Questa storia comincia nell'inverno del 1987 a New York, in una strada di Manhattan dove un gruppo di Hare Krishna ha piazzato il suo furgoncino liberando le note del sankirtan in un concerto estemporaneo. Due gli spettatori infreddoliti sul marciapiede: un ragazzo italiano, poco più che teenager, alla scoperta della Grande Mela e un giovane smilzo, dal volto allungato e occhiali da vista rotondi. Il fatto è che nella lontana campagna pontederese dove abitava, il ragazzo, appassionato di Pop Art, riceveva la rivista di Andy Warhol, Interview, e proprio in queste pagine aveva visto alcune opere di Keith Haring e ne era rimasto entusiasmato.
“Io guardavo la persona magra con jeans chiari e scarpe bianche accanto a me e mi sembrava che fosse proprio lui, Keith Haring, ma non potevo esserne sicuro”, racconta Piergiorgio Castellani, oggi produttore vinicolo nelle splendide campagne toscane dell'entroterra pisano. “Alla fine, ho vinto la timidezza e gli ho parlato: 'Scusi, ma lei è Keith Haring?'. Di fronte alla sua risposta positiva non seppi frenarmi e con l'irruenza di un ragazzo di 18 anni gli dissi tutto quello che sapevo di lui e mi lanciai fino a chiedergli se sarebbe stato disponibile ad affrescare un grande muro in Italia. Mi rispose di sì”.
Fu così che nacque, non solo un'amicizia, ma anche Tuttomondo, opera di 180 metri quadrati realizzata sulla parete esterna della chiesa di Sant'Antonio Abate a Pisa e unico murale di Haring sopravvissuto in Europa. Lo dipinse nel giugno del 1989, pochi mesi prima di morire, a soli 31 anni, vinto dall'Aids.
Ma, come lui stesso sosteneva, la morte è irrilevante, perché non rappresenta un limite. E per gli artisti e gli scrittori la sua profezia è certamente vera. Infatti Haring, cult dei writers e icona della Pop Art, è tornato a Pisa, questa volta a Palazzo Blu, tra le massime istituzioni museali italiane, con 170 opere che ripercorrono la sua breve, ma intensa carriera, attraverso le varie tecniche espressive usate, dalla pittura al disegno, dalla scultura ai video, dall'arte pubblica a quella commerciale. Sono opere che vengono da lontano, ma non dagli Stati Uniti, dove Haring è nato e vissuto, bensì dal Giappone, quasi a dimostrare, se ce ne fosse ancora bisogno, che il linguaggio dell'arte attraversa non solo tempi, ma anche spazi universali.
A Kobuchizawa, due ore di treno da Tokyo, in mezzo ai monti Yatsugatake, campagna di storici ricordi, dove venivano allevati i cavalli per gli epici samurai, è raccolta la collezione privata più importante di uno degli artisti forse più irriverenti, riconosciuto tra i padri della Street Art. Kazuo Nakamura, dirigente di una grande holding che si occupa di ricerche farmaceutiche e mediche, è il fondatore della collezione, cominciata nel 1987, quando in una galleria di New York si innamorò di un pezzo del cui autore non conosceva all'epoca nemmeno il nome. Il filo dei writers e della Pop Art che attraverso Haring lega gli Stati Uniti al Giappone passa dunque dall'Italia. E a Tuttomondo va oggi ad aggiungersi una grande esposizione organizzata con la Nakamura Keith Haring Collection.
Eccolo, allora, l'ormai famoso “Codice Haring”, i suoi omini stilizzati e in movimento, i suoi cani, i delfini, gli angeli e quel bambino radiante diventata la sua firma, nonché il simbolo di un periodo e di una cultura. “The Radiant Baby simboleggia l'innocenza, la purezza, la bontà e il potenziale”, si legge nel catalogo. “In ultima analisi è una rappresentazione di Haring stesso”. Si racconta che due giorni prima della morte, ormai esausto, l'artista non riesca più a parlare, ma con un pennarello tenti ripetutamente di disegnare qualcosa. E quando ci riesce l'immagine che appare è quella del neonato che gattona, dotato di quell'energia potente che non lo fa mai fermare.
Bambino problematico, poi ragazzo dedito all'alcol e alle droghe, Keith Haring comincia presto a disegnare fumetti e appena giunto a New York da Pittsburgh per proseguire gli studi artistici comincia la sua attività creativa nelle stazioni della metropolitana, sfidando gli agenti di polizia e usando il gessetto bianco sui pannelli neri inutilizzati della pubblicità.
La sua fama cresce in fretta e a soli 24 anni, con un linguaggio artistico ben definito, tiene le sue prime esposizioni, ottiene approvazione e stima dal mostro sacro Andy Warhol e le sue figure stilizzate, semplici e potenti, dai colori spesso fluorescenti cominciano a fare il giro del mondo. “La mia speranza – diceva - è che un giorno i ragazzini che passano il loro tempo per strada si abituino ad essere circondati dall'arte e che possano sentirsi a loro agio se vanno in un museo”. Molte delle serigrafie esposte nella mostra sono infatti dedicate proprio ai bambini. Ma anche l'Aids, i diritti dei gay, il razzismo, la droga, le guerre, la violenza e l'ambiente sono temi in cui lui trasporta il suo mondo brulicante di animali, dischi volanti, creature iconiche a cui affida le sue critiche e la sua ironia.
“Keith era una persona introversa, ma anche molto intelligente, attenta, sensibile e generosa”, racconta Piergiorgio Castellani. “Tutto questo non lo dimostrava solo nella sua attività artistica, ma anche nel comportamento quotidiano. Lui si occupava degli altri, in particolare delle categorie svantaggiate, tra cui gli omosessuali e i tossicodipendenti. Nonostante fosse uno degli artisti più importanti degli anni Ottanta, il suo obiettivo era realizzare opere pubbliche gratuite attraverso le quali diffondere un messaggio positivo e di speranza”.
Questo messaggio sembra incrinarsi solo in alcune opere, come Apocalypse, realizzate nel 1988, anno in cui gli viene diagnosticato l'Aids. Allora l'ironia diventa sarcasmo, i segni prendono forme inquietanti, gli animali diventano minacciosi, il caos esplode. Ma in opere come Tuttomondo la serenità è ritrovata: un omino tiene in mano un cuore, altri si intersecano, le donne cullano i loro bambini e forbici umane tagliano il serpente, simbolo del male. D'altronde per Haring cercare l'armonia sempre e ovunque era un must. “L'arte – incalzava - può avere un'influenza positiva sulla società”. Dall'Aids degli anni Ottanta al Covid dei nostri giorni, quel messaggio laico di speranza non cessa di coinvolgerci. Kazuo Nakamura ce lo ricorda così:
In un mondo minacciato dalla pandemia, mi auguro che il confronto con le opere di questo artista ci consenta di riaffermare la connessione tra le persone e la preziosità della vita.