Il sonetto n° 190 del canzoniere di Petrarca si rivela un curioso capolavoro di allusività quanto di equilibrio e di delicatezza compositiva. Molti si sono “scornati” nel cercare di comprendere cosa indichi questa “cerva” senza però andare oltre una pur utile contestualizzazione culturale. L’immaginario del cervo/cerva appare infatti presente in molteplici forme nella letteratura e nell’arte medioevale, dal ciclo bretone e graalico, dove per tre secoli di romanzi il cervo/cerva compare quale segno di Cristo o della Chiesa, alle analoghe tradizioni di S. Eustachio e di S. Uberto, fiorenti anche oltre il medioevo fino ad incrociarsi con la declinazione della mitologia di Diana alla reggia di Venaria, fino all’immaginario alchemico dove il cervo appare quale segno del Mercurio sfuggente e senza dimenticare quella foresta di simboli che è il Cantico dei cantici dove l’Amato divino viene assimilato al veloce e imprevedibile cerbiatto.
Detto questo permane vergine l’enigma di questa poesia, nonostante l’opera di immane esegesi, ancora attuale e illuminante a livello di ricostruzione di una rete semantica ed esoterica al cui centro splende “il cervo/a” quale immaginario sapienziale, rappresentata dal volume di Gabriele Rossetti Il Mistero dell’Amore platonico del Medioevo derivato dai Misteri antichi (1840). Qui Rossetti riavvicina la cerva all’immaginario lunare e misterico di Artemide e di Ecate, dea del passaggio infero e dell’iniziazione quale morte rituale. Non solo: sembra anticipare molte intuizioni di Graves, interessanti anche se spesso creative, in merito alle dee lunari e al segno del cervo. Vale la pena riassumerle. Artemide e la sua famiglia appaiono connessi intimamente con l’immagine del cervo, animale mutante, nelle corna, e ritenuto cacciatore di serpenti. Artemide, cioè l’"Orsa" o "Colei che recide" (l’aria, con le frecce?) aggioga quattro cerve e quella che le sfugge diventa la celebra e mostruosa "Cerva di Cerinea" o di Taigete, dalle corna d’oro e velocissima, che Heracle dopo un anno riuscirà a catturare presso il fiume Ladone e dopo aver attraversato la terra degli Iperborei.
Nella versione “minore”, ma più significativa, la Cerva straordinaria, che si nutre dell’infero trifoglio, si sdoppia/sovrappone con la stessa pleiade Taigete, che darà il nome al monte sacro di Sparta, dove culminava l’addestramento rituale dei fanciulli guerrieri, e nel quale, ancora in epoca storica, il culto di Artemide si incrocerà con i culti di Dioniso, Orfeo ed Helios. Di corna di cervo è il doppio flauto di Atena che userà Marsia, mentre Nemesi, un'altra aspetto della Dea, cinge sul capo una corona di corna di cervi. Graves penso che indovini due temi importanti: l’ampiezza dell’immaginario lunare e “candido” di Artemide, che si maschera la faccia di gesso contro Alfeo, quale Lat, Latona, Leda, Pasifae e il tema del serpente che appare dialetticamente connesso sia con quello della “Dea” che con quello del cervo/a, serpente che appare anch’esso in multiforme sembianze quale Ladone, Pitone e, aggiungo: Adone. Apollo che uccide Pitone e poi si muta in serpente per unirsi a Driope, il gigante Tizio che cerca di violentare Latona (e i giganti erano esseri semiserpentini) sembrano alludere al superamento di riti che contemplavano l’uso femminile di serpenti.
