Certo, come tutti, anche Meschinello Straccioni, vale a dire il sottoscritto, ha provato a combattere (negli anni buoni) per imporsi d’autorità alla vita.
Ma una volta constatata la mia totale idoneità alle disfatte incondizionate, mi era sembrato ridicolo proseguire e intestardirmi cocciuto in quelle ferite (aggravate e plurime) che le sconfitte continue non mancavano mai di imprimere ed infliggere alla mia volontà… davvero stanca e priva di vittorie.
Meglio allora, molto meglio arrendersi: per demandare in toto il peso contundente dell’esistenza ad una creatura nuova, che, risparmiandomi il compito opprimente di soffrire in prima persona, potesse in un modo o nell’altro rappresentarmi (e “portarmi avanti”), lottando al posto mio.
Insomma, molto meglio ricorrere ad un figlio: ad un Meschinello di ricambio che mi sostituisse e subentrasse, rendendomi inutile superfluo sovrannumerario. E degno solo di scomparire. Magari durante un adeguato suicidio, liberatorio e intenzionale, che mettesse fine (per sempre!) a me stesso. O, quantomeno, al mio dolore.
Mi serviva però una qualche moglie. Conscio che, in quel burrascoso 2020, sarebbe stato assai difficile trovarla, vista la situazione complicata e drammatica delle nubili, tutte in preda, allora come adesso (e ovunque, addirittura), ad una pazzia diffusa ed omicida, avevo iniziato a trastullarmi col desiderio sleale di corteggiare e blandire a mio favore la prima femmina già sposata che avessi incontrato e conosciuto. Solo che, mi accorsi (riflettendo a piene mani sul proposito criminale e donnaiolo che nutrivo), la mia irreversibile identità di fallito estremo e terminale, lontano da redditi sicuri, ma non da una cocente povertà, non avrebbe mai convinto nessuna ad abbandonare il marito per scegliere me. Temevo insomma che, tentando di sussurrare (per esempio, alla portinaia del vecchio stabile in cui abitavo): “Lascia oh fulgida il consorte e fuggi in seconde nozze, via con me”, mi sarei sentito acerbamente rispondere: “Vattene, pezzente qualunque!”.
Abbacchiato e annichilito da simili frasi (immaginarie, sì, ma inevitabilmente concrete, non appena mi fossi davvero spinto ad improvvisarmi cascamorto) stavo per rinunciare, tramite suicidio non più liberatorio e anzi disperato, al figlio tanto programmato, quando una sera il governo mi venne in aiuto, suggerendomi un’idea miracolosa.
Dal televisore acceso nel mio salotto “Abbiamo varato il Progetto Maternità” esclamò la bilaureata dottoressa Mattiola Fanfara, parlando proterva e dettagliata al conduttore del TG (il rinomato Pancamo Pietri).
“Siccome qui, nelle patrie terre dell’alma Italia” – aveva subito pontificato la coltissima donna – “le assassine sono ormai un mare esorbitante (cioè fastidiosamente troppe), l’esecutivo e il capo dello stato hanno deciso di affidare agli scienziati (e, guarda un po’, anche e soprattutto alle luminari come me) una missione di rilevanza nazionale: arginare efficacemente la sguaiata crudeltà delle serial-killer”.
“Ah, e quale soluzione pensate di adottare?”, s’informò il Pietri, con garbo premuroso ed efficiente.
“Silenzio!” – se la prese a male la Fanfara – “Non vede che sono una giovane, attraente e brillante psichiatra, persino biologa se non le basta, nel pieno esercizio delle sue spiegazioni e delucidazioni? Quindi non tollero assolutamente interferenze di sorta, o maschilistiche interruzioni da parte di chicchessia!”.
“Mi perdoni” – s’umiliò gentilmente il Pietri – “La mia, oh geniale e graziosa erudita, non era che una cortese e sommessa sollecitazione a tutto vantaggio dei cari e simpatici ascoltatori che, le garantisco, sono sinceramente impazienti di… ”.
“Di farmi fretta, impedendomi una chiara e ordinata esposizione?”.
“No! Di pendere devotamente dalle sue labbra, stavo per dire, proprio come l’anello dal naso dei Bantù africani”.
“Sul serio? Beh, suadentissimo Pietri, quand’è così continuerò… Ecco, per riallacciarmi allora al discorso di prima, rivelerò ad esempio che noi scienziati abbiamo varato il “Progetto Maternità”, ossia un programma di recupero, mirato a reinserire nella società le maniache omicide”.
“Senti, senti… ”.
“Si tratta in sostanza, oh celebre Pietri, di reperire qualche generoso e prolifico cittadino scapolo che, ansioso di trasformarsi in marito responsabile e provetto, accetti di fecondare, mediante acconce ed incisive pratiche sessuali, quelle spietate e sanguinarie delinquenti che, oggigiorno, non si fanno scrupolo di infestare il nostro Paese e che, com’è atrocemente noto, derivano dagli sciagurati fenomeni, messi in circolazione ultimamente dall’odioso effetto-serra”.
“Che in questi anni (voi amici a casa lo sapete benissimo)” – s’interpolò il Pietri – “è peggiorato a iosa, innalzando le temperature e riscaldando gli inverni”.
“Col risultato racchio e mostruoso” – completò la Fanfara – “che il traffico mondiale di pellicce e stole pregiate è andato via via calando, sino a crollare ed estinguersi tragicamente”.
“Morale drastica” – commentò il Pietri – “se gli animali son salvi e gli ecologisti esultano sfrenati (lascivi di sorrisi e felicità), le donne al contrario piangono. Distrutte e disperate”.
“Oppure, stravolte e irritate allo spasimo dalla scomparsa (non nelle foreste, ma ahimè nelle boutique) di visoni e zibellini, cedono alla pazzia più feroce e barbarica, cominciando a squartare di lena e di coltello”.
“Ah, bricconcelle scatenate!”, poetò il Pietri.
“In realtà, però” – riattaccò la Fanfara – “l’ondata anomala di follia ha invaso ed allagato soltanto l’universo delle nubili. Perché le altre (le coniugate) son riuscite a mantenersi sane e savie (e a strapparsi dal cuore il ricordo lancinante delle dolci pelliccerie d’un tempo) grazie alle serene, consolanti gioie familiari”.
“Perciò, mi corregga se sbaglio, l’obiettivo del “Progetto Maternità” è somministrare una famiglia, terapeutica e calmante, anche alle nubili ammattite e ob- (scusi il calembour) –nubilate”.
“Per l’appunto, giocoso Pietri. Senza contare che, quando l’opera benefica e seminale dei galanti cittadini che stiamo cercando, avrà raggiunto il suo scopo, fondando e distribuendo in uteri e ventri piccole vite in embrione, di certo le nuove madri non mancheranno di diventare all’istante più femminili, buone, amichevoli, affettuose e zuccherine”.
“In una parola, meno propense a uccidere e scannare”.
“Esatto! E la loro riconquistata dedizione al bene le redimerà, tramutandole in brave ragazze, o giù di lì, pronte ad assumere un ruolo pacifico e costruttivo, in seno al consorzio civile”.
“E non agrario, s’intende. Ma una curiosità, ancora: la polizia, è ovvio, si sta nobilmente e nubilmente prodigando per catturare ed internare in carcere tutte le zitelle micidiali, così che possano sottoporsi al “Progetto Maternità”. Però, e qui arriva finalmente la mia domanda, quelle più birichine, che insistono a nascondersi ed eludere e deludere l’arresto, quante vittime stanno mietendo attualmente, al dì?”.
“Dalle cento alle centocinquanta, secondo le stime ufficiali e maggiormente attendibili”.
“Capperi! In questo nostro mondo di massacri in gonnella, che (me lo lasci sbraitare!) man mano uccidono, spopolano e dunque rovinano l’umanità, non c’è più limite alle donne!”.
“Beh, non sia maschilista, adesso”, si scandalizzò la Fanfara.
“Son solo terrorizzato, le assicuro”.
“Non c’è motivo, affannoso Pietri. Dal momento che, tra le muliebri esponenti della razza umana, esistono anche fascinose creature tipo me, che sono una bella (ha notato, per inciso, i miei sinuosi capelli rossi?) e balda scienziata, di specchiata integrità mentale”.
“Ah! Dote preziosa indubbiamente. Dovuta, suppongo, (oh splendida studiosa) ad un prospero e saldo matrimonio…”.
“Per niente: sono single”.
