Non appena mi vide la ragazza mi gettò le braccia al collo e mi riempì di baci, togliendomi il respiro.

"Che piacere rivederti! Dove sei stato tutto questo tempo? Pensavo di non trovarti più".
Io la guardavo stupito cercando nella mia mente di rintracciare quell'esile filo della memoria che poteva condurmi da lei.
"Sai che mi sei mancato da matti".
"Anche tu", dicevo io e intanto scartabellavo in qualche pila di fogli di ricordi ingialliti, ma lei non c'era.
"Non pensavo te la saresti presa così. Perché te ne sei andato senza attendere una spiegazione?" diceva lei, e io: "Lo sai che certe cose non le sopporto…". Certe cose non le sopporto è vero, ma quali in questo caso?
"Hai ragione", faceva lei, "ma volevo chiederti scusa e tu non me ne hai dato il tempo".

Io la guardavo in quegli occhi profondi e pensavo: "Chi sei?".
"Perdonami", disse e mi porse un pacchettino di carta scura che io misi in tasca senza aprire.
"Sei ancora arrabbiato?".
"Sconcertato", risposi.
"Hai ragione, ma io... che faccio? Da quasi quattro mesi non ti vedevo e ora speravo di... vieni qui".

All'interno dell'ingresso scuro il bianco dei suoi occhi era l'unica cosa che riuscivo a distinguere. Sentii le sue mani insinuarsi sotto la mia camicia, mi graffiò leggermente la schiena e a malapena udii che stava pronunciando alcune parole. Pareva parlasse una lingua straniera perché i suoni, seppure debolissimi, echeggiavano nel vuoto dell'antro come una filastrocca orientale.

Improvvisamente un colpo secco fece vibrare l'aria e la luce squallida di una lampada ci illuminò, il ticchettio di un temporizzatore si mescolò per qualche attimo ai passi ritmati che sempre più vicini scendevano gli scalini.

"Andiamo!". Dissi, ma lei, staccandosi improvvisamente da me, si sbottonò la camicia e mi fece segno di entrare con lei in un piccolo sottoscala dietro una bassa porta di legno. Mentre si piegò per oltrepassare la porta un seno dondolò lieve dalla camicia aperta, la seguii svelto. Nel nostro nuovo rifugio il buio era totale ma lei pareva vedermi chiaramente e le sue mani correvano agili. Mi strinsi a lei e il morbido gonfiore dei suoi seni mi parve meraviglioso; di nuovo sentii che pronunciava quelle parole dal suono esotico, questa volta al ritmo di una cantilena.

Uscimmo in strada all'imbrunire. "Chi sei?". Pensavo, mentre mi accorsi di pronunciare: "Quando ci rivediamo?".
"Domani! Ti aspetto! Ora devo scappare, è tardi, ciao! Mi sembra incredibile!" gridò, voltandosi sorridente mentre correva a passi svelti sotto il porticato.
Notai le suole delle scarpe, chiare, dovevano essere nuove.

Scomparve dietro un angolo dopo aver urtato due giovani che si voltarono a guardarla, osservai i due profili sorridenti, qualche movimento delle labbra.

Rincasai dopo aver percorso a passi lenti le poche centinaia di metri che separavano il palazzo, nel cui sottoscala lei mi aveva portato, dalla casa in cui avevo vissuto fino a qualche anno prima. Attraverso il piccolo cortile vidi Francesco che si arrampicava sul tronco d'albero che mio padre gli aveva sistemato obliquamente in camera da letto.

Si arrampicava svelto e ridiscendeva con un balzo, ripeteva lo stesso gesto all'infinito, in maniera esasperante; si arrampicava svelto e ridiscendeva con un balzo, su e giù, su e giù senza posa.

Dalla cucina, posta sotto la sua camera, si udivano i tonfi sordi che faceva balzando a terra dalla sommità del tronco inclinato.

Salii i gradini di legno e giunto davanti alla porta della sua camera rimasi qualche minuto in ascolto: il rumore si ripeteva con regolarità cronometrica, tre o quattro passi svelti, lo scricchiolio della corteccia calpestata, il tonfo sordo e via di seguito.

Mi ricordai del pacchettino che la ragazza mi aveva dato. Lo scartai cercando di mantenere intatta la carta che lasciava intravedere delle parole scritte con una grafia molto allungata ed appiattita.

All'interno vi trovai una zampa di rana rinsecchita. La riavvolsi nella carta ed entrai in camera di Francesco. Si immobilizzò in equilibrio sul tronco e volse il capo verso di me, mi guardò con quel suo sguardo felino e sorrise. Mi parve quello di sempre, quello che avevo lasciato alcuni anni prima, quell'altro me stesso da cui ero stato costretto a separarmi.

Balzò a terra e si avvicinò a me con passi leggeri, quando mi fu vicinissimo ricordai i momenti in cui, in solitudine, solo lo specchio poteva ridarmi l'immagine del fratello con cui non avevo saputo dividere la vita.

Anche ora che la sua vita era quella di un animale in gabbia io lo guardavo da oltre le sbarre, e la difficoltà di accettare un altro me stesso era viva come sempre.

Mi guardava con le palpebre aperte in una sottile fessura e mi sorrideva, ero sempre io ma molto più magro, un animale in estinzione.

Gli diedi il pacchettino e rimasi a guardarlo: si arrampicò felino sul tronco e voltandomi le spalle tolse dal piccolo cartoccio la zampa di rana.

