Collaborano. Lavorano insieme, costituiscono una squadra. Che è diversa da un gruppo, dove si sta uniti condividendo solo i tempi e gli spazi ma non gli scopi. Il lavoro con altre persone richiede di scalare da gruppo a squadra: il guardare nella stessa direzione, il gioire insieme per l’assemblaggio ben riuscito, il patire insieme per quando il progetto studiato per mesi non va, il fare festa col prosecco quando il risultato è raggiunto. I collaboratori spartiscono la fatica e i tremori dell’anima. Spesso la causa dei calli sulle mani di ciascuno e ciascuna di loro, calli reali o metaforici poco importa, è la medesima, è in comune, genera affiatamento e salda i rapporti.
Risorse umane in azienda
Risorse, così nelle aziende sono definite le persone che lavorano.
La risorsa è “qualsiasi fonte o mezzo che valga a fornire aiuto, soccorso, appoggio, sostegno”, soprattutto in situazioni di necessità, quando il cielo è buio e serve luce chiara per illuminare gli ambienti.
Qualcuno implora: non si definiscano “risorse” le persone, credendo che in questa parola sia insita solo l’idea di mezzo, strumento, arnese, utensile e quindi quanto di più impersonale e inumano esista. Oggetti e non persone, “cose” e non esseri viventi e pensanti. Così però non è.
La parola risorsa deriva dal francese ressource, che vanta come genitore il verbo francese antico resourdre che voleva dire ‘sgorgare di nuovo’ e questo a sua volta è figlio del latino resŭrgĕre, ‘rinascere’, ‘riprendere vigore’.
La risorsa è quindi in continua trasformazione, espressione massima di metamorfosi e di cambiamento, al tempo stesso labirinto e fiume, pronta a prendere nuovo vigore anche di fronte alle difficoltà che comportano pause, arresti temporanei, improvvise sospensioni.
Sorella della risorsa è la resurrezione, fratello della risorsa è il risorgere. Alla fine del Purgatorio, Dante viaggiatore si congeda dal secondo regno con queste parole:
Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinnovellate di novella fronda.
Ecco, dunque, quello che manzonianamente possiamo chiamare il “sugo” di tutta la questione: nella risorsa c’è un continuo sgorgare, da una fonte inesauribile che porta costantemente a nuove fioriture. Le piante novelle sono di continuo rinnovellate di novella fronda.
Non basta. Non fermarti qui. Continua ad esigere dall’analisi della storia delle parole. Pretendi ancora un po’. Se ti impegni a togliere qualche strato di polvere depositata da secoli di conversazioni con questa parola, puoi scoprire altri elementi sorprendenti: il risorgere è un ri-sorgere, un sorgere di nuovo, una seconda volta, una terza, per sempre, è il guardare verso oriente e ammirare ogni giorno una nuova alba con nuovi occhi. La risorsa è l’araba fenice, l’uccello di fuoco che rinasce ogni giorno dalle proprie ceneri: si rigenera, evolve, è capace di resilienza e di antifragilità, è in grado di imparare dagli errori e di risollevarsi, rimettendosi sempre in condizione di sfruttare con le ali i soffi di vento che l’impermanente contemporaneità propone, lo spirito del tempo, i respiri degli dei.
Il verbo sorgere in latino era sŭrgĕre, ‘rizzare’ e ‘rizzarsi’, ‘alzarsi’, forma sincopata, cioè contratta, di surrĭgĕre, a sua volta da rĕgĕre ‘fare da guida’, ‘condurre dritto’, ‘portare nella giusta direzione’. Da quel rĕgĕre, come vedremo, sono derivate molte parole, tra cui rettitudine.
Ecco perché le risorse sono importanti e la parola risorsa va usata con orgoglio e l’espressione “risorsa umana” non va gettata alle ortiche: le risorse umane consentono di trovare la direzione corretta, in cui l’umanità prorompe nelle fabbriche, nei magazzini, nei negozi e negli uffici, un’umanità rinnovata ogni giorno, un’umanità che evolve, si trasforma e risorge.
Operaie e operai nelle fabbriche
Nelle fabbriche operaie e operai lavorano a giornata o su turni. 6-14, 14-22, 22-6: va provato, dovresti provarci, prima di emettere qualunque sbuffo dalla scrivania. “Tute blu”, altro modo per raccontare la categoria. Persone che prestano la loro opera.
Al tempo degli antichi romani, opĕra voleva dire ‘lavoro’, ‘attività’, ‘opera’ ma anche ‘giornata di lavoro’. È il nome collettivo del singolare opus, che rappresentava l’‘opera compiuta’, il ‘prodotto del lavoro’, il ‘risultato finale di un’attività’. Il sostantivo opus ha partorito molte parole figlie in italiano, oltre ad operaio e a opera.
Nella figliolanza con tratti somatici più diversi da quelli dei genitori, possiamo rinvenire l’opuscolo, il libretto di poche pagine che generalmente ha un carattere divulgativo o pubblicitario. L’opuscolo è per l’appunto un’“operetta”, un piccolo lavoro, un lavoro piccolo.