“Ohibò! E dunque… a rischio di pazzia!” – tremò il Pietri – “Bene! Intervistarla è stato un allegro, vivido piacere: mi creda e se ne vada”.
“Perché mi sbologna, oh sbrigativo Pietri?” – protestò la Fanfara, con impeto sindacalista e appassionato – “Mi sembrava, invece, che volesse corteggiarmi”.
“Infatti, mia donzella, ma con l’aria che tira è più prudente e salutare sedurre esclusivamente le maritate. Per cui, mia nociva fanciulla, abbia la decenza di eclissarsi celermente e di non appestarmi oltre la pazienza e gli occhi con la sua minacciosa presenza. Insomma, sparisca” – tagliò corto il Pietri – “evacui il mio sguardo e se ne torni alla svelta dal suo “Progetto Maternità”. Un progetto” – concluse – “che io, celibi all’ascolto, vi consiglio e vi caldeggio solo per finta e per far contento il governo… che si è comprato (con gran sperperio di danaro) quest’edizione speciale, e terminata, del TG. Buonasera”.
Ottima sera! Meravigliosa, anzi! Mentre il canale su cui mi ero sintonizzato per assistere al TG, continuava a trasmettere immagini a vanvera (pubblicità soprattutto) sentii risorgermi dentro l’entusiasmo e la fiducia. Il futuro pregno di bambini che, osservando lo schermo, avevo potuto intuire e dedurre dalle voci televisive della scienziata e del Pietri, mi irruppe nell’anima e nel cervello, pregandomi con successo di dimenticare in un angolo, incompiuta e “inattuata”, la rustica ghigliottina artigianale che mi stavo fabbricando. E la cui mannaia, già affilata per bene, avrebbe dovuto troncarmi di netto il collo e la vita.
“Risparmiati e concediti la grazia” - si raccomandò il futuro, bloccando agilmente le mie mire suicide. “Perché, se è vero che irretire le donne sposate è per te un’impresa ardua e insormontabile, data la tua forte indigenza, è anche innegabile che d’ora in poi le nubili saranno più abbordabili. Voglio dire: prima tu, caro Meschinello, cercando di attaccar bottone con loro, allo scopo di instaurare rapporti amorosi e riproduttivi, avresti rischiato al cento per cento di incappare in un brutale rifiuto a pugnalate e di andare, quindi, a vuoto e in bianco. Ma adesso molte delle teppistelle da marito son finite in cella, in vista del “Progetto Maternità”. Nel cui ambito (è lecito presumere) gli approcci saranno protetti e sorvegliati. Insomma, secondo me, gli scapoli che il governo si prefigge di reclutare, verranno di sicuro tutelati, in un modo o nell’altro, e aiutati ad impalmare e ingravidare infallibilmente le truci dame incarcerate. Non lo pensi anche tu?”.
Il ragionamento “futuristico” mi illuminò da cima a fondo, tanto che la lama della mia ghigliottina sperimentale ed arrangiata si trasfigurò da mannaia in manna. Candida manna di speranza, che m’inculcò nel corpo e nelle azioni un fervido fiume di energie scattanti.
Fu così che, il giorno successivo al TG del Pietri e della Fanfara, mi precipitai a raffica verso la prigione più vicina (la “Phil Di Ferro”, dal noto mafioso italo-americano), per consacrarmi interamente al “Progetto Maternità”.
Seduto al comando della sua scrivania presidenziale, il direttore del penitenziario (“Professor Sweeney, per tiranneggiarla”, si era presentato scherzando) mi guardava sorridente, smentendo (almeno in apparenza) la fama che aveva di despota incallito. Intanto le sue parole sembravano proseguire, per coronarlo armoniosamente, il discorso del mio futuro.
“Lei” – mi stava dicendo il direttore, mentre io, emozionato di essere nel suo ufficio, ascoltavo religiosamente in piedi – “ha dovuto riempire un mucchio rutilante di carte e moduli, esibire un numero gigante di documenti e patentini, passare ingombranti esami psicologici e medici. E proprio quando credeva che non sarebbero cessati mai più, i preliminari burocratici son terminati (in un “modulo” o nell’altro) indicando, come son lieto di annunciarle, che lei è idoneo”.
“Bene!”, festeggiai.
“E ogni idoneo” – ricominciò lo Sweeney, divertito dal mio sussulto di vittoria – “ha il diritto di incontrare una delle nostre galeotte. A lei, per esempio, abbiamo riservato Regina Cieli, che è una ragazza assai biondina e davvero bisognosa di una famiglia”.
“Eccomi, son pronto!”, declamai eroico, con una mano sul cuore (ero simile, in tutto e per tutto, ai calciatori, quando cantano l’inno nazionale).
“Dov’è la signorina?”, domandai poi con impeto, sbirciandomi all’intorno.
“Non qui, sicuramente” – mi spiegò il direttore – “Ma nell’unità abitativa C-23. Ossia una cella d’isolamento, tenuta sotto controllo da un sistema computerizzato di telecamere, attraverso il quale i miei uomini (agenti e secondini) vigileranno attentamente, caro Straccioni, sul suo intimo tête à tête con l’affabile maniaca che le abbiamo destinato”.
“Ho capito! Ho capito, per filo e per segno”, esultai, mentre due guardie mi prendevano in custodia per scortarmi fra le braccia (o meglio fra i pugni, come constatai di lì a poco) della squinternata Regina Cieli.
Ella, nel vedermi entrare (romanticamente equipaggiato di fiori e cioccolatini) nel suo cubicolo privato, s’avventò subito (furiosa) sulla mia sguarnita, pacifica persona.
“Si calmi!” – le gridai – “Son qui per guarirla, sa, non per farle del male!”.
Ma lei non rispondeva, non profferiva; ed anzi mi tempestava di dolori precisi e categorici, tutti veicolati da cazzottoni battaglieri e ben piazzati, che speronavano con gran mira il bersaglio (la mia faccia o lo stomaco), cedendo talora il posto a calcioni coreografici in stile karate.
Dopo cinque fitti minuti di violenza continuata e acrobatica, la mia carne, dei dolori suddetti, ne aveva già riportati di larghi e consistenti. Per questo, urlando a squarciacielo richieste d’armistizio come: “Aiuto! Aiuto! Accorruomo!”, iniziai a protendere verso le telecamere gesti imploranti e convulsi.
Le mie suppliche suscitarono un’irruzione in massa dei secondini. E mentre in quattro si impegnavano a tener bloccata Regina Cieli, che dava in escandescenze tenaci, gli altri mi trascinavano via dalla cella, svenuto ed ammaccato.
“Vorrei, se possibile, un tipetto più malleabile”, commentai, una volta riemerso dal knock-out totale in cui la gragnola di botte subite mi aveva abbattuto e abbioccato.
“D’accordo”, mi accontentò il secondino-capo, conducendomi di getto davanti ad una nuova cella, di cui aprì a chiave l’inferriata pesante.
“Prego, signore, Priscilla Cariddi l’attende”.
La temibile fanciulla, contrariamente ai miei terrori sfegatati, non m’accolse aggressiva, a suon di sberle o altro. Le mazzate, con mia vispa meraviglia, latitavano invisibili, impalpabili e invece s’imponevano frequenti i virginei singhiozzi che in quel momento scuotevano, tristi e melanconici, le spalle delicate dell’esile assassina.
Sentendo i miei passi avvicinarsi, ella, rannicchiata a piangere in penombra, trasalì bruscamente e si girò verso di me con un guizzo così intenso, che le lacrime (come scintille d’acqua, come stille di cristallo) le volarono via dal volto e dalle guance, sparpagliandosi a raggiera nell’aria semibuia. Al fioco riverbero di una lampadina appesa al soffitto, brillarono per un attimo, simili ad un ventaglio luccicante.
“Vossia” – pigolò fissandomi, nervosa di speranza, la sicula Priscilla – “àve mica, gentimmente, una pelliccia da regalammi?”.
“No, e me ne rammarico, picciridda adorata” – mi lagnai di rimando e di rimorso – “Ma giuro, onorata picciotta, che le sarò ugualmente di salvezza e di sollievo”.
“Oh, com’è buono vossia”, mi approvò a furor di denti, dispiegati in sorrisi angelici, la sognante Priscilla. Incoraggiandomi, col suo fare tenero e soave, a delirare in tono indomito e vorace: “Lasci ch’io l’abbracci a me, o inestimabile isolana!”.