In questo senso Adone connesso all’albero e ad Afrodite, (quale versione recente della “Dea”) ricorda molto Ladone, essere femminile serpentino dalle molte lingue e voci (come Helena di Sparta sotto il cavallo acheo ad Ilio), e l’albero dei frutti aurei del giardino delle Esperidi da lui custodito. Non a caso il monte Erimanzio dover il cinghiale (che è Ares o Apollo) uccide Adone, è sacro ad Artemide, come ogni monte e ogni bestia selvatica. Ma chi è Ladone? E’ anche il fiume presso il quale Heracle cattura la Cerva misteriosa e presso il quale Siringa si trasforma in giunco inseguita da Pan, fiume connesso con Lerna e con i culti serpentini di Sparta, di origine minoica ed egizia. Premesso questo non abbiamo risolto il primo problema identitario principale, quasi irrisolvibile; cioè chi sia questa cerva del Petrarca, non un'"altra" simile, e che "mondi" veicoli di preciso. La lettura tradizionale infatti, che non va comunque negletta ma va oltrepassata, già nell’esposizione di Ludovico Castelvetro delle Rime del Petrarca del 1756, riduce questo componimento al solito sentimentalismo del poeta per l’amata “Laura” (o si tratta di “Aura”, ninfa di Artemide?) per cui il finale della poesia alluderebbe alla sua morte nel mezzo della vita, a 33 anni, e l’acqua in cui cade il poeta sarebbe semplicemente il pianto per la fine terrena del loro Amore. Ma è razionale ridurre a questo semplicissimo e trito schema l’immensa ricchezza di dettagli e di simboli sfuggenti che struttura questo sonetto?
Mi sono allora ri-avvicinato al testo con occhi vergini, cercando di penetrarne e coglierne la struttura, come sempre faccio quando sfugge il significato ad un approccio diretto. Se infatti i singoli elementi restano muti, irrisolti, va indagata la morfologia delle loro relazioni, va spostata la ricerca nelle dialettiche interne al testo certi di poter ricavarne almeno un “quadro semantico”, una rete narrativa più profonda, seppur magari anch’essa non del tutto delucidata. E’ il perenne circolo dialettico fra contesto e simbolo, fra tutto e parte; una costante dell’ermeneutica. Mi sono accorto allora di quanto sia valorialmente e strutturalmente denso, raffinato e complesso questa testo lessicalmente e stilisticamente semplice e limpido. Siamo in presenza di quattro piccoli quadri vivissimi di colori, immagini, suggestioni e possibili rimandi, intrecciati con mirabile unità e con somma perfezione espressiva. Non so se Jung o Hillman abbiamo mai studiato questo testo, vero e proprio microcosmo iconologico, ma certamente vi avrebbero invenuto anch’essi una ricchezza imprevista, al di là della solita retorica conscio/inconscio, forse mai rigidamente definibile. Andiamo ad apprezzarne la saggezza.
Il primo quadretto è dominato dall’apparizione della cerva. Il poeta, l’osservatore, il narratore, non sappiamo dove sia, sappiamo solo che è soggiogato da questa apparizione totalizzante. Dove si trova la cerva? In un “non luogo”, cosmico e intermedio. Le corna infatti sembrano come intrecciarsi con l’ombroso alloro, anche nel parallelismo archetipico corna/rami, mentre il corpo candido appare come “schermato” dall’acqua che la circonda, resa luminosa dalla luce dell’alba primaverile che sorge. Una cerva quasi invisibile in quanto ha il corpo candido in ombra, le corna d’oro fra l’alloro, e si mostra come circondata da un acqua luminosa. Altra morfologia equivalente a livello formale l’abbiamo fra le due corna e le due “riviere”, che indicano due ruscelli ma pure due rive, e quindi rappresentano il punto di contatto fra terra e acqua. Se osserviamo in senso panottico la nostra cerva possiamo cogliere un'“estensione cosmica” del suo corpo e nel contempo una sua “leggerezza” e delicatezza straordinaria che sembra insinuarsi negli elementi della natura attraversandoli. Lo spazio sembra modellato dalla stessa cerva e sembra articolarsi in senso centrale, come un'irradiazione che si sta sviluppando senza muoversi da una stabile baricentro.
