Fondi di caffè, carta di castagne, gesso di Bologna, inchiostro, cemento Fondu, cotone, acrilico, carta cinese, lino. Questi sono i materiali vivi di cui Francis Offman, artista ruandese, classe 1987 ama servirsi per le sue opere pittoriche; ora in mostra con la prima personale alla galleria P420 di Bologna.
Un artista, che da un percorso di studi in scienze dell’amministrazione, ha scelto di dedicarsi a quelli artistici, stimolato anche da un clima culturale fervido come quello bolognese. Figlio di un operatore Onu, Francis Offman attraverso le sue narrazioni visive ci racconta di un prodotto sociale, quello pittorico, un costrutto complesso e articolato proprio come un’organizzazione internazionale, radicato tra profondi intrecci di potere e immaginazione.
Trovandosi di fronte ai lavori di Offman si avverte un innegabile e forte senso di astrazione visiva, dove nessuna immagine attinente al reale può esserci restituita in una forma completa. Quello a cui assistiamo, invece, è una frammentazione liquida di un retaggio visuale concreto, appartenente al vissuto dell’artista. Di fatto siamo dinanzi a forme concrete, reali. Potremmo definirli “possibili paesaggi”, o riflessioni su esso, sulle stratificazioni che esso comporta.
Il lavoro di Offman è un concentrato di stratificazioni, sia di materiali che di livelli visivi. I materiali che l’artista utilizza, sono tutti di scarto, perlopiù donati, che innescano già intrinsecamente una stratificazione concettuale composta da relazioni. Pensiamo, ad esempio, proprio ai fondi del caffè, quest’ultimo, un prodotto tra i più mercificati, trasportati, modificati del mondo. Il caffè che trapassa i confini e li confonde, proprio come Offman fa con la pittura: ne annienta i limiti, restituendone variazioni infinite. Come un’equazione che si apre all’immaginazione.
Anche Simone Frangi nel testo critico che accompagna la mostra sottolinea: “Come sostiene Jessica Sartriani in un recente testo sulla pratica di Offman, “un pacchetto di caffè rappresenta una mappa” poiché, caduto il mito della “purezza” del prodotto coloniale per eccellenza estratto dall’esotica e sottomessa Etiopia, ogni contenitore trasporta una miscela: la polvere è dunque una cartografia transcoloniale, che lega nodi tra diversi settlement europei in Africa, in Asia e in Abya Yala, luoghi d’espropriazione e di appiattimento colturale/culturale attraverso l’imposizione delle monoculture, e che getta luce sulle relazioni costitutive tra colonialismo, piantocene e tratta transatlantica e transmediterranea di corpirazzializzati.
La pittura di Offman è una variabile che ama mettersi in relazione con la complessità della materia. Nella materia esplorata da Offman c’è movimento, trasformazione, trasposizione, c’è azione del gesto: compiuto e subito. C’è un eterno scambio di storie parallele che hanno un’origine lontana, ma improvvisamente vicina nello stesso attimo di visione. La pittura di Offman è quindi anche un’indagine sul tempo; del tempo che abbatte la retorica stucchevole e capitalista del confine.
I possibili paesaggi astratti che intravediamo nella pittura di Offman sono definibili come “paesaggi di passaggio”: instabili, precari e plurimi. Sono “paesaggi-profilo” che ci riportano alla terra originaria dell’artista, l’Africa con i suoi intrecci, i suoi colori caldi e vivi, le sue difficoltà, le sue lotte, le sue architetture naturali costituite da composizioni essenziali, semplici e imponenti.
Quella di Offman è una cartografia intenzionata a farci perdere orientamento, contro ogni forma di direzione, di confine, che rende visibile l’essenza profonda e originaria della pittura.