“Talìa che affettuoso!” – esclamò, densamente colpita e impressionata, la ragazza di Trinacria – “Ma cetto, ma cetto: si accomodasse pure. Tanto più che anch’io ho motta vogghia di stringerla…” – e qui stranamente la voce di Priscilla cambiò dal vezzoso-invitante all’isterico-ridanciano – “… per il collo! Ahahahah, per il collo! Sì, proprio per il collo! Ihihihih!”.
Ciò sghignazzato, la morbosa omicida allungò una mano vampira, iniziando fulminea (con forza pimpante, compiaciuta, opprimente) a strozzarmi la gola indifesa. E mentre morivo sospiroso e ansante fra le dita dell’amata, i secondini piombarono in soccorso.
Avevo commesso due fallimenti gravi e già mi trapelavano nel cervello folte infiltrazioni di rinuncia e avvilimento. Per fortuna a inibire quest’assenza pronunciata di fiducia, e a convertirla in un flusso rinato di vigore, intervenne il professor Sweeney, che mi convocò nel suo ufficio per esortarmi e spronarmi, paternamente, a metodi d’approccio meno sbagliati e deleteri.
“Al bando i cioccolatini o le frasi melense” – mi rimproverò – “Lei, come risulta dalle registrazioni dei suoi tentativi con Regina e Priscilla, adora sdilinquirsi in moine scipite e blaterare robacce stucchevoli. Il che è senza dubbio un errore!”.
“Non esageriamo” – cercai di giustificarmi – “Avrò ardentemente affermato, una o due volte (adesso non ricordo bene): “Lasci ch’io l’abbracci”. Però non mi sembra che…”.
“Ragioni!” – m’interruppe il direttore – “Anzi ragiona” – si corresse dopo un istante – “perché è come ad un figliolo che desidero parlarti. Vedi, per socializzare con le ragazze (e figurati, quindi, con le ospiti del mio carcere) ci vuole più tattica, più strategia. Insomma, è necessaria una tecnica più astuta, sottile, psicologica. E io che la conosco, potrei anche insegnartela, se credi”.
“Credo, sempre credo, fortissimamente credo!”, ribollii mistico, in un rigurgito di fede.
“Perfetto. Non te ne pentirai! Dal momento che è una tecnica… straordinaria!”.
“Ma come si chiama, questo prodigio?”, m’infervorai.
“Jung-fu!”.
Si trattava di una psicolotta marziale del misterioso e meditabondo Oriente. Come scopo principale aveva quello di irrobustire la mente e l’intelligenza. Ed era talmente efficace, che in poche giornate e lezioni diventai un genio impeccabile.
“Ora” – decretò il professor Sweeney, al termine dei brevi esercizi e allenamenti – “sei pronto, Straccioni bello, a ritentare la sorte e le pazze indemoniate!”.
“Vado, maestro!”, esclamai impavido.
Siccome Priscilla e il suo dolce pianto mi stazionavano (nella memoria) indelebili e piacenti, fu da loro che ritornai. Naturalmente dovetti subito combattere e schivare gli assalti ripetuti, furiosi e, per così dire, molto animati della sulfurea e maniaca fanciulla. La quale, appena mi scorse sulla soglia della sua unità abitativa, “Minchia, ma di nuovo cà?”, berciò infastidita.
“E senza pellicce pure oggi, scommetto, arruso fetuso e Guttuso che non sei autro!”, aggiunse scatenata, lanciandomi con la mano non un bacio, ma un pugno. Un fustacchione di pugno! Ben presto seguito da una congerie di agili cazzotti, spietatamente indirizzati a me.
Per evitarli, mi chinavo istantaneo o zigzagavo rapido sul tronco, riflettendo (frattanto) su come reagire e scagliarmi al contrattacco. Il mio obiettivo? Semplice: sferrare abilmente, servendomi del cervello e della voce, un’acuta mossa di jung-fu, con la quale colpire alla psiche la mia avversaria, per ammansirla, e poi sposarla, irresistibilmente. Ma perché l’altare non rimanesse allo stato brado di speranza vaga e irrealizzata, dovevo analizzare la situazione con grande scrupolo, adesso, e organizzarmi una buona rappresaglia anti-Priscilla. Sì, un valido ammutinamento, capace di domare in fretta l’imbestialita giovincella, con tutti i suoi montanti esagitati e virulenti.
E siccome avevo notato, con immediata prontezza di pensieri, che la smodata damigella, distratta dalla rabbia d’avermi visto entrare privo di pellicce nella sua cella, aveva cominciato a darmi più confidenza rispetto al nostro primo colloquio, passando nei miei confronti dal lei al tu, deliberai di far leva proprio su quella rabbia. Che, bieca e pugilistica com’era, m’ispirò un’offensiva verbale jung-fu, vincente e proficua.
“Priscilla” – iniziai a manovrare d’encefalo e di lingua – “la sua ira, che è, si fidi, un ammasso straripante di ferocia e legnate contro gli altri (e specialmente me), dimostra che lei, come del resto qualunque assassino, ha in sé cupi istinti omicidi. Mentre io per parte mia (glielo confesso in estemporanea) detengo marcate aspirazioni suicide. …Capisce?” – ripresi di filato, dopo un jab scansato di misura – “Significa che sposandoci (ed è appunto per chiederla in moglie che son qui, Priscilla) ci completeremmo a vicenda! E ciò, ne stia certa, favorirebbe lei, soprattutto. Perché, completata dal nostro matrimonio, dalla nostra Santa unione (od Alleanza), diventerebbe l’assassina perfetta: ossia quella che (essendo dotata anche di inclinazioni suicide) è in grado di infliggere la morte non solo agli altri, ma persino a se stessa”.
“Mizzica! Fantastico iè!” – capitolò d’un subito Priscilla, cessando in un amen le sleppe e innamorandosi, bruscamente, del sottoscritto – “Quindi, maritandomi con tia, mi eleverò a serial-killer modello, a quintessenza sublime dell’omicidio?!”.
“Hai indovinato, mio tesoro!”, trionfai di gioia e batticuore, mentre (emozionato sin nei pronomi) rivolgevo alla mia fidanzata, di fresca acquisizione, non più il “lei” … ma un “tu” novello e sincero, che già preludiava a melati esiti nuziali.
Nel carcere governato a menadito dal professor Sweeney, la cappella liturgica era addobbata a regola d’arte e l’intero apparato (prete, organista, anelli) era ormai pronto per il connubio, per la celebrazione del rito, che avrebbe reso me e la mia mascalzona prediletta un’unica persona, una vita sola. Eran trascorsi nove o dieci giorni dall’incontro decisivo, il secondo, con Priscilla, e in attesa che la cerimonia (programmata per le tre del pomeriggio) iniziasse coniugandoci, noi due, promessi colombi, chiacchieravamo argentini (fra scherzi e tenerezze) seduti lì su di un banco, in fondo all’intima chiesetta della prigione.
“Tu sei l’incubo dei miei sogni” – tubavo, felice in volto, all’orecchio della mia pazzerella, scombiccherata ed energumena – “Cioè l’incubo che vorrei fare ogni notte e per sempre!”.
“Io invece” – cinguettò lei, in risposta – “vorrei evadere un momentuzzo. Ci avrei davvero motto piacere!”.
“Pe-perché?”, balbettai in domanda, alacremente preoccupato (e nel frattempo la gioia di un attimo prima, mi emigrava dai lineamenti in orda compatta!).
“Picché così” – macchinò la scriteriata – “mi recherei svetta svetta all’aeropotto che c’è cà nelle vicinanze, mi arrubberei lestamente un apparecchio, nonché ritornerei indietro (a kisto punto), per convolare (in picchiata) a giuste nozze cu’ tia”.
“Calmati, biscottino” – cercai d’interloquire – “O meglio confettino, dato che stiamo per sposarci. Non credi che sarebbe più opportuno lasciarle perdere, eh? Le missioni-kamikaze?”.
“Meschine, e che motivo c’è?!” – frignò Priscilla – “Sugno utili, sai? Infatti” – ragionò a braccio, con lucidità mattoide e strampalata – “schiantammi sul penitenziario mi consentirebbe di sperimentare, applicare e subito collaudare i miei nuovi istinti suicidi”.
“Quelli che ti porto in dote io, intendi?”.
“Ma cetto”.
“Bacetto?”.
“No: ma cetto”.
“Machetto?! Guarda, pasticcino, che io non sono un piccolo maschio! Anzi!”.