Le allusioni di rimando interno mi sembrano numerose e fittissime: da una parte il maschile oro/alloro, dall’altra la femminile ombra/erba. Non solo: la “stagione acerba” connota di un tempo qualitativo preciso e intenso la scena spaziale e accanto all’idea dell’"acerbo"” quale giovane/fresco/in attesa di maturazione siamo chiamati a giustapporre sia l’"erba" che il "verde" che il colore "candido" che inaugura la scena conclusa dall’"acerbità" del tempo. Incroci, assonanze e opposizioni fanno di questa scena un intricato ma puro arabesco. Il sorgere del sole è una cosa sola con il manifestarsi dell’apparizione la cui luminosità interna e ambientale viene temperata con moderazione dall’ombra e dal tema dell’alloro, dal verde intenso. Se evidenziamo poi la posizione delle parole anch’essa può rivelarsi simbolicamente allusiva: oltre all’oro/alloro, posti in alto, fra le corna, abbiamo erba/acerba, posta in basso, vicino all’acqua colpita dalla luce dell’alba. Il chiasmo è perfetto: l’oro delle corna viene velato dall’ombra dell’alloro, la quale è circondata dalle due acque. Siccome l’oro richiama la luce e viceversa abbiamo allora due luci: la luce del sole che sorge, che si incrocia con i due rivi d’acqua che scendono e che ne moltiplicano la forza, e la luminosità delle due corna d’oro che restano ferme e seminascoste fra l’alloro, la cui parola e la cui simbolicità richiama anch’essa un idea di luce e di gloria.
La forma implicata e strutturale è quindi quella di un doppio Y, che media due movimenti verticali opposti. Non solo: se notiamo nella prima parte della poesia abbondano le parole che contengono la lettera “v”: cerva, verde, apparve, riviere, levando. Andrebbe indagato l’impatto psicodinamico di questa sonorità. Se vogliamo trovarci delle allusioni ermetiche allora non è difficile se pensiamo all’"oro verde" (inizio e fine della seconda strofa, e "oro/alloro" nel finale della seconda e terza strofa) e pure all’"oro in ombra" forse alluso dalle due corna. Fissazione del volatile? Raccolta dell’oro potabile o del “mercurio atmosferico”? Certo è che si tratta di indicazioni più precise rispetto alla semplice immagine della “cerva bianca”, che resta irrelata se ci soffermiamo sulla superficie del testo. Che l’erba e l’acqua diano poi l’idea della freschezza, insieme al candido del corpo dell’animale, e il sole stesso sia colto mentre sale non può che portare a pensare che la “stagione acerba” sia anch’essa una possibile allusione ad un percorso di maturazione trasformativa appena iniziato.
Nel secondo quadretto abbiamo un cambio di baricentro in quanto l’attenzione si sposta sul narratore il quale viene posto in movimento dall’impatto che ha la visione su di lui. Come il primo quadro è dominato da un insieme di “incroci” di opposti, così il secondo quadro riassume la prima visione con un interessante ossimoro: “dolce/superba”. Le anomalie non finiscono qui in quanto il narratore accenna ad una volontà di seguire una cerva che non viene descritta in movimento, ma anzi sembra assai stabile nella centralità della sua visione. E’ infatti l’animus di chi guarda che inizia un percorso di movimento verso un “centro” che è rappresentato dalla cerva candida. Siamo in presenza di un tema commutativo descritto dal passaggio dall’"affanno" al "diletto", dal "lavoro" al "tesoro" e questo passaggio ricorda il tema vangelico del mercante di perle che vende tutto per comprare un'unica perla preziosa che ha trovato (Mt. 13,45-46). Due sono gli ossimori che reggono la seconda scena perché il secondo è implicitamente posto dal tema della contraddizione dell’"avaro" che lascia per la cerva ogni "lavoro".