Sorella di opuscolo (ma con difficoltà ne intuisci il DNA in comune) è la manovra, quell’operazione manuale che ti serve per far funzionare una macchina o una sua parte. In francese la manovra è maneuvre, in latino medievale era manuopera, ovvero il ‘lavoro fatto con le mani’. La manovra altro non è che l’opera manuale. E sorella di opuscolo e di manovra è la parola sciopero. Lo sciopero, cioè l’astensione dal lavoro per la rivendicazione dei diritti, la negazione dell’opera per un fine collettivo più alto.
Le pieghe degli impiegati
Gli impiegati sono implicati. E si piegano un po’.
Eh sì, le pieghe sono la cifra prima degli impiegati e delle impiegate. White collars, colletti bianchi, per distinguerli dalle tute blu, sono persone che “svolgono continuativamente la propria attività professionale, esclusa la prestazione di semplice mano d’opera, alle dipendenze altrui, dietro pagamento di una retribuzione”. Questa la definizione del vocabolario Devoto-Oli.
Ma nell’impiego si annida l’immagine della piega. Plĭcāre, nel significato di ‘piegare’, ‘avvolgere’ è il verbo latino da cui deriva l’impiegato. A sua volta è un verbo di aspetto durativo dalla stessa radice di plectĕre, che voleva dire ‘intrecciare’ e che deriva da una radice indoeuropea plek che troviamo in molte parole dell’italiano.
Il complicare è affine all’impiegare, laddove nel primo verbo pieghi con- mentre nel secondo pieghi in-. Ma la vicinanza la trovi anche nello spiegare, da explĭcāre, (e quindi nello spiegare tu pieghi ex-) che in prima istanza significa ‘distendere ciò che è piegato’, ‘togliere le pieghe’ per far sì che, una volta che le pieghe sono scomparse da quel foglio, il suo contenuto sia comprensibile a tutte e tutti.
Puoi duplicare, cioè piegare due volte, e moltiplicare, cioè piegare molte volte. Puoi applicare cioè piegare ad-, facendo attenzione a porre una cosa accanto all’altra in modo che aderiscano, puoi anche replicare, cioè ripiegare, prima che rispondere a qualcuno. Il semplice e il complicato sono due modi opposti di intendere il verbo: il semplice è qualcosa che ha una sola piega, cioè è puro, non ha fronzoli, è piegato semel, ‘una volta sola’.
Plĭcāre ha generato parole in tutte le lingue derivanti dal latino. Un aspetto curioso lo puoi ricavare dal rumeno, dove pleca, che deriva da quel verbo, significa partire: quel partire è dovuto all’espressione ‘ripiegare le tende’, che in ambiente militare equivale a ‘smobilitare, andarsene’. Pieghi le tue cose, parti, vai. Come fanno gli impiegati quando terminano la giornata di lavoro.
Chi funziona e chi dirige
I funzionari funzionano.
Un po’ come nella battuta sugli ingegneri. Come vivono gli ingegneri? Non vivono, funzionano. È così anche per i funzionari, almeno dal punto di vista etimologico.
La parola funzionario è recente: è stata introdotta nella lingua italiana solo nel 1793, poco dopo la Rivoluzione Francese. Deriva infatti proprio dal francese fonctionnaire, a sua volta discendente di fonction, ‘funzione’. Al tempo di Giulio Cesare, functĭo -ōnis voleva dire ‘compimento’, ‘esecuzione’ e anche ‘carica’, ‘funzione’ e vantava quale genitore il verbo fungi con il significato di ‘adempiere’, ‘portare a compimento’. Da quel fungi in italiano ci ritroviamo la funzione e il funzionario, il funzionamento e ciò che è fungibile, quindi sostituibile con qualcosa d’altro di simile.
A sorpresa riconosciamo tra le parole figlie di quel fungi anche il defunto, cioè il ‘morto’, il ‘deceduto’. Defungere, quindi ‘morire’, deriva infatti dalla particella de- premessa al verbo fungi, nel significato di ‘eseguire, terminare’ (sottinteso la vita). Il defunto porta a termine quanto aveva iniziato con la nascita.
I dirigenti, a differenza dei funzionari focalizzati etimologicamente sul funzionamento delle cose, hanno a che fare con il collocare correttamente nello spazio. Il verbo italiano dirigere ha come antenato il latino dirĭgĕre, che voleva dire ‘raddrizzare’, ‘allineare’, ‘disporre in linea retta’. In ambito militare, colui che dirigeva schierava, ordinava, disponeva per file. In sostanza faceva camminare dritto, nella giusta direzione, con un’andatura ordinata. Da quel verbo sono derivati anche gli aggettivi diretto e diritto.
Il nonno di dirĭgĕre era rĕgĕre, ‘guidare’, che in italiano ha prodotto il verbo reggere ma anche il re e la regina, la regia e la regione, la regola e il regime, il rettore e l’angolo retto. Quando i contesti sono lineari i regoli sono fondamentali. La rettitudine lo è sempre.