“Minchia di mare, di montagna, di cielo, di collina e di villeggiatura in campagna!” – s’inquietò la mia stizzosa conterranea di Pirandello – “Volevo dire: “ma sicuro, ma si capisce”!”.
“Ah!” – m’illuminai – “Adesso è chiaro! Ti chiedo scusa, bignoletta mia”.
“Sei peddonato. Non ti angosciari”, mi consolò Priscilla, alzandosi elastica dalla comoda panca su cui eravamo.
Temendo che stesse avviandosi a mettere in pratica il disastro aereo che nutriva in mente, la afferrai all’impronta, consigliandole di non allontanarsi.
“Tanto le vocazioni suicide” – argomentai paziente al suo indirizzo – “le acquisirai solo col matrimonio, come ti ho già spiegato. Per cui, ora come ora, non avresti proprio nulla da sperimentare o collaudare”.
Persuasa dalla mia improvvisata e repentina elucubrazione jung-fu, la siciliana volante si rassegnò a non decollare. E quando alle tre marciarono per l’aria le note d’arancio, composte dal gaio Mendelssohn, io incoronai con una fede dorata l’anulare di mia moglie. Ah, sì!
I signori Straccioni conducevano un’esistenza ritirata. Segregata, potrei dire. Da reclusi. Però la nostra coppia, in fin dei conti, funzionava. Perché la vita che intercorreva fra me e la mia cerberina non era affatto noiosa. Influenzata com’era dal “Progetto Maternità”, che esigeva il concepimento e la procreazione, si suddivideva e frazionava in sedute obbligatorie, e quotidiane, di sesso scientifico e corale, tutte “ambientate” nel carcere di Priscilla e, per la precisione, nel massiccio “Salone degli amplessi”. Un locale vasto e rimbombante, in cui un ampio soppalco panoramico si stendeva lungo la parete nord, costituendo lo spavaldo loggione di comando da cui il professor Sweeney sovrastava e coordinava la situazione, quando (ogni mattina alle undici) una frotta di ex-scapoli (accompagnati dalle relative e dolci metà) faceva il suo ingresso, diramandosi immediatamente in file taciturne e geometriche. Nel frattempo, anch’essi allineati e razionali, bivaccavano sul pavimento (l’uno accanto all’altro) tanti materassini da palestra appositamente comodi e accoglienti, che dovevano fungere da lettucci o mini-alcove.
“Che le mogli si sdraino per prime” – soprintendeva il professor Sweeney, dagli altoparlanti sparsi nel salone – “Che i mariti si aggiungano poi”.
E mentre, in uno spogliarsi progressivo e generale, uomini e donne affilavano le gonadi, preparandosi alla comunione dei corpi, il professor Sweeney si appoggiava maestoso alla ringhiera metallica del suo soppalco regio, gettando uno sguardo cumulativo (e onnicomprensivo) alla calca dei coniugi. Che, di minuto in minuto, diventavano sempre più nudi e in attesa di coito.
“Scapoli che avete trovato, qui da me, un matrimonio ed una partner” – sentenziava allora, solenne e cattedratico, il direttore del penitenziario – “vi aiuterò, adesso, a consumare. E a dare un lieto fine, fertile e riproduttivo, al vostro sperma genitale”.
Queste parole eran seguite immancabilmente da una pausa, da un breve silenzio ad effetto, che le femmine, toltesi fra lievi fruscii gli ultimi indumenti, utilizzavano per coricarsi supine sui rispettivi, ginnici giacigli. Dinanzi ai quali i maschi, svestiti a pennello, si collocavano fermi ed in piedi.
“Bene” – approvava lo Sweeney, il cui cognome suonava curiosamente simile ai maiali – “Possiamo senza dubbio iniziare”.
E con piglio vocale (squillante e autoritario) si metteva di foga a sbraitare (“Op, op, op”, strillava) cadenze militari. Esse, preposte a dettare e regolare (non solo al “Phil Di Ferro”, ma in tutte le carceri d’Italia) il ritmo di quegli amplessi che il “Progetto Maternità” (peraltro operativo ancor da poco) promuoveva e instaurava fra le assassine e i loro recenti sposi, eran state con cura e a puntino studiate dalla biologa Fanfara, affinché assolvessero al compito (e al destino) di tradurre in figli espliciti (e tangibili) i membri virili dei neomariti suddetti.
Insomma, garantivano la piena e riuscita nascita di pargoli e bambini in quantità, ed eran già tipiche e folkloristiche nelle varie prigioni, ove costituivano (per i maschi come me, tenuti ormai indissolubilmente a fecondare maniache o squartatrici) un sottofondo imperativo e inderogabile.
Nel carcere di Priscilla, a scandirlo e gorgheggiarlo con fare stridulo, era dunque il bravo Sweeney. E quando questi attaccava a strepitare il suo “Op, op, op” secco e serrato, noi maschi ci abbattevamo eretti sulle vagine sottostanti, centrandole coi peni. I quali, rispecchiando e imitando le cadenze di Sweeney, subito prendevano ad agire, identici (nella loro penetrante insistenza) al becco dei robusti picchi.
“Op, op, opopop”, intanto solfeggiava imperterrito il mio maestro di jung-fu.
E a un tratto, per guidare a frutto (e a sapido orgasmo) la platea fremente e avvinghiata che si contorceva ai piedi del soppalco, accelerava la propria litania.
“Opopopopopopop”, cominciava a caricare la voce bersagliera dello Sweeney, il quale (col mestiere e la perizia che nelle gare di canottaggio contraddistinguono i timonieri del due con) impartiva tempi e andature di ferocia e impeto crescenti, costringendo le verghe pelviche (riunite lì nel salone) al rush fulminante e culminante… dell’amore!
Finalmente mi era chiaro perché il professor Sweeney venisse normalmente descritto come un tiranno implacabile. Con quanta sicumera totalitaria amministrava, infatti, i nostri amplessi, impadronendosi molesto dei sacrosanti abboccamenti ormonali, fra noi mariti e mogli in calore!
“A kiddo lo squartarìa e ci sparerei una sventagghiata di mitra, a kiddo Hitler da strapazzo!”, mi confidava spesso, lasciva sul materassino, l’eccitata Priscilla. Mentre io eseguivo a bacchetta, su di lei, le istruzioni e i ritmi forzati che lo Sweeney imponeva perentorio, a colpi di voce.
Sebbene antidemocratiche, le sedute sessuali andarono comunque a segno. Perché la mia sposina rimase incinta! Poté così, in ottemperanza al “Progetto Maternità”, abbandonare il carcere e trasferirsi a casa mia. Inoltre, affinché il nostro nucleo familiare prosperasse in continuazione, erogando a Priscilla ininterrotte e curative gioie coniugali, ci venne concessa una sovvenzione statale.
Questi soldi, ufficiali e governativi, si rivelarono estremamente volatili: vissero un’esistenza labile nelle mie tasche e nel giro esiguo di qualche mese sparirono inconsolabilmente, lasciandomi nient’altro che poche banconote, sole e raminghe nel portafogli.
“Luce dei miei occhi” – discutevo pacato con l’instabile consorte – “Coltellino delle mie ferite, mi dispiace dirlo, ma sei tu la causa del tracollo economico che ci ammorba”.
E per quanto cercassi con impegno affettuoso di attestarmi su inflessioni bonarie e rilassate, la mia voce tradiva (purtroppo) tutta l’ansia che provavo. Sentendosi allora accusata ed in colpa, Priscilla reagiva sfrontata e, abbrancato d’intuito un arnese di cucina a caso, mi aggrediva a volontà. E all’arma bianca per di più (infatti a capitarle fra le mani, eran di preferenza coltellacci seghettati o forbicioni per il pesce).
“Non ti sembra, cara, una contraddizione in termini?”, polemizzavo (critico ed offeso), mentre fuggivo di stanza in stanza, per sottrarmi alla vindice Priscilla! …E al suo tentativo di sterminarmi, al grido di: “Ti massacro vivo!”.
…Ma per fortuna, e devo ringraziare il “Progetto Maternità” e la gravidanza (che cominciavano, provvidenzialmente, a produrre effetti), i bollenti spiriti rallentavano presto, indebolendo i tallonamenti (e le rincorse ai miei danni) della trucida podista. La quale, colta da improvviso e immacolato pentimento, s’affrettava (compita) a riporre l’oggetto (maligno e perforante) con cui (sino a quel momento) mi aveva incalzato, e talvolta infilzato.