La visione delicata ma potente della cerva candida induce quindi un'uscita da se stesso in chi la contempla il quale addirittura nega se stesso. Anche qui l’intreccio è fitto, seppur coniugato in un ambito soggettivo e relazione. Chi contempla la cerva lascia ogni altro interesse per concentrarsi nel “seguirla”, cioè nell’adattarsi alla stessa visione per parteciparvi e per farlo paradossalmente deve solo continuare a guardare. Anomalo e apparentemente contraddittorio è anche l’uso che viene fatto dell’immaginario dell’"avaro" il quale viene descritto mentre addolcisce con il "diletto" il suo "affanno". L’avaro cioè può avvicinarsi al massimo tesoro solo sospendendo il suo rovello per i tesori. Sapiente e vangelica contraddittorietà della conversione interiore. Cosa ci insegna la seconda scena della cerva? Che la cerva è un “tesoro” e che può essere compresa solo cambiando il linguaggio (dolce/superba), oppure colta “in negativo”, come parlano di Dio alcuni scritti di Eckhart e di Silesius. Se la prima scena può formalizzarsi spazialmente quale “Centro che inizia ad irradiarsi”, quale “Aurora consurgens” (non a caso termine estratto dal Cantico dei cantici e titolo di un celebre poema mistico-alchemico) la seconda visione, tutta interiore e “de relato”, può visualizzarsi quale “ritorno al centro”, quale movimento endocircolare, di avvicinamento ad un “centro del centro”. Curioso come persino la lettura a livello di “geometria spaziale” del testo possa rinviare a simmetriche metafore alchemiche! Il "disacerbare" infine non può non leggersi in sinergia con i termini analoghi presenti nella prima visione, ad indicare un avanzamento in un processo di maturazione, il quale a sua volta, insieme al tema del “lavoro”, del travaglio (l’"affanno") e del "tesoro", si rivela diffuso topos del linguaggio ermetico.
Con la terza scena il narratore raggiunge il punto di massimo avvicinamento alla cerva candida. E qui incontriamo il “centro del centro” visualizzato dal collo e dal collare di pietre preziose di sfavillante luminosità. Iconologicamente il collo candido circondato da pietre preziose e connesso con un invito al rispetto e ad un implicito ma preciso tema della castitas, è bello accostarlo ad un immagine analogamente potente: l’Allegoria della castità di Memling, probabile precedente tropologico che ha influenzato Leonardo nella realizzazione della Vergine delle rocce: una corte minerale che corona e suggella una sfera di intangibilità interiore. Non a caso nel Cantico dei cantici il collo dell’Amata viene accostato all’immagine di una torre preziosa. Dall’oro e dal colore candido iniziali passiamo agli equivalenti “diamanti” e ”topazi”. Tagliando di netto la trappola del labirinto della simbologia minerale non possiamo però non notare come continui il coniugio allusivo fra “oro” e “argento”, tipico sia del linguaggio mistico (ancora il Cantico dei cantici) che di quello alchemico. L’immagine di forza e di sovranità perfetta data dal doppio cerchio del collo e della scritta minerale viene confermata dal riferimento a Cesare, a sua volta quasi reciproco eco dell’"alloro" iniziale, a sua volta ricco di riflessi, in quanto “lauro”, sia a Laura che all’"Aura".
Utile ricordare una solo caso di simile, e rarissimo, episodio di “scrittura minerale” dato dal guinzaglio del bracco nel bellissimo episodio amoroso e simbolico fra Sigune e Schionatulander nel Titurel di Wolfram von Eschenbach. L’espediente della scritta luccicante che viene letta per noi dal narratore potenzia la scena e rende “parlante” la cerva, e la rivela per un attimo come un'ambasciatrice di un misterioso Impero. La cerva quindi non è semplicemente solitaria, ma seppur colta sola, viene allusa nella sua partecipazione ad un “cosmos”, ad un immaginario preciso. A livello di lettura allegorica storicizzata il richiamo a Cesare potrebbe alludere ad rapporto fra Impero e Chiesa per cui l’Impero tutela la Libertas Ecclesiae, raffigurata dalla cerva, similmente all’Aquila che tiene in mano il pesce nel ciborio di Sant’Ambrogio e al Leopardo che allatta l’agnello nei vessilli imperiali dei Visconti e degli Sforza. A livello morale l’intangibilità di un confine gela l’ansia possessiva; ci libera dall’ossessione del possesso, tema classico in ogni percorso ascetico ed iniziatico.