I dipendenti che pensano
La parola dipendente è diventata in alcuni contesti aziendali un termine tabù. La retorica corrente impone sostituzioni meccaniche: “Non esistono persone che “dipendono” ma solo persone che si attivano”. Quindi, via i dipendenti. Il presupposto ha logiche labili, di sostanza e di forma. Ma la riflessione sulla lingua è azione ardimentosa e le sfumature attengono alla sfera della complessità, non delle semplificazioni.
Il sostantivo dipendente, participio presente del verbo dipendere, è attestato nella prima metà del XVI secolo. In latino, dependēre, con l’accento sulla penultima e, voleva dire ‘penzolare, pendere da’, e solo in senso figurato ‘dipendere’, e derivava dal verbo pendēre, sempre con l’accento sulla penultima sillaba, con il significato di ‘essere appeso’, anticipato col prefisso dē-.
Il dipendente è quindi colui che penzola, come in quella foto in bianco e nero che probabilmente ricordi: i lavoratori seduti sulla trave, in un cantiere per la costruzione di un grattacielo di New York negli anni 30, con le gambe penzolanti durante una pausa pranzo. Quei dipendenti non avevano paura a rimanere con le gambe a penzoloni, erano coraggiosi, avevano nel volto i segni della fatica, del sudore e insieme dell’orgoglio per quanto stavano contribuendo a edificare. Senza di loro, senza i dipendenti, nessuna impresa può essere realizzata.
Inoltre, andando un po’ oltre la superficie della parola, puoi scoprire territori di sapere illuminati e illuminanti. Nei secoli d’uso, l’accento di pendēre è risalito ed ha dato l’italiano pèndere. Da quel pendēre sono derivate molte parole italiane: la pendenza e il pendaglio, il pendio e il pendolo, l’appendere e il propendere, l’appendice e l’appendicite, le sospensioni e gli indipendentisti, l’interdipendenza, che è propria di tutti gli esseri umani che percepiscono la loro umanità, e i controdipendenti, che si mettono di traverso nei progetti proprio per il gusto di andare contro il sistema. Tra queste parole anche i dipendenti, cioè coloro che svolgono un lavoro o un’attività alle dipendenze di un datore di lavoro.
Al tempo di Virgilio, di Ovidio e di Cicerone, però oltre al verbo pendēre, che voleva dire appunto ‘essere sospeso’, esisteva anche un altro verbo simile, pendĕre, con l’accento sulla prima lettera e, come in italiano, usato per esprimere l’azione di ‘tenere sospeso’. Con lo scorrere del tempo, i parlanti hanno fatto un po’ di confusione: l’accento del secondo verbo ha attratto l’accento del primo e per questo in italiano oggi diciamo pèndere.
Sono interessanti i discendenti che ha generato il pendĕre, latino, ‘tenere sospeso’, evidentemente parente stretto del pendēre, ‘essere sospeso’. Da quel pendĕre, è derivata una parola cara ai dipendenti, il verbo pensare. Già perché pensare, nel senso di ‘valutare’, ‘considerare’, in origine voleva dire ‘pesare’, con lo stesso senso traslato di ponderare. Pensare significa proprio mettere le cose sul piatto della bilancia e soppesarle per bene, esprimere un giudizio, osservare se il piatto va più giù da un lato o dall’altro. Quando pesi, valuti il peso di un oggetto. Quando pensi, valuti il peso della realtà, fai confronti, trai le conclusioni da ciascuna pesata. Il dipendente quindi in primo luogo pensa, e non va dimenticato.
Il pensare e il pensiero non sono gli unici figli di pendĕre. Da lì sono derivati anche il compenso e la ricompensa, il compendio e la dispensa, la spesa e la pensione. Proprio quella pensione a cui i dipendenti aspirano, un giorno più o meno lontano, di poter ottenere.
Gli imprenditori intraprendono sempre
Imprenditrici e imprenditori hanno in loro una straordinaria capacità realizzativa. Detto, fatto è il loro motto. Immaginano, pensano e rendono subito concreta la loro visione, il loro pensiero. Questa capacità consente loro di ottenere le risorse necessarie per altre imprese, sempre più grandi, sempre più importanti: immaginano di nuovo, pensano di nuovo e rendono di nuovo concrete le visioni e tangibili i pensieri.
Il latino volgare imprendĕre, con il significato di ‘intraprendere’, deriva dal latino classico prehendĕre, che voleva dire ‘prendere’, ‘afferrare’, ‘cogliere’ con il prefisso locativo in-. Ecco imprenditrici e imprenditori colgono l’attimo, fanno impresa perché sono intraprendenti, cioè laboriosi, operosi, attivi e dinamici. Con il loro prendere, ottengono ciò che desiderano. In inglese il verbo to get, ‘ottenere’, è appunto parente lontanissimo quella presa.
Di recente Elon Musk, imprenditore di successo, fondatore e proprietario di Tesla e di Space X, ha dichiarato: “Credo che questo sia il miglior consiglio: pensa sempre a come si potrebbero fare le cose meglio e metti in discussione te stesso”. Ecco una caratteristica di chi fa impresa, non accontentarsi mai, pensare sempre a ottenere di più, spostare l’asticella sempre un po’ più in alto.