In un mondo come quello attuale in cui molti ritengono ancora di poter far riferimento ad un sistema teorico rappresentato da un approccio riduzionistico, tipicamente determinato dal trionfo del segno e dell’astrazione scientifica che decretano l’imperare di una civiltà della disgiunzione, occorre potersi aprire ad una lettura “complessa” dei fenomeni così come ci viene suggerita dalla moderna epistemologia della complessità che invita a un pensare “aperto”, capace di creare continue articolazioni fra ciò che si presenta come disgiunto; invita a “far coabitare” dimensioni fra loro opposte aprendosi alla visione della totalità.
Ricordiamo, infatti, che il temine “complesso” dal latino complector significa intrecciare, abbracciare, comprendere, tenere assieme. Quindi rimanda a concetti di relazione e di organizzazione e non significa affatto “complicato”. Pertanto, il metodo di studio comporterà la necessità di considerare i fenomeni come dotati di una loro organizzazione che non può mai essere mutilata, semplificata, frammentata in modo innaturale, ma semmai deve essere in grado di tollerare il dubbio, le contraddizioni, la coesistenza di termini opposti.
In un mondo come quello attuale, che presuppone la realtà su fronti contrapposti: corpo e mente, materia e spirito, l’Ecobiopsicologia – quale punta d’avanguardia nell’ambito delle scienze della complessità - ricorda ad ogni essere umano l’importanza del riscoprire la propria identità più profonda, la propria anima intesa quale essenza che intermedia e intreccia il corpo e la mente, la materia e lo spirito, fino a riflettere, nella loro unità, l’universo intero; come citano molte tradizioni “l’uomo è un piccolo universo e l’universo è un grande uomo”. E, nel momento in cui l’anima acquista consapevolezza in sé stessa, si apre alla coscienza dell’unità del mondo. Chiaramente, nel momento in cui accogliamo le istanze dell’anima, occorre aprirsi su un terreno in cui il dialogo possa accadere e, affinché un dialogo accada, la prima domanda che sorge spontanea è: qual è il linguaggio da utilizzare? Qual è il linguaggio dell’anima? Il linguaggio dell’anima è costituito dall’immaginazione, dall’uso “dell’analogia vitale” e dei simboli, in grado di cogliere le relazioni fra “l’infrarosso” degli istinti e della materia con “l’ultravioletto” delle immagini archetipiche.
Nella conoscenza scientifica moderna l’analogia è un mezzo ancora oggi disdegnato dagli scienziati, nonostante sia stata scientificamente riabilitata dopo il 1950 dalla cibernetica del matematico e statistico statunitense Norbert Wiener, che ha dimostrato come essa sia un fattore di regolazione, uno strumento mentale che applicato correttamente permette di stabilire un confronto tra le “macchine naturali”, le “macchine umane” e le “macchine artificiali”. L’analogia, che vuol dire proporzione, è presente in tutti i nostri modi di conoscenza, ad eccezione del calcolo, ed è sempre controllata e corretta dal suo confronto con la logica della razionalità (Morin, 2017, pag. 103). Quindi, dal punto di vista delle neuroscienze, potremmo dire che il pensiero analogico è un pensiero dell'emisfero di destra perché connette in termini proporzionali esatti ciò che si presenta come ignoto nella psiche primaria dell'essere umano. Sappiamo che spesso l’analogia è stata messa in secondo piano perché, da un punto di vista scientifico, non porta a dimostrazioni validate collettivamente.
Purtuttavia, sono proprio gli scienziati come John Wheeler, uno dei giganti della scienza del ‘900 che, guardando a fondo nei misteri ancora irrisolti della meccanica quantistica, ha affermato che la nozione ultima secondo la quale possiamo comprendere il mondo non è quello di “materia” o “energia”, “spazio” o “tempo”, ma è la nozione di in-formazione. Il mondo e l'universo non esistono se non come in-formazione che ciascun elemento dell'universo ha sugli altri. Se l'universo alla radice è relazione e reciproca in-formazione, in termini psicologici esso sarà analogia, coerenza e sincronicità. Se pensiamo che, per quanto riguarda l’essere umano, risulta fondamentale la corretta applicazione del pensiero analogico ed il suo uso consapevole, quando entriamo in rapporto con la vastità della Natura, il pensiero analogico che è creato dalla nostra mente soggettiva deve spostarsi su un’altra modalità che l’Ecobiopsicologia definisce come “analogia vitale”, meglio ancora “omologia”; ciò significa che mentre il complesso dell’Io è analogico, il codice simbolico della Natura è omologico o analogico vitale.
Qual è la differenza? Il pensiero analogico è un pensiero concreto che unisce in termini di rapporto elementi che hanno la stessa finalità: per esempio una libellula ha le ali così come un uccello, ma questa è un'analogia incompleta perché il linguaggio della natura non si muove in questo modo. La natura costruisce omologie e mette in evidenza, per esempio, che l'ala di un uccello, strutturalmente parlando, è analoga alla mano dell'uomo, alla pinna di una balena. Quindi questa possibilità di ritrovare tra forme differenti, che svolgono però una stessa funzione, una sorta di antenato comune che li precede, viene definita omologia. Su questa dialettica fra analogia - analogia vitale e analogia - omologia, la scienza è già arrivata: basti pensare a tutta l'anatomia comparata dove l’omologia è fondamentale perché ordina in termini naturali le forme del mondo vivente.