Questo reciproca delimitazione fra cerva e narratore apre al culmine e alla vertigine della quarta scena. Qui il sole è colto alla sua sommità meridiana. Tutto il viaggio/visione si consuma nell’arco di una mattina, dove non accade nulla se non la visione della stessa visione, ma tutto si trasforma e il tempo e lo spazio si dilatano a dismisura in un “presente eterno”, rivelativo. Le ultime tre strofe sono strutturate attorno a tre termini visivi: il “sole alto nel mezzo”, l’occhio e l’acqua. Tre realtà archetipicamente interconnesse in una linea di verticalizzazione mistica e cosmica. In alto il sole nel mezzo del cielo, al centro l’occhio di chi contempla la cerva candida e, quale polo inferiore, le acque dove il corpo di chi guarda cade. L’occhio è il sole del corpo, entrambi discoidali, il sole è segno della visione di un qualcosa che ci sovrasta, l’occhio è umido come l’acqua, e le due riviere sembrano chiudere a cerchio, oculare, la terra erbosa dove sta la cerva candida. La fine della visione richiama l’inizio. Prima appare la cerva e non sappiamo dove si trovi il poeta. Ora che il poeta è giunto vicinissimo alla cerva, e quindi quasi ne prende il posto, centrale, ella scompare e la sua scomparsa, la sua “evaporazione” coincide con la caduta nell’acqua del poeta. Allusivamente il percorso può ri-raccontarsi come passaggio dall’acerbo/umido al maturo/secco, dall’irradiazione all’implosione/assorbimento, dall’elevazione all’immersione. L’acqua resta il medium, lo specchio spirituale e rivelativo che divide e unisce la cerva e l’occhio che la guarda. Ora che il poeta sa dove si trova, ora che ha visto nella Luce che la cerva reca, ora che il suo occhio è in asse con il sole verticale, ora che si trova anche lui fra acqua e terra, arriva la vertigine, la perdita totale di se stesso, il completamente dell’uscita da sé.
Quale allegoria mistica il cadere nell’acqua, nell’associazione implicita fra stanchezza, morte, luminosità e acqua richiama l’immaginario del sacramento del battesimo quale immersione mistica nella morte di Cristo. Chi entra nella luce non vede più la luce, non ha bisogno più dell’occhio, vive la Luce, movendosi in essa. (Atti, 17,28) Entrando dentro la visione, come Giovanni all’inizio dell’Apocalisse letteralmente “entra” nello Spirito (Ap.1,10), la si vive, la si partecipa, non la si contempla più quale “res” distaccata. E ci conferma pure Dante che “vede” la luce, come fosse una cosa. E l’acqua luminosa delle due riviere entro la quale cade il poeta diventa per lui nuova veste, luce fluida, urna liquida, sostituendo la candida cerva fuggitiva. Le due polarità appaiono così tese a perfetto arco: il sole in tutta la sua massima gloria (che sia lui il “Cesare” della cerva?) e, invece, l’occhio umano nel suo cedere ad una visione soverchiante.