Infine, mentre io mi medicavo (ormai con tocco ed esperienza), lei mi chiedeva scusa, ammettendo (contrita e premurosa): “Hai raccione. Da mia dipende: i quattrini e le onze peddemmo, picché non àio saputo resistere a kidde che sono il tommento, periodico e acuto, d’ogni matri in attesa: le vogghie!”.
Le dogghie?
No: “le vogghie”, disse. E non sbagliò. Visto e considerato che proprio le voglie ci avevano condotto alla rovina.
Tanto per raccontarne una, “Oggi mi andrebbe, massimamente ie massivamente, di scannari una risma di piscatori islandesi”, mi aveva comunicato un giorno Priscilla, passate due settimane, e forse nemmeno, dal suo trasloco nel mio modesto appartamentino.
“Sì” – aveva poi confermato, dopo un istante di riflessione – “Mi ci andrebbe a facciolo o, come a dire, a ciliegina sulla totta, una bedda stragi nel settentrione remoto dell’Europa”.
“Io ti consiglierei, invece, un posto più vicino all’Italia”, avevo ribattuto, pieno di legittima sorpresa e preoccupato per il costo che un viaggio al polo, o nei paraggi, avrebbe significato.
Però, siccome la tradizione dichiara e intima che i ghiribizzi delle gestanti vanno sempre esauditi (pena le voglie di lampone, di fragola, o magari di uccidere, per i figli), mi rassegnai all’Islanda, cedendo da un lato alle insistenze vibrate (anche a suon di percosse o sganassoni) dell’impaziente mogliettina e spendendo dall’altro un ingente mucchio di verdoni, per il biglietto aereo.
L’indomani, sbarcati dal jet in quel di Reykjavík, ci eravamo subito proiettati a noleggiare un’auto, per raggiungere il piccolo lago Tjörnin. Sulle cui rive, “Perfetto!” – esclamai – “Sebbene leggermente in ritardo sul desiderio che hai espresso, ecco qua i pescatori islandesi! Come puoi constatare (e fra un po’ pugnalare) con mano, il tuo simpatico Meschinello ti ha portata dritto dritto da loro!”.
“Grazie amuri!”, mi ricompensò con un bacino sulla guancia la carezzevole Priscilla. Quindi si era avviata (trotterellando contenta) verso le vittime ignare, le quali (tutti uomini barbuti, intenti a gettar la lenza nelle acque tranquille che avevano dinanzi) cominciarono a salutare galanti, quando s’accorsero della gradevole mia assassina che (sorridente e radiosa, persino trasfigurata dalla gioia birichina del macello imminente) arrivava florida e attraente, con un coltello (aguzzo e in agguato) nascosto nella manica.
Qualche nordico, trascinato suppongo da un veemente residuato di antichi istinti (nonché ardori) barbarici e vichinghi, arrischiò addirittura, con la lieta scannatrice, un approccio disinibito, di tipo audace e palpeggione. Al che, l’umore dell’affilata e “pungente” distruttrice era di botto cambiato.
“Mì, signori miei, moderiamo le mani!” – aveva urlato, velenosa e fiammeggiante – “Picché fimmina costumata sugno! Ci siamo intesi, ah?”.
E sguainando fieramente la sua durlindana in miniatura (ma non per questo meno avida di sangue) si era catapultata (suscitando squarci e morte) a martellare di pugnalate sataniche e folte i mascoli irrispettosi, cornutacci e svergognati. Sì, come il dente di un vampiro il coltello si avventava nella carne e nelle arterie, devastando insaziabile i corpi innocenti (ma un tantinello “zozzoni”) dei goliardici islandesi!
Mezz’oretta di sfogo e (ormai calma ed equilibrata) “Ho finito”, flautò la monella, tornando da me tutta sporca di sangue, come i bimbi lo sono di terra, dopo le scorrazzate nei prati.
Ed era sempre andata così, fra voglie bizzarre, e da serial-killer, che ci spedivano a turbinare per il mondo (“Sento un bisogno irrevocabile di bramini indiani, da affettare”, poteva uscirsene Priscilla. Oppure: “Improvvisamente m’ispira l’idea di cacciare ed estinguere gli yeti himalayani”).
Tutto ciò comportava trasferte esose e incideva quindi, dilapidandolo senza riguardi, sul finanziamento, di origini statali, che avevamo a disposizione. Già, proprio quello su cui vivevamo e ci basavamo e che, almeno per ora, ci dava da mangiare e uccidere.
Le cose, che dunque giravano male, eran poi peggiorate a valanga dopo il prezzo, terribile e ladrone, di una capatina ad Ottawa, sulle tracce di netturbini canadesi da gambizzare a proiettili di lupara. E quando i soldi si assottigliarono infine al lumicino, ecco scoppiare fra me e Priscilla i litigi che ho descritto… e che mi vedevano sfrecciare per la casa intera, braccato dalle lame e dai forbicioni della sbrigliata e collerica consorte.
Ma queste baruffe, che si concludevano (come ho detto) con la pace fatta, cessarono completamente, a un certo punto. E per un semplice motivo: l’arrivo dell’estate. Sull’onda della quale Priscilla, che si era stabilita da me all’inizio di dicembre coinvolgendomi poi in sei intensissimi mesi di pellegrinaggi intercontinentali (e massacranti in tutti i sensi), non ebbe più necessità alcuna dell’estero, o delle escursioni in aereo. Perché cominciarono ad affluire, in Italia e nella nostra città, i soliti turisti multietnici. Attirati, si sa, dai monumenti e dalla bella stagione, che (essendo ancora la più calda, nonostante il tepore emanato adesso dagli inverni) continuava a costituire e rappresentare, per convenzione e ovunque nella penisola, il periodo designato e ideale, per accogliere e accudire le vacanze altrui.
Insomma, se alla mia coniuge di usanze assassine, saltava l’estro e l’esigenza di sgozzare, ad esempio, sei-sette impiegati svedesi o una comitiva di birrai berlinesi, altro non doveva fare che scendere in istrada… e servirsi! Con grande euforia e risparmio, da parte mia.
Grazie ai rimasugli della sovvenzione ricevuta dal governo (e col denaro del lavoruccio da barista che mi ero trovato in luglio ed agosto), campammo con sufficiente sopravvivenza e larghezza di mezzi, sino al momento del parto. Quando, gettatomi alla guida spericolata della mia cinquecento, mi divincolai nel traffico, rombando e sgommando epilettico alla volta del “FatebeneGemelli”, l’ospedale della mia città.
Non appena entrai nell’atrio con la moglie in braccio, i dottori si precipitarono scattanti ad aiutarmi e, siccome nel reparto-maternità (stanza 9) c’era per fortuna un letto ancora libero, Priscilla venne coricata e rimboccata d’urgenza. Di farle la guardia (mentre io rimanevo ligio al capezzale dell’aspirante puerpera, per confortarla in quel frangente difficile di doglie e sofferenze ginecologiche) fu incaricata un’infermiera dai capelli rossi, che mi sembrava (insistentemente) di conoscere già.
“Ma lei non è Mattiola Fanfara?”, domandai intuitivamente, ricordando all’improvviso il TG speciale condotto dal Pietri.
“Son contenta che i fan non mi abbiano dimenticata. Meno male!”, rispose la scienziata, ravviandosi la chioma fluente e tornita.
“L’hanno declassata al rango di infermiera, signora?”, m’incuriosii pettegolo.
“Che vuole…” – si commiserò la Fanfara – “È una ben triste vicenda, la mia. Si figuri che…”.
“Su su, tra poco sarà finita, cocchina, e non avrai più fitte o disturbi, ma anzi un delizioso fantolino!”, intanto sussurravo a Priscilla, carezzandole la fronte.
“Silenzio!” – s’inviperì la Fanfara, alle mie parole – “I suoi paternalismi maschilisti, tesi a consolare una donna che, di sicuro! saprebbe incoraggiarsi anche e meglio da sé, m’indignano e soprattutto m’interrompono. Perché, come le raccontavo” – e qui la “paramedica” afferrò teutonica una sedia, per accomodarsi a gambe accavallate – “si figuri che un certo professor Sweeney (un porco arrivista!) ha operato, all’interno del “Progetto Maternità” e dell’inerente struttura gerarchico-organizzativa, un efferato colpo di stato maschilista, a causa del quale ho incommensurabilmente perso la posizione di comando e preminenza che occupavo”.