Nel momento in cui la applichiamo alla psiche, vedremo che la zampa di un cavallo che corre, l’ala di un uccello che vola, la pinna di una balena che nuota, la mano di un uomo che opera, etc. Anche se apparentemente sembrano strutture differenti, sono riunite da un’identica funzione, ossia il movimento che avviene a differenti livelli del mondo naturale, nella terra, nell’aria, nell’acqua, nell’umanità. Ecco perché gli studiosi sono sempre stati affascinati dal tema della analogia e dell'omologia, perché era un modo indiretto di poter riassumere all'interno di un percorso ordinato gli elementi e le “forme formate” che la vita ha effettuato nella dimensione della natura e dell'universo stesso.
L’Ecobiopsicologia, quale disciplina che costantemente si interroga, si arricchisce e si evolve, si connota come la proposta e insieme l‘invito a costruire una scienza nuova in grado di integrare l‘aspetto “eco” (gr. ôikos=abitazione e per estensione il mondo che “abitiamo”) con il “bios”, inteso come corpo della natura e dunque dell‘uomo, e con la psiche considerata sia come psiche individuale che collettiva.
Nel corso degli anni l’Associazione Nazionale di Ecobiopsicologia (ANEB) – fondata dal dottor Diego Frigoli – ha promosso la realizzazione di una rivista online denominata Materia Prima che in diversi numeri ha proposto la riflessione su tematiche in apparenza opposte fra loro, come per esempio: origine-fine, inerzia-trasformazione, piacere-dolore, amore-odio, femminile-maschile, coraggio-paura, passato-futuro, e così via… e in questa dinamica in cui la mente egoica vorrebbe estrarre il vinto e il vincitore, giusto o sbagliato, buono o cattivo, bello o brutto, ecc. uno dei simboli più noti in ogni parte del mondo, il tao, li riunisce nel loro eterno movimento in una totalità che tutto abbraccia. In questo simbolo del tao, gli opposti, che sono uniti da un confine, da una linea sinuosa, da una linea spiraliforme che suggerisce un movimento, da una linea che continuamente si avvolge su se stessa, gli opposti diventano due aspetti fondamentali della vita che permettono il divenire, che permettono il processo evolutivo attraverso il continuo scambio e interdipendenza l’uno dall’altro.
L’Ecobiopsicologia insegna ad indagare gli opposti a partire dalla zona di confine fra l’area dello yin e dello yang, direbbero i taoisti, ossia ad esplorare quell’area intermedia dove non vi è più una distinzione netta tra i due opposti che, sul piano psichico, corrisponde al “mondo intermedio” delle immagini di Henry Corbin, e che l’Ecobiopsicologia riprende dalle riflessioni dell’antico zoroastrismo con il concetto di stato di mag. Quest’ultimo descrive una percezione del mondo intermedio che si manifesta tutte le volte che si riesce a unire in modo concordante il dato della realtà sensibile dell’“infrarosso” con la corrispondente immagine “ultravioletta”; lo stato psicosomatico che ne consegue è del tutto interiore ed è quello in cui accadono veri e propri “sortilegi” ove le emozioni corporee si collegano ad eventi mentali in un tutto unico.
Questo “mondo intermedio”, definito dai platonici persiani come âlam al mithâl o malakût corrisponde al mondo dell’irreale, del mitico, del meraviglioso. Esso è il luogo in cui si manifestano non solo le visioni dei profeti e dei mistici, ma anche le gesta delle epopee eroiche, delle liturgie con i loro simboli, dello “spazio” dell’orazione, come pure del mistero “esoterico” delle operazioni alchemiche (Frigoli, 2017). Ne emerge dunque, che nel processo di conoscenza della realtà, si deve distinguere fra l’apprendere ordinario che trae continuo vigore dall’acquisizione progressiva di nozioni (il sapere razionale) e il vero conoscere che conduce ad una progressiva certezza evidenziata nella tradizione islamica da tre stadi di conoscenza: il primo, chiamato “conoscenza di certezza” ('ilm al-yaqîn) paragonabile all’udire una descrizione del fuoco, il secondo è chiamato “occhio di certezza” (‘ayn al-yaqîn) paragonabile al vedere il fuoco, il terzo è chiamato “verità di certezza” (haqq al-yaqîn) paragonabile al venire bruciato che può essere assimilato allo studio dei fenomeni complessi che di fatto trasformano colui che li affronta, perché la loro conoscenza implica una strategia del pensiero circolare e sincronica, e non solo razionale, ciò significa che colui che è riuscito ad entrare in rapporto con il sentirsi bruciato, ha compiuto il suo cammino per quanto riguarda la sua esperienza conoscitiva. Pertanto, attraverso lo stato di mag l’Io travalica i limiti dello spazio e del tempo dell’esistere quotidiano e la coscienza “immagina” la realtà non solo attraverso i dati sensibili ma anche attraverso i dati del sogno, del mito, dell’emozioni, etc., alimentando così la facoltà superiore dell’anima che è quella dell’intuizione. Ciò significa che il luogo profondo dell’irrazionale diventa “immagine” e permette il passaggio dall’invisibile al visibile, favorendo così quella trasformazione che, a livello individuale, accade quando l’essere umano si orienta nella direzione della scoperta del sé psicosomatico, orientandosi nella direzione di una progettualità ben più vasta di quella offerta dalla ristretta visione egoica.