La maturazione del sole è accompagnata dall’aver raggiunto già una maturazione piena di luminosità della cerva con la scoperta del suo collare prezioso. Avviene come un “colpo di sole”. O meglio un “colpo di luce” improvviso, come se un occhio che ceda dopo aver fissato fino all’estremo il sole. Forse non a caso nell’ultima parte della poesia alla posizione alta del sole corrisponde il “tramonto” dell’occhio, e al tema del sole si accosta quello del “mirar”, per cui il narratore mira la cerva come mirasse il sole e, cedendo sotto il peso dell’intensità e della specialità della visione deve per forza spostare lo sguardo verso l’acqua, la cui luminosità meridiana e la cui trasparenza richiamano il luminoso candore dell’intangibile cerva. Al rispecchiamento occhio/cerva subentra la sottomissione al rispecchiamento sole/acqua. Un termine rimane fisso, l’acqua e la cerva, pur nel suo misterioso “scomparire” e un termine muta: il sole e chi contempla. Quando la cerva si trova come “fuori dell’ombra”, in quanto la scena è ora tutta dominata dalla luce, allora l’occhio si chiude, proprio nel massimo compimento della visione, e chi ha oltrepassato l’ostacolo, l’acqua, ora ad esso si unisce, entrando a far parte dello stesso microcosmo in cui la cerva è apparsa. Se il narratore “cade” nell’acqua significa che era già nell’acqua o assai prossimo ad essa, come la cerva. Sembra alludersi il fatto che il narratore si trovasse “nel guado” mentre cade. Come il sole è nel cuore del giorno, il poeta era nel mezzo del ruscello. E’ caduto per aver voluto avvicinarsi troppo all’intangibile e sfuggente cerva? Possibile, ma il tono non è sanzionatorio, in quanto il “mirar” continua, non è mai interrotto, e sembra “sciogliersi” naturalmente per sfinimento, per raggiungimento del limite umano estremo. Come il sole raggiunge il polo più verticale così l’occhio scende verso il polo più inferiore: quell’acqua che conteneva e “delimitava” la cerva all’inizio. Interessante è il ritorno dell’aggettivazione identitaria: “miei”.
Dopo l’annichilimento iniziale torna il senso di se stesso nella crisi finale. Forse la cerva svanisce proprio quando riemerge la percezione di sé nella stanchezza dello sguardo. Fra “m’apparve” e “miei” l’individuo resta annichilito in un'apocalisse vivisa. Certo è che il narratore cade appena dopo aver letto il monito a non toccare la cerva. Cade in mezzo al bagliore del collare prezioso, al bagliore del sole e dell’acqua. Cede in mezzo a tre sorgenti di luce, come circondato. Il tutto avviene infatti, a livello di simbolicità spaziale, dentro un Centro i cui confini e la cui semantica sta a noi ora meditare e rintracciare in sempre nuove formulazioni. Solo ora, dopo aver allargato, lo sguardo possiamo apprezzare più sensibilmente la dinamica dialettica del celebre salmo 41 dove l’acqua diventa il luogo cangiante e metamorfico dell’incontro/scontro fatale fra immanenza e trascendenza, fra Anima e Animus per dirla con Hilman, fra vocazione/annuncio e compimento. Il “corso d’acqua” quale processo rivelativo ed edenico che “tiene in unità” la tensione ideale fra le due polarità tipiche di ogni Apokalipsis: l’Alfa dell’invocazione /canto, del “vangelo” e l’Omega della realizzazione, del raggiungimento del limite/fine che è unione di Volontà ed Essere.
Non a caso Telete è il nome della figlia di Dioniso e di Aura secondo Nonno di Panopoli e non a caso Cranach ci ricorda come sia vicino al fiume il luogo di appostamento migliore per trafiggere il cervo con la balestra. Può darsi indiamento senza ferita? Può Laura essere solo destinataria fisica di temi allegorici e non porsi ella stessa quale allegoria? La cerva scompare quando il sole è quasi a mezzogiorno, quando si approssima il dileguamento dell’ombra, quando emerge il kairos del tempo meridiano che da Pan all’Annunciazione cristica è sempre il tempo atemporale dell’epifanìa e del sogno, quando l’occhio umido di chi contempla cede e così dissolve l’unità, con i due ruscelli, del cerchio liquido che cinge la cerva stessa, quando l’Acqua diventa incontro pericoloso non solo per la preda ma per lo stesso oculare predatore. Il testo può leggersi strutturalmente anche in senso più ampio e nel contempo secondo un approccio strutturale più formalmente preciso e analitico. La struttura complessiva della poesia infatti si fonda sull'incrocio e sul rispecchiamento. Anche il suo articolarsi in due quartine seguite da due terzine non è senza significato in quanto segue la principale numerologia del 3 e del 4, già apprezzata dai pitagorici in senso ierogamico e fondamentale per il Cristianesimo a livello di allegoria delle virtù e delle arti liberali. Se consideriamo l'andamento dei versi secondo una logica di spazialità simbolica vediamo chiaramente come il baricentro della narrazione si sposti alternadosi fra un centro e un "contorno": cerva/erba, corna/riviere, alloro/sole. Il ritmo strutturale segue il segno del cerchio e della sfera e sembra mutuare dal battito cardiaco e dal respiro il proprio equilibrio compositivo.