Si girò a guardarmi serio e con un gesto ampio del braccio accompagnato da un soffio mi fece capire che voleva rimanere solo.

In cucina non si udivano più i soliti rumori ritmici, quello che gli avevo dato pareva averlo placato, o per lo meno lo aveva immerso in uno stato più meditativo perché dal cortiletto lo potevo vedere sempre appollaiato sul tronco con la testa tra le mani.

L'indomani, nel pomeriggio, cercai sull'agenda di Francesco tra un'infinità di nomi, ne scelsi quindici femminili, cominciai a telefonare al primo numero e di seguito li provai tutti finché riconobbi la voce all'altro capo del cavo.
"Vediamoci ancora allo stesso posto", dissi.
"Sei tu? Ma... perché lì? Va bene! Quando?".
"Esco di casa adesso", risposi.
"Anch'io, ciao!".

Mi tuffai nel buio del sottoscala e súbito sentii le sue braccia che mi circondavano. Chi era? Perché mi aveva dato quel pacchetto e cosa significava quell'assurdo contenuto? Cosa era successo tra lei e l'altro me stesso?

Sei anni prima avevo scelto di allontanarmi da Francesco perché il peso della sua presenza mi schiacciava, con lui non riuscivo a vivere la mia vita pensando che fosse veramente la mia, avevo sempre l'impressione di fare qualcosa che non potesse avere nulla di esclusivo ma che fosse la copia di cose già pensate, magari a metà, dall'altro me stesso.

Un corpo spezzato in due di cui io ero la parte più inutile, così mi sentivo. Cosa fare di un mezzo corpo che non valeva nulla e di un banale frammento di mente? Dovevo andarmene per dimenticarmi dell'altro me stesso, per dimenticarmi che ero il doppione.

Francesco senza volerlo mi aveva fatto scappare ed ora che mi aveva fatto tornare mi cedeva il suo posto.

Stare con lei mi piaceva da pazzi: i suoi seni morbidi e le sue cosce erano deliziosi. Le accarezzai i fianchi, le palpai il sedere e poi allungai le mani dietro, tra le natiche, fino in mezzo alle cosce.

Improvvisamente si scostò da me con uno scatto.
"Chi c'è?" disse concitata.
"Nessuno", risposi.
"Chi sei tu? Cristo!? Non sei Francesco! Chi sei?".
"Calmati".
"Chi sei??".
"Perché... cosa ti salta in mente?".
"Non sei Francesco!!". Urlò.

Si rivestì in fretta e corse fuori. Per seguirla mi pizzicai il pene con la cerniera dei pantaloni, imprecai qualcosa e poi, sistemato alla meno peggio, mi gettai fuori. Mi parve di intravederla che correva a destra sul marciapiede. Corsi in quella direzione, era lei, stava andando a casa mia, a casa di Francesco.

Quando entrai era già dentro, immobile nel buio del cortile fissava la finestra illuminata al primo piano: Francesco stava compiendo il suo solito esercizio di animale in gabbia.

Mi fermai a pochi passi da lei, si girò con le lacrime agli occhi. "Perché?" disse. "Mi piacevi... mi sono lasciato andare...".
"Ma no!". Pianse. "Cos'ha lui? Perché fa così?".
"Non so. Non lo sa nessuno".

Corse verso le scale, la vidi in controluce entrare nella camera di Francesco. Dalla cucina non si udiva più il rumore dell'animale in estinzione.

La rividi poco prima di ripartire.
"Resti con lui?". Le chiesi.
"Resto con lui".
"Ma perché? Io sono come lui era".
"Ma lui adesso è così".

Era vero, io non ero mai stato come lui, e la differenza forse l'avevo sempre creata io, dal di dentro.

"Perché il pacchettino con la zampa di rana?".
"Pensi che lui te lo direbbe?".
"Lui sì. Lui non ha mai avuto paura di perdere. Io invece...".
"Tu potevi essere come lui".
"Lo so. Ma perché la zampa di rana?".
"Quando lo conobbi mi disse che aveva perso una persona, adesso lo so che eri tu, ed una sera ai giardini a sud trovammo un rospo ed una rana. ‘Vedi - mi disse - La persona che ho perso si reputava la metà spregevole e disgustosa di questa coppia di anfibi, e non capiva che quello invece ero io’. Raccolse quella rana per portarla a casa con sé, aveva per lui un significato particolare, ma attraversando la strada la rana con un guizzo gli sfuggì di tra le mani e cadendo sull'asfalto venne schiacciata da un'auto. Rimase solo la zampa e volle tenerla per ricordo ma io, rivedendola dopo molto tempo, gliela portai via dicendogli che era un'idea stupida tenerla. Ero intenzionata a gettarla ma poi esitai, e quando vidi che lui non si faceva più sentire volli scusarmi ma non riuscii a trovarlo, poi l'ho reincontrato quando... voglio dire ho incontrato te."
"Cos'erano quelle parole strane, quella cantilena che mi sussurravi alle orecchie nel sottoscala?".
"Questo io non te lo direi mai!".
"Ma me l'hai già detto".
"Non lo dicevo a te. Dimenticalo!".

In quel momento una specie di urlo struggente mi fece accapponare la pelle.
"È lui, devo andare!".
"Devo andare anch'io. Curalo!". Le gridai mentre saliva di corsa le scale.

Dal cortiletto la vidi seduta sul tronco accanto a Francesco che immobile si teneva la testa tra le mani.