La presentazione dei sintomi, espressioni soggettive di un processo morboso, è in genere l’esito di un processo, più o meno lungo, nel corso del quale un cittadino arriva a decidere che le sensazioni da lui percepite possono costituire un problema di pertinenza medica. In questo caso accetta di essere oggetto di valutazione clinica e quindi, per la durata della consultazione, viene riconosciuto come “paziente” e legittimato come tale. Questo è l’inizio della tradizionale consultazione medica. Il paziente esprime le sensazioni che sta provando senza una netta scissione tra il suo corpo e il suo sé, mentre il medico le affronta “come se accanto o dentro al corpo adagiato sul lettino vi fosse un terzo soggetto parlante immateriale, biologicamente non determinato, che gli descrive cosa sembra non funzionare”. L’interpretazione dualistica della narrazione dell’assistito impedisce al curante di riconoscere l’esistenza di una soggettività collegata al corpo e quindi di attribuire al sintomo descritto un valore pari a quello che solitamente viene assegnato al segno osservato. Per questo, secondo la tradizione medica, i sintomi, soggettivi e riferibili soltanto (d)al paziente, sono dotati di una valenza poco “scientifica”, mentre le misure oggettive, di natura clinica, strumentale o di laboratorio, per esempio, un’alterazione cutanea, un valore di pressione arteriosa o di glicemia, sono segni inconfutabili, che solo il medico ha il potere di osservare e interpretare per stabilirne la rilevanza clinica e quindi l’effettivo “valore”.
Le nuove tecnologie digitali, in particolare gli smartphone e in genere i dispositivi indossabili (DI), costituiti da uno o più biosensori, inseriti su capi di abbigliamento quali orologi, magliette, scarpe, pantaloni, cinture, fasce, occhiali, sono in grado di rilevare e misurare diversi parametri biologici (frequenza cardiaca, respiratoria, saturazione di ossigeno, temperatura corporea, pressione arteriosa, glucosio, sudore, onde cerebrali) e fornire informazioni sullo stile di vita (attività fisica, sonno, alimentazione, calorie consumate). Tali sistemi di misurazione, implementati dalle applicazioni dell’Intelligenza Artificiale (IA), possono fornire dati di flusso dinamici, istantanei, minuto per minuto, giornalieri, settimanali, di alto valore in termini clinici, in grado di migliorare il monitoraggio delle patologie, rendere più efficienti i processi decisionali e consentire la diagnosi precoce di malattie che non si presentano con sintomi facilmente percepibili, ad esempio Covid-19, che può alterare frequenza cardiaca, attività e sonno in individui asintomatici ma essere diagnosticato in questa fase attraverso gli smartwatch. I segnali ottenuti dai device possono peraltro rilevare anche misure di sensazioni comprese da sempre soltanto attraverso la lente della soggettività, come il tono dell’umore, l’attività cognitiva e in futuro l’attività neuroendocrina. La tecnologia digitale può, dunque, oggettivare l’effettiva realtà delle percezioni del paziente e consentire di attribuire al sintomo la dignità di segno e quindi al paziente l’attendibilità e la veridicità di quanto descrive.
I gap da colmare
I DI offrono l’opportunità di modificare profondamente le modalità di evidenziazione, classificazione e trattamento delle patologie, ad esempio, descrivendo fenotipi clinici inediti, distinti e individualizzati, non evidenziabili con gli strumenti tradizionali. Tali sistemi sono peraltro ancora in fase di sviluppo e devono essere validati nella pratica clinica. Esistono infatti molte incertezze, relative all’accuratezza dei dati ottenibili per quanto riguarda sensibilità, specificità e valore predittivo nei confronti dello stato di salute o malattia. Si devono definire i range di normalità, di variabilità e di soglia in diverse popolazioni, nelle varie condizioni di utilizzo (posizione del corpo, velocità di marcia, ecc.). Sono ancora da risolvere i possibili “artefatti di registrazione”, la mancanza di standardizzazione e calibrazione dei dispositivi.
Gli studi sull’utilizzo dei DI in generale sono di breve durata, spesso condotti dagli stessi sviluppatori o da strutture con interessi finanziari diretti e non da ricercatori indipendenti. Sono non raramente fondati sui risultati di soggetti che descrivono le loro esperienze, non condotti in setting del mondo reale, focalizzati soprattutto sulla fattibilità del sensing. È ancora da determinare l’effettivo valore clinico incrementale rispetto alla terapia tradizionale. Mancano studi contro placebo, tanto che si ritiene che una parte delle risposte positive dipendano da un “effetto placebo digitale”, dato anche lo stretto rapporto tra le persone ed i loro smartphone. Non sono disponibili analisi definitive sulla effettiva capacità/volontà delle persone di prendere direttamente in carico la propria salute. Non sono disponibili dati sui possibili effetti negativi. Vi sono molte perplessità per quanto riguarda sicurezza e privacy, aspetti etico-normativi, valutazione degli impatti in termini di rapporto costo/efficacia nella pratica clinica conseguenti ad un uso su larga scala.
È infine necessario tenere conto di uno dei maggiori ostacoli per la diffusione della salute digitale: la scarsa alfabetizzazione di molte fasce della popolazione, che può determinare un rischio elevato di diseguaglianza nell’accesso a queste tecnologie. Esistono infatti difficoltà di acquisizione dei dati da parte delle persone anziane o comunque sono evidenziati disagi tali da non rendere percorribile un monitoraggio intensivo.
Riflessioni conclusive
Le nuove tecnologie generano orizzonti inediti del possibile che possono diventare reali in tempi brevi. Sembra realizzabile una sorta di nuovo apparato sensoriale, in grado di accedere a realtà fisiche, oltre che sociali e ambientali, in modalità, scale e forme che non hanno precedenti nella storia dell’umanità. Per dirla con Eric Sadin: “Il corpo diventa, noi diventiamo, il centro dell’attenzione dei sistemi”. Per effetto di queste nuove prospettive di rappresentazione, è possibile registrare con occhi nuovi e ridefinire lo stesso concetto di identità corporea. Come affermato dal filosofo C. Accoto, “non si tratta solo di strumenti per calcolare il numero di passi o la quantità di calorie bruciate ma di strumenti con cui stiamo costruendo la nostra nuova (idea di) soggettività umana”.
In parallelo deve svilupparsi una formazione del cittadino all’autovalutazione e alla condivisione delle scelte e delle responsabilità. L’interazione tra device e paziente è infatti complessa, sono necessari studi per valutare le tipologie di soggetti che possono effettivamente beneficiarne. La semplice lettura dei dati senza riflessione critica può infatti soddisfare soggetti ansiosi o perfezionisti, ma aumentare fenomeni negativi quali la sovradiagnosi e il falso senso di fiducia dei pazienti oppure, all’opposto, la preoccupazione, fino ad una vera e propria ipocondria digitale, con secondario sovraccarico dei servizi sanitari, che rischiano di essere travolti da una enorme massa di informazioni e da nuove responsabilità, in un contesto di maggiore incertezza e confusione, ad esempio, per le aspettative riposte dai cittadini nella tecnologia.
L’esperienza clinica insegna, peraltro, che la presa in carico delle persone deve comprendere un approccio globale, incentrato sulla identificazione e condivisione di valori, senso, interessi, obiettivi, timori e speranze, dimensioni difficilmente misurabili e oggettivabili e pertanto a rischio di essere meno considerate rispetto ai dati strumentali.
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