possono garantire al cittadino un’accettabile qualità della vita anche nella malattia e all’avvicinarsi alla morte?
Non diversamente dall’inefficace medicina premoderna, anche la moderna ed efficace medicina tecnologica capace, come si è già detto, di un sempre più incisivo controllo sulla vita, non si è fatta tempestivamente carico di sollevare i malati dal dolore, anche e soprattutto quando non li si può guarire. Si è trattato di una noncuranza sulla quale ha pesato la suggestione esercitata da un modello di medicina che, considerando la malattia alla stregua di un “guasto meccanico” da riparare, si è concentrata sugli obiettivi della guarigione e della protrazione della sopravvivenza, mentre non ha rivolto attenzione al benessere e agli stati soggettivi dei malati e non ha approntato rimedi per quella sofferenza psicologica, oltre che fisica, che connota, in particolare, l’evoluzione delle malattie a prognosi infausta e nella fase terminale.
Se pur non senza difficoltà, l’idea che il sollievo della sofferenza debba trovare accoglienza, ridefinendone i confini, all’interno del mandato della medicina, si è, tuttavia, fatta strada quando, dapprima nei Paesi dell’area anglosassone, intorno alla metà degli anni Sessanta, e successivamente in sempre più numerosi contesti, tra i quali anche quello del nostro Paese, si è affacciato, e gradualmente affermato, un modello assistenziale, quello delle cure palliative, di cui è proprio la formula “curare anche quando non si può guarire” a sintetizzare efficacemente la filosofia ispiratrice.
E, guardando ancora una volta alle significative trasformazioni avvenute sul piano giuridico, peraltro in linea con prospettive emerse dal dibattito bioetico, va sottolineato come nel nostro Paese sia stato sancito per legge (prima nella legge n. 35 del 2010 “Disposizioni per l’accesso alle cure palliative alla terapia de dolore” e poi nella già citata legge n. 219/2017), per un verso, il diritto di ogni soggetto malato a ricevere, sino alla fine, cure mirate a garantirgli il più elevato livello di qualità della vita compatibile con la gravità delle condizioni in cui si trova e, per altro verso, l’inderogabile dovere del medico, e degli operatori sanitari in genere, di intervenire sempre e comunque per alleviare le sofferenze.
La direzione imboccata è stata quella giusta. Bisogna però fare ancora molto per ampliare l’offerta dei servizi di cure palliative, promuovere la formazione degli operatori sanitari, informare i cittadini, spesso ignari che concludere la vita con dignità e senza dolore non è solo una legittima aspirazione, ma un diritto.
Sempre nell’ambito del diritto individuale, dopo una sentenza della Corte Costituzionale, ci si potrà avviare verso qualche forma di depenalizzazione dell’eutanasia, ma sembra che i legislatori siano timorosi a pronunciarsi: a quali motivi attribuirebbe questa inerzia o vera e propria rinuncia della politica alla sua autonomia che suscita la domanda se l’Italia si possa definire uno Stato pienamente laico?
La sentenza n. 242, con cui la Corte Costituzionale, nel novembre 2019, si è pronunciata sulla non punibilità dell’aiuto al suicidio (dichiarando la parziale incostituzionalità dell’art. 580 C.P.), con specifico ed esclusivo riguardo alle situazioni di soggetti dei quali l’ampia disponibilità di trattamenti salvavita ha consentito la sopravvivenza, senza peraltro assicurare una qualità della vita per loro accettabile, ha senz’altro rappresentato un punto di svolta nel diritto italiano in tema di fine vita, facendo cadere la preclusione assoluta nei confronti dell’aiuto attivo a morire, e ponendo le premesse per allargare la platea dei soggetti affetti da patologie inguaribili e in condizioni irrimediabilmente invalidanti per i quali sembra aprirsi la possibilità di sottrarsi a una sopravvivenza lesiva della loro dignità. Un risultato importante, ma che non ha fatto venir meno l’esigenza di una disciplina legislativa della materia - peraltro sollecitata dalla stessa Corte Costituzionale - senza la quale non si potrà contare su percorsi e procedure in grado di preservare da ogni forma di abuso, così da garantire al meglio, in primo luogo, i soggetti che solo attraverso l’aiuto attivo a morire possono liberarsi dalla prigionia di una sofferenza divenuta per loro insostenibile, ma da garantire anche coloro che pongono in essere gli atti di aiuto. Senza contare che, dopo la sentenza nella quale la Corte si è pronunciata, come era chiamata a fare, sulla fattispecie del suicidio assistito, è rimasta aperta la questione dell’eutanasia, cioè dell’aiuto a morire dato a soggetti che non sono in grado, come pur è stato Dj Fabo, di compiere nemmeno l’ultimo atto che conduce alla morte.
