Ho grande fiducia nel reale, penso che mi abbia dato molto nei miei film, nelle mie foto.
(Raymond Depardon)
La vita moderna, la personale del fotografo e cineasta francese Raymond Depardon, con trecento fotografie e due film, rappresenta la prima grande mostra mai realizzata da un artista che ha il merito di avere rinnovato, fin dagli anni Settanta, il mondo della fotografia contemporanea.
Presentata da Triennale Milano e da Fondation Cartier pour l’Art Contemporain, l’esposizione milanese, studiata con la complicità dell’artista Jean-Michel Alberola e la scenografia firmata da Théa Alberola, resterà aperta fino al 10 aprile 2022.
Oltre 1300 metri quadrati sono gli spazi della Triennale dedicati alla ricchezza della produzione dell’artista francese, suddivisi in otto serie fotografiche, due film e l’insieme dei libri che ha pubblicato.
Il percorso si snoda attraverso otto serie:
- Errance: (1999-2000) 30 fotografie in bianco e nero;
- Piemonte (2001): 17 fotografie in bianco e nero;
- Communes (2020): 15 fotografie in bianco e nero;
- Glasgow (1980): 19 fotografie a colori;
- Manhattan Out (1980): 45 fotografie in bianco e nero;
- New York N.Y. (1986): film in bianco e nero;
- La France (2004-2010): 44 fotografie a colori;
- Rural (1990-2018): 86 fotografie in bianco e nero;
- San Clemente (1977-1981): 56 fotografie in bianco e nero;
- San Clemente (1980): film in bianco e nero (estratto).
Raymond Depardon ha percorso il pianeta in lungo e in largo, ha scoperto campagne e città ma in ogni luogo che ha esplorato con l’obiettivo di una macchina fotografica o con quello di una telecamera ha cercato con discrezione e umiltà il rapporto con gli uomini e i paesaggi. Ed è una sua caratteristica costante che parte dalle sue prime immagini che l’hanno condotto in Ciad o in Libano, dal Nord al Sud del continente americano, nei deserti e nei Paesi in guerra, quando il fotogiornalismo era il suo modo di percorrere il mondo e confrontarsi con il reale.
Giovane reporter dell’agenzia Dalmas, nel 1966 è uno dei co-fondatori dell’agenzia fotografica Gamma e, una decina d’anni dopo, inizia a collaborare con Magnum, di cui è tutt’oggi uno dei membri fondatori.
L’esposizione conduce il visitatore in una successione di interrogativi che attraversano tutta l’opera dell’artista. Quali sono i soggetti che richiamano il colore e quelli per cui si impone il bianco e nero? Come evocare, in un’immagine, le trasformazioni di un paesaggio? Qual è il posto del fotografo e qual è la giusta distanza dal soggetto? Come distaccarsi dall’evento per rivelare i margini e i bordi? Cos’è la modernità in fotografia quando si percorre una zona rurale o si attraversano le strade di una città post-industriale?
Il dualismo – tra bianco e nero e colore, tra visi e paesaggi, tra terra avita e modernità – non diventa antagonismo, ma rivela l’attenzione verso il mondo, una curiosità in movimento, uno sguardo aperto sull’incontro della diversità della nostra epoca.
Una mostra gigantesca e straordinaria dove però manca spesso la presenza umana. Perché?
È una prima esposizione originale, realizzata espressamente per la Triennale. È una scelta volontaria l’assenza delle persone in questa mostra. Ho voluto staccarmi per la prima volta dalle storie fotografiche e dalle persone che ho fotografato per tantissimi anni come il Papa o la Regina Elisabetta o personaggi politici. Avevo voglia di ripensare e volevo capire se fossi in grado di fotografare paesaggi e se mi poteva interessare. Era una volontà di staccarmi dalla storia della fotografia in un certo senso. Era un po’ un fardello la storia della fotografia arrivato a questo punto e in realtà, dopo 40 anni, mi sono detto basta. Voglio percorrere un’altra strada e anche poter perdermi per sapere poi dove ritrovarmi. Ho iniziato con Errance e mi sono reso conto man mano che l’umano non era la mia priorità in quel momento. Ho girato per la Francia ma volevo separare la Francia dai francesi.
La prima serie Errance (1999-2000) rappresenta anche il filo conduttore dell’intero percorso, uno spostamento verso un altrove che è già lì, una continuità oltre le frontiere, una prossimità universale.
E con la serie Piemonte sviluppa un’arte di prossimità, sottolineando la continuità geografica e culturale transalpina.
E poi Communes che offre un’immagine fuori dal tempo di queste zone del Sud della Francia miracolosamente scampate a un progetto di estrazione di gas di scisto, in seguito abbandonato.
In Glasgow, il fotografo francese si concentra sui bambini, piccoli re delle strade, dei senzatetto, cogliendo, a colori, l’inoperosità di una città quasi monocroma.
Nello stesso anno, il 1980 attraversa New York con la Leica al collo e Manhattan Out raccoglie una serie di inquadrature audaci che evocano la solitudine urbana e l’indifferenza individualista.
La France è quella ordinaria e quotidiana delle “sottoprefetture”, mentre Rural descrive le campagne ed è il racconto della terra e degli uomini che la coltivano.
Per San Clemente, incoraggiato da Franco Basaglia, fotografa la vita negli ospedali psichiatrici di Trieste, Napoli, Arezzo e Venezia e realizza un reportage sconvolgente alla vigilia dell’adozione della Legge 180, nel 1978 che rivoluzionerà il sistema ospedaliero psichiatrico italiano.
L’esposizione riunisce anche le pubblicazioni di Raymond Depardon sottolineando l’importanza di quest’aspetto della sua opera e del suo modo di ripensare eternamente il proprio percorso fotografico.