Lo sguardo si sposta ora sulla cerva e ora sul suo habitat per poi tornare alla cerva in una progressione che si allarga in modo spiraliforme per cerchi concentrici, come nell'andamento narrativo dell'Apocalisse di Giovanni e come accade per la sezione aurea nella lumaca e nel nautilus. Questa alternanza diventa rispecchiamento perfetto se consideriamo le quattro partizioni del testo. La prima è dedicata alla cerva, la seconda al poeta, mentre nella terza torna protagonista la cerva e nell'ultima è ancora il poeta il baricentro del racconto. Abbiamo invece il modulo dell'incrocio ad esempio all'interno della seconda quartina nella cui seconda parte possiamo considerare in diagonale la relazione fra diletto/tesoro e fra avaro/disacerba. Questo modulo non è invenzione di Petrarca ma deriva dalla tradizione logica medioevale di stampo aristotelico che sarà portata ai massimi livelli dalle macchine logiche di Raimondo Lullo.
Si tratta di "quadrati" relazionali fra proprietà e qualità dell'essere. Ne faccio un esempio: il quadrato di relazioni fra causa/caso/necessità/libertà o i quattro tipi di cause e di criteri ermeneutici. Questo sonetto è massimamente filosofico in quanto simbolico e viceversa. L'erba è verde in senso sostanziale, ontologico, e infatti viene accostata all'aurora e la cerva ha il colore dell'aurora in quanto precede il sole annunciato dalle sue corna auree. Tutto concorda fra Essere e suo accidente, fra Qualità e sue proprietà e attributi, fra tempi e situazioni. L'erba è verde perchè la primavera è acerba ed è fresca perché verde e fra due rivoli acquei. Il colore è una manifestazione credibile dell'Essere, non un'illusione percettiva. La prima terzina introduce un nuovo tema ma conserva la struttura circolare fra il "d'intorno" luminoso ed eloquente delle pietre che continua il senso circolare delle due riviere e anticipa la circolarità e globularità della seconda terzina fra sole, occhio e acque. Il collare di pietre preziose diventa come il centro della poesia congiungendo luce, idea del tesoro e irradiazione nella massima unità, mentre la seconda terzina realizza un equilibrio verticale fra secco e umido nell'elemento centrale: l'occhio.
Il testo inizia e finisce con il tema della luce e dell'acqua. Probabilmente siamo in presenza di un'allegoria battesimale. Non era la cerva e la fonte/sorgente uno dei simboli cristiani e biblici più antichi e di maggior successo figurativo? La struttura complessiva di questa piccola e immensa opera può sintetizzarsi in un punto posto al centro di due cerchi concentrici. E' lo stesso emblema geometrico dell'"oro filosofico" degli alchimisti. Se poi proviamo ad elencare gli elementi narrativi essenziali di ciascuna partizione della poesia assistiamo ad una mistica "reductio ad unum". La prima quartina infatti include quattro "elementi chiave": la cerva, l'erba/alloro, riviere/candida/acerba e oro/sole. La seconda quartina presenta due elementi essenziali in complementarietà: diletto/tesoro/dolce-superba e lavoro/affanno/avaro. Il "disacerba" connette la seconda quartina alla prima in un senso di graduale sviluppo maturativo. La prima terzina si focalizza anch'essa su due fattori di base: la cerva/collo e Cesare/pietre preziose. L'ultima terzina tende all'unità metafisica e cosmica assoluta per la già accennata assimilazione fra sole/occhio/acqua e per il parallelismo vedente/visione fra il cadere nell'acqua e lo scomparire della cerva. Il poeta in questa crisi mistica si immerge così profondamente nella visione da assimilarsi dalla cerva. La vertigine della canicola corrisponde alla morte mistica del battesimo, dell'"entrata" nel Mistero.
Tortona, 10 giugno 2013