Con la voce minata dalla commozione, la Fanfara proseguì asciugandosi una furtiva lacrima, ed esclamando vittimista: “Ahimè, sciagurata e trafitta dal destino! Mi hanno insomma sbattuta fuori, capisce? E a quel punto non mi restava altro che l’Università, dove (da tanto e da troppo) avevo una vecchia e squallida cattedra in affidamento”.
“Ma pensa…” – filosofeggiai – “E qual era la sua materia, signora?”.
“Glielo stavo per dire!” – squittì d’isteria acuta, la Fanfara – “Io istruivo le classi, spiegando indefessa la “Storia, critica ed esegesi semiotico-sistemica delle costanti cosmogoniche prodotte dall’analisi comparata, apodittica e incrociata delle implicanze biologiche longitudinalmente derivanti dall’applicazione della psichiatria neurofarmacologica e cattolico-protestante (di rito mitraista) allo studio ortogonale ed espanso delle Lingue e Letterature Africane di scaturigine Altaico-Portoghese”.
“Minchia!”, s’interessò Priscilla che, catturata dall’eloquio forbito e misterioso dell’infermiera, incominciava ad avvertire di meno i fastidi truculenti del travaglio.
“Drammaticamente” – riprese la Fanfara, senza badare minimamente all’ammirazione che le era stata testé espressa – “persino la mia tranquilla e noiosissima routine d’insegnante si rivelò una tragedia. Dato che, lezione dopo lezione, m’invaghii robustamente di un mio romantico e simpatico assistente, cui alla fine mi sono dichiarata.
“Tesoro, anch’io ti idolatro” – mi ha controdichiarato con fervore – “Però, per lealtà, devo confessarti che non ho una lira in canna”.
Era (veramente!) afflitto e appassionato, bisogna ammetterlo. Per questo, urlando, gli ho esclamato sul muso: “Ecco! Tutti così voi uomini belli, atletici, onesti e innamorati: una non fa in tempo ad affezionarsi e adorarvi, che subito la pugnalate alle spalle, con la vostra povertà e ristrettezze. Cattivi!”.
Sciogliendosi in singhiozzi concitati e sprofondando in un pianto fluente (ma non tornito), la docente esulcerata aggiunse d’un fiato: “Spinta dalla disperazione, ho abbandonato in lacrime l’Università e, invece di arruolarmi maschilisticamente nella legione straniera o in un convento, ho preferito farmi… crocerossina d’ospedale!”.
Ah, una scelta generosa! Che a ogni modo (sentenziai di brutto nell’intimo e nel segreto della mia testa) non mitigava per nulla la sostanza di quanto avevo ascoltato. Così, deciso a rimostrare, fissai negli occhi la Fanfara, per poi sintetizzare, senza mezzi termini: “Guardi: secondo me il concetto, nudo e crudo, è che lei ha mollato ingiustamente quel bravo ragazzo d’un assistente! Lasciandolo proprio con un palmo di naso, come un Romeo deluso e scornato…”.
“Forse lei non ha torto marcio” – mormorò intenerita, e ammorbidita dal suo stesso dolore, la Giulietta mancata – “E adesso magari” – balbettò, striminzita dal pianto – “mi considera un mostro, arido e avido… Ma si sbaglia!”.
Ero lì lì per ribattere, quando la Fanfara ricominciò spedita a ciarlare, esibendosi in un monologo, nuovamente aggressivo e autoritario.
“Già me l’immagino” – sbottò – “Lei, da maschilista pervicace, sta pensando: «Costei è un’ignobile creatura, e non si redimerà dai difetti che la attanagliano. Certo, la speranza che cambi» - sta infine satireggiando - «è l’ultima a morire. Ma la prima! La prima! a sentirsi male»”.
“Aspetti, io…”, provai ad inserirmi.
“Disgraziato!” – m’ignorò e sovrascrisse la virile oratrice – “Sappia che non deve azzardarsi ad insultare così me, o comunque il prossimo”.
“Oh santa Peppa vercingetorigia e panettona!”, m’imbufalii frastornato, smarrendo per un attimo il controllo delle mie interiezioni… e degli aggettivi!
“Che ha? Non è più nel pieno delle sue facoltà grammaticali? Straparla, insomma, da svampito?”.
“A straparlare è lei; nel senso che parla troppo, signora. Mettendomi in bocca (anzi nel cervello) frasi, pensieri, sfottò e periodi che non ho mai formulato o lontanamente costruito!”.
“Uh! Sto prevaricando la sua sintassi, per caso? Per caso… ablativo?”, mi canzonò sarcastica, la Fanfara.
“Si cancelli quell’ironia dalla voce”, reagii piccato. E tanto incarognito ero che “Flagello!” – rincarai – “Lei è un autentico flagello! Il Pietri non mentiva, né esagerava, affermando che non c’è più limite alle donne. Quale limite d’Egitto, San Nicandro chierichetto!? Se state portando l’umanità alla rovina, addirittura!”.
“Ecco: lo vede che siamo in gamba?”.
“Prego!?” – allibii stralunato – “Ma che idiozie va cianciando, sciocca! O peggio… pazza!”.
“Lei dice?” – si spaventò d’un colpo la Fanfara, impressionata (e d’un tratto rabbonita) dalla mia diagnosi, schietta e recisa – “«Pazza», lei mi accusa… Beh, ad esser sincera, lucida e razionale, mi spiacerebbe molto incorrere nella demenza di tutte le altre nubili, sciupando per sempre la mia solidità mentale di rigogliosa scienziata! Oh Dio, sarebbe terribile!” – concluse, scombussolata di paura – “Che qualcuno mi salvi! Lei, ad esempio!”.
“Io?!”, mi schermii allarmato.
“Sì: mi sposi, mi rifornisca sollecito di gioie familiari immunizzanti e mi conservi intatta… la ragione!”.
“Impossibile: appartengo a Priscilla!”, m’impettii integerrimo, indicando (scultoreo e statuario) la fanciulla distesa (e in odore di figli).
“Si converta all’Islam, allora!”.
“Muta! Muta, bottana!” – deflagrò inatteso e parossistico, un accento siculo, forsennato e rauco – “Chiarissima accademica o no, cu minchia sei tu per colludere e tentari, frisca frisca, il marito mio?”.
“Una giovane di pregio, che ha fascino e cultura in abbondanza” – chiosò la Fanfara, con enfasi esplicativa da cicerone – “Nonché un magnifico talento intellettuale, che mi rende nobile e superiore, convincendomi trionfalmente a proclamare: “Se in tutto il resto del mio corpo il sangue è rosso, nel cervello è invece blu!”.
“Blu ti ci faccio io di lividi e bastonate, ‘u capisti?” – strillò Priscilla (scalmanata), accennando iraconda a scendere dal letto – “Se t’acchiappo, sgallettata, cà non ci saranno illuminazioni sulla via di La Mecca, ma soltanto scariche di Pi-randello!”.
“Il suo tono maschilista mi meraviglia caldamente” – replicò la Fanfara, con saldo sussiego – “Ed è, in una donna, uno spettacolo talmente disgustoso” – questionò con ribrezzo – “che non posso impedirmi di andarmene nauseata!”.
Congedandosi altera, l’orripilata “paramedica” si separò ombrosa dalla sedia su cui stava. E infilò, rigida, la porta della stanza 9.
“Glielo lascio, il suo sposino: perché il ganzo di una maschilista, io di certo non lo voglio!”, sibilò.
“Unne scappi, spudorata?” – inveì Priscilla, su di giri – “Tonna indietro, meretrice invereconda!”.
Poi la rabbia ipodermica le penetrò la pelle in profondità, elettrizzandole i nervi con una sventagliata galvanica di entusiasmo pirico, diabolico e tonante. Stimolata dal quale, Priscilla balzò giù dal letto, pronta a perpetrare scempi e delitti.
Il problema fu, però, che l’arrembaggio rude e severo in cui la mia spiritata piratessa si sguinzagliò ringhiosa, non raggiunse mai il suo obiettivo (alias la prostitutissima Fanfara). E questo perché, sbrigliati due o tre passi appena all’inseguimento (possessivo e sanguigno) della fimmina scomunicata e camorrosa da punire, la mia facinorosa partoriente (sebbene animata dalle migliori intenzioni omicide) dovette rallentare (in tutta fretta) sotto il peso del pancione, e affievolire la propria rincorsa in un calpestìo fiacco e barcollante. Dopodiché, colta da vertigini assortite e varie, stramazzò fra le mie braccia protese, che, con riflesso rapido e muscolare, la sostennero in salvo, riaccompagnandola a letto.