L’Ecobiopsicologia, recuperando gli antichi insegnamenti della filosofia ermetica e degli alchimisti, integrandoli con le recenti scoperte della scienza e della psicologia, invita a “seguire natura”, cioè ad essere capaci di accogliere nel corso del proprio cammino di ricerca anche gli aspetti più sottili delle leggi di natura, calcando le sue stesse “orme”, quali passi simbolici di un progressivo, costante, paziente, umile cammino individuativo. Questo “processo” che ritrova nel suo sviluppo la possibilità di procedere verso la costruzione di una personalità consapevole delle proprie risorse e delle proprie aspirazioni, in grado di integrare la parte cosciente con quella inconscia, capace di esprimere se stessa nella vasta rete di relazioni nota con l’espressione la “rete della vita”, permette di evolvere da una visione “ego” riferita ad una visione “eco” sino a diventare sempre più coscienti della nostra appartenenza ad una comunità ben più vasta: tutti noi siamo parte integrante della “famiglia terrestre” e, in quanto tali, dovremmo comportarci come fanno gli altri membri di questa famiglia – piante, animali, microorganismi – che formano quella vasta rete di relazioni ove noi dovremmo essere in grado di sviluppare la nostra progettualità, liberare la nostra creatività senza però interferire con la natura della vita.
Se la “prima materia” rappresenta la massa oscura, il caos primordiale degli elementi primari che non sono ancora diventati ordine, la “” nella teoria e nella pratica dell’alchimia è una trasformazione della “prima materia”; essa rappresenta la trasformazione nella luce “sottile” di una coscienza che va via via amplificandosi. Il ricercatore è dunque stimolato a cimentarsi in una sorta di arte “intermedia”, una vera e propria arte della metamorfosi che non disdegnando il rigore razionale dell’emisfero di sinistra, lo tempera con l’immenso bagaglio conoscitivo e la sensibilità intuitiva dell’emisfero di destra, cercando di rendere tangibile, sensibile, il frutto, l’oro delle trasformazioni di Natura.
La ricerca dell'anima è sempre il frutto di un percorso individuale in cui il pensiero razionale si arrende "consapevolmente" alla scoperta dell'intuizione. Per accedere a questa scoperta occorre che la mente sappia esplorare i segreti dello stupore e della meraviglia, che consistono nella sospensione della mente da ogni giudizio e da ogni preconcetto. Solo quando la mente giunge a questa condizione è possibile accedere alla comprensione di ciò che gli alchimisti chiamavano la “materia prima” delle immagini, costituita da quell'humus fatto di sensazioni e rappresentazioni, in cui il corpo e la mente dialogano fra loro. In quel momento la mente individuale si mette in relazione con la propria storia, e può accedere all'infinito.
Ecco, dunque, che l’augurio per il ricercatore, è che l’artista, nascosto nella sua anima possa seguire la propria via, rappresentata, per tutti i cavalieri erranti, dal mantenersi in tutta umiltà sempre fedeli d’amore. In altri termini, nell’esperienza sincronica che caratterizza la vita di ogni essere umano, accadono spesso eventi che ci sorprendono e che destano in noi quella sorta di stupore in cui l’Io, sospendendo il proprio giudizio, si trova a confrontarsi con la progettualità del Sé. In questi momenti che possono essere più o meno vasti, a seconda della importanza della sincronicità in azione, l’essere umano impara a modificare l’asse della propria vita, a percepire un’esigenza interiore che non sempre coincide con le scelte e i desideri dell’Io, ad andare oltre i bisogni entro i quali imprigiona la propria esistenza, a comprendere che già in questa vita esiste un legame con l’infinito ma, affinché tutto questo accada, come diceva Jung, l’individuo deve avere “la facoltà morale della πιστς, della fedeltà” (Jung, 2013, pag. 13) e la nostra vita deve divenire una vera propria dichiarazione d’amore da intendersi nel suo più profondo significato etimologico α-mors, cioè senza morte, immortale. Amore inteso come quel “fuoco” interno, quella forza che può fare della vita non un episodio ma parte di un tutto in continuo divenire che rappresenta l’esigenza concreta di trasformazione dell’essere umano in quanto consente il risveglio della coscienza superiore nella direzione della scoperta del Sé.
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