A fronte di questa esigenza, il Parlamento italiano, a differenza di quanto è avvenuto in un Paese a noi vicino come la Spagna, ha mostrato una sconcertante indifferenza, congelando per oltre due anni i disegni di legge in materia, e calendarizzandone, finalmente, per lo scorso 13 dicembre, la discussione, peraltro subito rinviata a data da destinarsi, dopo essere stata avviata in una Camera dei Deputati desolatamente deserta!
Non è la prima volta, e non è solo in questa delicatissima materia, che la politica si mostra incapace di fare la propria parte quando è in gioco il riconoscimento di diritti, da cui dipendono il “pieno sviluppo della personalità”, di cui parla l’art. 3 della Costituzione, e la possibilità di compiere scelte, che ne è condizione. Penso che le ragioni vadano cercate in parte nell’impreparazione di molti parlamentari, ma anche e soprattutto nel prevalere dell’opportunismo sulla disponibilità a spendersi per compiere i passi che ancora mancano per la costruzione di quella società inclusivamente laica che sta a cuore alla maggior parte dei cittadini più che alle forze politiche che dovrebbero rappresentarli, e questo in presenza di perduranti tentativi di interferenza e di contrasto messi in atto dalle gerarchie ecclesiastiche. Ma ho fiducia che le ragioni della laicità finiscano per prevalere. È avvenuto con la legge sulla procreazione assistita, intaccata nelle sue previsioni “non laiche” dalle pronunce di incostituzionalità, e speriamo che avvenga anche con la legge sul suicidio assistito e sull’eutanasia, auspicabilmente stimolata dall’iniziativa referendaria intrapresa per dare voce ai cittadini e smuovere l’inerzia del parlamento.
La pandemia ha drammaticamente posto in evidenza la difficoltà di conciliare interesse collettivo con scelta personale: in questo particolare frangente emergenziale, lo stato può avere il diritto di limitare alcune libertà individuali?
L’epidemia, dovuta alla diffusione del Coronavirus SARS-Cov2, che da due anni a questa parte ha investito pressoché tutte le aree del mondo, ha richiesto l’adozione di misure di contenimento che, soprattutto, ma non solo, nella fase iniziale, hanno comportato l’imposizione di limiti ai quali non eravamo preparati e un conseguente stravolgimento di consolidati abiti di vita. Si è subito levata la voce indignata di chi ha criticato le misure, ergendosi a difensore di libertà, costituzionalmente garantite, che non sopporterebbero compressione alcuna. Quando, poi, grazie allo straordinario sforzo profuso sul piano scientifico, sono stati messi a punto i vaccini, no-vax dichiarati e/o indecisi hanno difeso la scelta di non vaccinarsi in nome di un diritto “incondizionato” alla libertà di cura, che renderebbe giuridicamente, oltre che moralmente, inaccettabili provvedimenti (dal green pass fino all’obbligo vaccinale) indirettamente o direttamente suscettibili di limitare l’esercizio di quel diritto o, addirittura, di annullarlo.
Non si tratta, certo, di mettere in discussione che la libertà di ogni persona rappresenti un valore da presidiare, né di sottovalutare la rilevanza costituzionale dei diritti di libertà. Tuttavia, ai sedicenti paladini (tra i quali, purtroppo, anche qualche filosofo e giurista che non farebbe male a tornare sui libri) della libertà sottratta a ogni limite e non accompagnata dalla domanda sulle conseguenze che il suo esercizio comporta, non ci si deve stancare di ricordare che - come sosteneva uno dei padri del liberalismo, J.S. Mill - la libertà nasce “costitutivamente” limitata, vale a dire, incontra un limite invalicabile nel danno che può recare ad altri e, in ogni caso, nell’impedimento dell’altrui libertà.
È del resto la stessa Costituzione a contemplare che limitazioni di diritti di libertà possano essere introdotte per legge, quando lo richiedono “motivi di sanità e di sicurezza”, come dice l’art. 16, con riferimento alla libertà di circolazione.