E adesso, stravaccata a morte sulle lenzuola scombinate, Priscilla boccheggiava debole, stordita dall’assalto che aveva abbozzato appresso alla Fanfara.
“Kidda sciacquetta” – ansimava stanca la selvaggia mammina fuori fase – “mi àve innevvosita bestiammente (col suo compottamento scandaloso), mettendomi addosso un desiderio assatanato di uccidere a quarant’ore! Solo che, e Totò Riina m’è testimone” – si segnò devota la pia sicaria – “non ce la fazzo! Non ce la fazzo neanche un po’, nelle condizioni in cui mi trovo. Picché, quando come a mia sei sul punto di figghiari, le energie ti scivolano via, riducendoti una cosa moscia che non ha più salute né vigori. Né tantomeno” – recriminò l’infelice – “la fozza necessaria a strangolari… o comunque ammazzari!”.
“Atrocemente vero”, convenni angustiato; e al contempo realizzavo con tremore che la situazione stava deragliando, incontenibile e negativa, verso il rischio catastrofico e contingente che stavolta Priscilla, a differenza di quant’era accaduto ad esempio in Islanda o in mille altri Paesi ed occasioni, non riuscisse a smaltire e sfogare le sue voglie cruente di serial-killer gestante.
“No, questo sfizio ed esigenza di sbudellare” – decisi a mente, mosso da una determinazione spontanea e dura, che mi procurava pensieri gradassi alla John Wayne – “la mia bambola recidiva e gravida se lo deve togliere subito, immediatamente, a scanso di prole guasta e adulterata!”.
Già, perché il mio timore (per esser franchi e seccamente espliciti) era quello di beccarmi un erede (o un’erede) con le paturnie annientatrici, pure lui o lei.
“Un simile rampollo” – continuavo a disquisire autotelepaticamente, nell’assorto e protetto séparé della mia scatola cranica – “avrebbe grosse e turpi probabilità di finire in galera, arrestato, se cominciasse (per smania omicida) a smembrare o sminuzzare a destra e a sinistra. Per non parlare dell’eventualità deprecabile che, un giorno o l’altro, mi rimanga morto e sepolto, per mitra o pistola d’una qualche vittima turbolenta e non “permissiva”. Ma anzi lesta a intentare, per legittima difesa, sparatorie e tafferugli a fuoco. Se ciò accadesse” – impallidii fra me e me – “se davvero incappasse in tipi tosti e abili con la Luger o la Colt o il kalashnikov, come potrebbe il mio diretto e diletto discendente, ormai bucherellato e buono solo alla fossa, rappresentarmi nella vita ed esistere al posto del Meschinello che sono?”.
Evidentemente non avrebbe potuto. Urgeva quindi un rimedio. Un capro espiatorio. Un sacrificio umano da ammannire a Priscilla. E dato che la mia dea cannibale (la mia Tanit personale ed affranta) era invalicabilmente inchiodata al letto, in quel momento, perché troppo debilitata per muoversi, scelsi ed optai di andare a prenderle io un’offerta, cioè una cavia di cui abusare, e da immolare a funerali balsamici. Balsamici, dico (e purificatori) almeno per il mio figliolo, che, scalpitante sulla rampa di nascita, si apprestava a veder la luce.
Però (uscito dalla stanza 9 con l’obiettivo di girare a fondo l’ospedale, alla ricerca di un olocausto adatto e provetto) incontrai scarso successo e nemmeno un soggetto con le credenziali giuste (ossia, sufficientemente patito e malconcio da lasciarsi uccidere dalla mia floscia consorte, senza opporre problemi, resistenze o difficoltà).
Il fiasco involontario e sgradito, che stavo incassando, era frutto, antipatico e intollerabile, della costituzione (nel complesso sana e talora robusta) della gente che popolava le corsie: c’erano infatti (ovunque) ricoverati e pazienti, sì emaciati e smunti, ma all’apparenza molto più in forma di Priscilla; zii e cugini in visita, che ostentavano un aspetto rubizzo e pimpante; e (a impreziosire e saturare il quadro) primari aitanti e guasconi, che sprizzavano spocchia e agiatezza fisica.
Ero già traballante e sicuro della sconfitta, inutile scriverlo. Per fortuna, a porgermi un pronto soccorso, provvide l’occhio, che, mentre camminavo sperduto per la clinica otorinolaringoiatrica (indagando, ancora e vanamente, su un possibile martire per la mia criminale incinta), mi cadde intelligentemente su una tabella affissa al muro.
Si trattava di un elenco, intuì subito il mio occhio, di uno specchietto che riassumeva le diverse sezioni dell’ospedale (con la loro ubicazione) e che (in inchiostro nero su sfondo giallo) stampigliava ai quattro venti:
Accettazione (1° piano)
Astanteria (2° piano)
Emoteca (3° piano)
Radiologia (4° piano)
Otorinolaringoiatria e reparto-maternità (5° piano)
Traumatologia (6° piano)
Degenti in coma e malati terminali (7° piano)
Quest’ultima indicazione fu per me un prodigio: un suggerimento portentoso che mi guidò indietro (e a razzo) da Priscilla. La quale, di lì dunque a un baleno, “Ih, Meschinuzzo, con calma!”, mi rimproverò indolenzita, mentre (ricorrendo ai bicipiti) sollevavo con irruenza lei (e di riflesso il nostro pupo) per recarmi (con tutta la famiglia in braccio) a infilarmi di schianto in un ascensore qualunque del Reparto-Maternità.
Al culmine di quel sorpasso rischioso e calibrato male, aveva trovato un albero che somigliava alla morte. Tanto che, in uno sfarfallio di vetri a schegge (perché troncati finemente dall’impatto) gli aveva sventrato le lamiere dell’auto, dannandogli le ossa come si deve (e non si dovrebbe). Però tutto questo Michele Calzolai, imprudente di vent’anni, non lo ricordava più, dal momento che la sua memoria era andata in rovina, schiacciata dall’incidente.
Corollario della sciagura, una salute frantumata ed una spina vertebrale guasta che avevano causato al poveretto una corsa in ambulanza al “FatebeneGemelli”, un lettino su misura al settimo piano (quasi cielo, data ormai la vita approssimativa del ragazzo) e una cameretta linda e accogliente, che si trasformò allo stesso tempo in culla ed obitorio, quando a colonizzarla piombarono (invasori ed invadenti) due loschi genitori. Fra cui spiccava indubbiamente una psicopatica praticante, trasportata fedelmente dal suo sgherro maritale: io.
“Trattieni la placenta ancora per un po’”, mi lamentai autoritario, mentre (ingombrato dalle acque rotte di Priscilla, che m’impiastricciavano gli abiti di una melma natale) avanzavo a stento verso l’apparato meccanico che, lì nella stanza, s’industriava (con impegno e lode) ad attardare in questa realtà (o mondo) il comatoso Calzolai.
Che respirava, solo grazie al succitato impianto: una macchina rianimatrice “ImmortAl 9000”.
“Basterà spegnerla” – spiegavo affannato alla mia donna aggrappata e in ascolto – “e il tizio qui addormentato soccomberà. Sì, costui è un individuo facile da eliminare: immobile com’è nella sua incoscienza cronica, non potrà lottare per salvarsi. Inoltre, ad accopparlo definitivamente e senza via d’uscita, è sufficiente un semplice bottone”.
E con il mento indicai a Priscilla l’interruttore dell’apparecchio. Quel pulsante, così rotondo e liscio, era la soluzione. Perché calcargli addosso un polpastrello, per qualche piccolo e puro istante, avrebbe disattivato infallibilmente l’esistenza del disastrato Calzolai. Risultato: la maniacuccia mia, troppo fiacca e spossata per strangolare, sgozzare o che, avrebbe dovuto allungare un dito (nient’altro!) … e premere.
“Lo farai comodamente dalle mie braccia”, le bisbigliavo tenero e gongolante, avvicinandomi col fiatone in ascesa al tasto fatidico e al relativo marchingegno.
Ed eran pochi, persino ultimi, i metri che mi mancavano! Ma Priscilla cominciò ad urlare acuta e penetrante. Subito capii che il bimbo era sul punto di forzare i visceri della madre, per catapultarsi alla vita!
“Un momento!” – gli gridai, quasi potesse udirmi e obbedire – “Aspetta!”.