Venendo, infine, alla questione della libertà di cura e, quindi, al diritto di ogni cittadino di non essere sottoposto a trattamenti contro la sua volontà, rimane fermo che, in materia di trattamenti sanitari, il criterio ai quali improntarli, è, in via di regola, come dispone l’art. 32 della Costituzione, quello della volontarietà. È, tuttavia, lo stesso articolo 32 a prevedere che la tutela della salute, oltre a essere un fondamentale diritto dell’individuo, è anche un (primario) interesse della collettività.
Una previsione che apre la strada a eccezioni, peraltro da introdurre per legge e senza mai far venir “il rispetto della persona umana”, nella consapevolezza che la collettività non è un’entità astratta, ma l’insieme degli “altri” individui in carne e ossa, che non possono, e non devono, correre il rischio di veder compromessa la propria salute in nome delle scelte di chi pretende di compierle guardando solo a se stesso e pretende, altresì, di non assumersene la responsabilità.
Come cittadina milanese, nota nelle istituzioni, nella cultura, nella società interesse e sensibilità alle problematiche della bioetica e del biodiritto?
Nel contesto milanese hanno operato da diversi anni a questa parte, e continuano a operare, numerose realtà, espressione della società civile, impegnate nella sensibilizzazione dei cittadini sulle più rilevanti questioni al centro della bioetica e del biodiritto, oltre che in attività formative destinate agli operatori sanitari. Tra queste, per limitarmi a quelle con le quali ho avuto l’opportunità e il privilegio di una fruttuosa collaborazione, la Consulta di bioetica, il Comitato per l’etica di fine vita, il Centro per la ricerca e la formazione in politica e in etica “Politeia”, l’Osservatorio per i diritti “Vox”, la “Casa della cultura” e il Vidas. Le iniziative intraprese hanno sempre riscosso interesse e hanno fatto sì che crescesse il numero delle persone in grado di comprendere la rilevanza delle questioni in gioco e di assumere posizioni ragionate. Vi sono stati risultati incoraggianti, a fronte dei quali bisogna tornare a moltiplicare le occasioni di confronto e di dibattito su tutte le questioni di rilevanza bioetica, comprese quelle che è stata l’emergenza stessa a portare in primo piano.
Aggiungo che, negli anni passati, anche sul piano istituzionale vi è stata, da parte dell’Amministrazione comunale, un’apprezzabile attivazione con la creazione del registro dei testamenti biologici. Un segnale importante di attenzione che tuttavia, da cittadina milanese, auspico non rimanga un’iniziativa isolata.
Vanto di Milano è Vidas, associazione particolarmente sensibile all’aspetto delle cure palliative e all’accompagnamento del malato terminale: ne fa parte come membro del Comitato Scientifico, qual è stata la sua esperienza?
Vidas è nata nel 1982, per iniziativa della fondatrice Giovanna Cavazzoni, come associazione di volontari volta a sollevare dalla sofferenza malati prossimi alla fine della vita, per i quali il Sistema Sanitario Nazionale, pur già istituito nel 1978, non apprestava adeguate risposte di cura. Negli anni, Vidas ha via via consolidato il suo impegno sul piano assistenziale nella prospettiva di quella cura che va oltre la possibilità di guarigione, alla quale ho già fatto in precedenza riferimento. Ma Vidas non è stata e non è solo questo. Ha, infatti, assunto una posizione di primo piano tra le istanze impegnate nella promozione, sul piano culturale, del modello assistenziale delle cure palliative e, più in generale, nell’informazione e sensibilizzazione sulle questioni di fine vita, senza perdere di vista, creando occasioni di riflessione, temi di fondo, quali il dono, la riconoscenza, la responsabilità, per richiamarne solo alcuni, importanti in un progetto di crescita etica sul piano individuale e sociale.
In qualità di componente del Comitato scientifico di Vidas ho avuto la gratificante esperienza di poter contribuire, al fianco di autorevoli colleghi, alla progettazione di alcune di quelle iniziative, e di vederne poi il positivo impatto nel contesto di seguitissimi incontri. Ho potuto, inoltre, constatare, da un osservatorio privilegiato, quanto rilevante possa essere l’impulso dato alla trasformazione della società da cittadini che, riconoscendosi in un comune progetto, si mettono all’opera (Vidas lo ha fatto, fra l’altro, con la campagna per la promozione del testamento biologico), non rassegnandosi all’inerzia delle istituzioni.