E nell’orgasmo, nel ballo di San Vito che mi prese soffocandomi, mossi ancora due o tre passi inconsulti in direzione del dispositivo “ImmortAl 9000”. Dinanzi al quale, accorgendomi infine che non c’era più tempo da perdere, adagiai il mio fardello femminile e sonoro (gagliardamente traboccante, ormai, di umori e stridi!).
Ecco. Priscilla era lì adesso: sdraiata sulla schiena, con la testa a sfiorare l’apparecchio antitumulazione.
“Coraggio, ti aiuto io” – la incitai – “Spingi. Spingi ritmicamente, dài!”.
Lei, atteggiandosi a gambe aperte per facilitare il parto, seguì diligente le mie istruzioni. Senza tuttavia dimenticare il prurito che aveva, di uccidere e freddare. E proprio per grattarsi questo capriccio, stiracchiò un braccio all’indietro, urtando immediatamente (con la mano a palmo in giù) una breve superficie, metallica e verticale.
Risalitala con un ticchettio rapido di unghie funambole e rocciatrici, le dita trovarono in un lampo la sommità dell’“ImmortAl 9000”, raggiungendo, poi, il quadro-comandi e l’interruttore. Clic: un attimo prima che il marmocchio sbocciasse dall’utero, Priscilla si sbarazzò della sua voglia omicida… Smentendo i miei timori di un discendente inetto a sostituirmi e donando a nostro figlio un futuro limpido non da delinquente funesto e morto, ma da supplente impeccabile e coi fiocchi.
“Sarai il mio surrogato, il mio doppio, il mio rimpiazzo!” – mi crogiolai euforico, sollevando al cielo (o meglio al soffitto) il corpicino del neonato – “Allegro, piccino: sarai il mio dolce… rim-piazzista!”.
E mentre continuavo a vezzeggiare il bambolotto, ripulendolo dal sangue denso e pieno che gli umettava la pelle, sorridevo gaio e affettuoso. Fu allora che, con la coda dell’orecchio, sentii Priscilla esclamarmi estatica: “Binirittu a tia: che patri meravigghiosu!”.
Narrati, nell’arco di molte pagine, i capitoli del passato, sorge il momento di trattare il presente. Prima notizia: il fantolino è cresciuto, “ingrandendosi”. E nel frattempo si è visto applicare un bel nome, scelto con foga da mia moglie (in realtà, per farle un omaggio, io avevo proposto Jack, come lo squartatore. Ma “No, no: Giuliano!” – ha ribattuto energica, la signora – “Come il bandito!”).
Seconda notizia: Mattiola Fanfara è diventata un effettivo, in piena regola, della nostra famiglia. Tutto è accaduto un giorno di settembre quando, infastidito e intronato da uno scampanellìo ossessivo, ho spalancato la porta di casa, ritrovandomi naso a naso con la fulva biologa.
“Permesso!”, mi ha dribblato prontamente, precipitandosi dentro ansiosa e trafelata.
“Ma dove va?”, ho protestato acido, mentre la scienziata (chiamando Priscilla ad alta voce) rovistava con lo sguardo in ogni stanza, passandole e visitandole in rassegna una ad una. Poi, individuato in cucina l’oggetto della sua ispezione turistica, lo investì a treno con un abbraccio sostanzioso e palpitante.
“Ah, kidda smoffiosa ca ci fice il filo a Meschinuzzo beddo!”, s’indignò lavica la mia consorte, che (pur guarita dagli istinti omicidi d’una volta, in virtù delle gioie familiari) si divincolò agile e prestante, con l’obiettivo perentorio di imbattersi in un buon coltello, da utilizzare “aguzzamente”.
Al che la Fanfara, intuendosi incompresa e minacciata, decise di spiegarsi.
Raccontando “a reazione” (e ad un ritmo frettoloso, mirato a prevenire qualsivoglia pugnalata e/o stilettata), ci riferì che all’epoca era rimasta colpita a fondo dal nostro incontro in ospedale.
“Sì” – ricordò – “Il maschilismo di Priscilla mi aveva talmente inorridita che iniziai a raccogliere informazioni su di lei, allo scopo di denunciarla, con completezza e cognizione di causa, al WWF”.
“Il World Wild Feminism?”, interloquii.
“Esatto”.
“Se non sbaglio è una succursale dell’ONU, proprio come la FAO o l’UNESCO…”, congetturai.
“Silenzio!” – intimò l’ex-titolare di cattedra, in un rigurgito impulsivo di fierezza professorale – “Non vede che sto parlando? Che sto descrivendo le mie travagliate e avvincenti vicissitudini?”.
“Continui, allora…”, sospirai paziente.
“Ebbene” – riprese la studiosa – “prima di procedere alla delazione, volevo essere accurata e scrupolosa nella mia ricerca. Tanto che girai ostinata per archivi ed uffici anagrafici vari, andando a caccia di dati e documenti, come una segugia accanita. E indaga oggi indaga domani, ho scoperto una verità impressionante”.
Qui l’investigatrice s’azzittì nervosa, piantando fissi gli occhi in quelli di Priscilla.
“Siamo sorelle”, rantolò dopo un istante, afona d’emozione e lo sguardo rotto dalle lacrime.
“Eh!?” – si limitò ad osservare, asciutta e concisa, la serial-killer redenta, ma suscettibile ancora di sussulti letali – “A mia sfutti? Bada che ti scotenno, scimunita!”.
“Sono sincera, te lo giuro!” – si difese la Fanfara – “Ci hanno separate alla nascita. Sai, la mamma è morta di parto e papà, per potersi dedicare senza impedimenti o distrazioni al reperimento e alla valutazione (anche sessuale) di serie e solide candidate al ruolo di nuova compagna e moglie “rediviva”, ci ha maschilisticamente devolute in adozione. Io son capitata, per fortuna, con una famiglia letterata istruita e competente, mentre ad aggiudicarsi te, è stato purtroppo un rozzo clan di contadini siciliani. Comunque, a parte l’abisso non generazionale (ma culturale) che ci divide, siamo sorelle (anzi dolci gemelline bizigotiche!) e io, che ho perfettamente rinunciato al desiderio di denunciarti, sento già, e distintamente, di volerti bene!”.
Un’agitazione stentorea vinse lo scilinguagnolo della Fanfara, tramutandolo in un mugolio di commozione omnia. Totale! E così affabile ed autentica, da persuadere Priscilla a disertare i propositi aggressivi, per aprirsi in un sorriso gentile ed istintivo. Un abbraccio lungo ed amorevole suggellò (a questo punto) l’acquisita, improvvisa parentela.
Terza notizia: Mattiola abita da noi, ultimamente, ed è zia inconfutabile (e per la pelle) di Giuliano.
“Insomma, pure io adesso” – non manca mai di sottolineare, ogni giorno – “ho infaticabili e assidue gioie familiari, che mi tengono lontana, ed al riparo, dalla follia. Ed è una cosa, lo confesso, che mi ridona ottimismo, istigandomi alla fiducia in me stessa”.
“Che intendi, o meglio sottintendi dire, Matti?”, le domando spesso.
“Che se una volta il professor Sweeney è riuscito a beffarmi e spodestarmi, ora sto covando una forza e un’energia che, molto presto, mi permetteranno di riprendermi il comando del “Progetto Maternità””.
È una prospettiva felice, che mi rende roseo e speranzoso. Chissà: forse in futuro anche Giuliano, per affettuosa raccomandazione della zietta nuovamente al potere, avrà un posto di rilievo, e di lucro, nel Progetto. Magari sarà lui a debellare per sempre, e definitivamente, la piaga delle nubili assassine. Lo sogno vivamente!
E intanto mi consolo. Perché l’esistenza di mio figlio sembra davvero destinata al successo. Senza contare, poi, che Giuliano è cresciuto (l’ho già detto, no?). Son trascorsi anni, infatti, da quando è venuto al mondo ed ormai il piccolo, non più tale, è un ragazzo capace, in grado di accudirsi (tranquillamente e comodamente) coi propri mezzi.
In conclusione: non ha più esigenza stretta di un padre. Ciò significa che il mio compito è terminato: ho allevato e educato Giuliano, l’ho trasformato (col prezioso aiuto di Priscilla) in un ometto pronto a sostituirmi. Quindi adesso arriva, per il bravo Meschinello, il premio ambito e guadagnato: mi si spalanca, dinanzi, il sudato suicidio!