Nun ti scantàri: non aver paura. È la rassicurazione che potreste ricevere in Sicilia da chi parla il suo iridescente dialetto, lingua consacrata in ambito letterario dalla Scuola poetica sorta nel Medioevo alla corte di Federico II a Palermo e che, nell’ambito del suo uso aristocratico, fu definita proprio da Dante “lodevolissima”1.
Il verbo scantàri deriva da un curioso sostantivo che nel vernacolo dell’isola indica una paura improvvisa, uno spavento: lo scantu. Ciò che però è interessante e tutt’altro che immediato da interpretare è la sua etimologia.
Dal Vocabolario siciliano etimologico2, risalente al diciottesimo secolo, apprendiamo che lo scantu deriva dalla parola canto e più propriamente da un tipo di procedimento magico. Infatti, così come il verbo incantare ha il significato di “mettere in movimento qualcosa con un canto magico”, il suo contrario, il verbo excantare (da cui scantare) vale come atto di “distruggere con incantesimi” e più propriamente di “far uscir di senno”. Coloro che sono soggetti allo scantu, ci dice il linguista del Settecento, sembrano infatti come “colpiti da un fulmine”.
Se è certo che l’italiano canto deriva dal latino cantus, participio passato del verbo canĕre, cantare, è pur vero che l’omofono canto, nel senso di angolo o spazio laterale, deriva da un altro “canto” che la lingua latina riceve in prestito dal greco, e cioè il sostantivo canthus (dal gr. κανθός) che vale come angolo, angolo dell’occhio ma anche, curiosamente, come cerchio, nello specifico il cerchione di ferro della ruota.
Se prendiamo come buona la misteriosa sovrapposizione o interferenza dei due significati, avremo allora che lo scantàri equivale alla lettera e nello stesso tempo ad uno “stare fuori” (è il valore di ex) dal cerchio, dall’angolo e dal canto.
Come si giustifica un simile paradosso? La risposta, secondo noi, è da ricercare nelle dinamiche del pensiero magico antico, del tutto incline per un verso a recepire gli assiomi della matematica come regole di orientamento spaziale e psichico, così come propenso dall’altro ad accogliere, quasi cabalisticamente, le curiose coincidenze di parole affini per suono e destinate pertanto a celare in sé stesse il messaggio sibillino di una consonanza di significati.
Per tale via il canto dello scantu è contemporaneamente cerchio, angolo e canto. Cerchiamo brevemente di capire il perché.
Isidoro di Siviglia nelle sue preziose Etymologiae, nella sezione dedicata alla Mathematica, ci rivela che il numero centum deriva da canthus: il cerchio3. Lo stesso Isidoro ci porge subito la chiave per comprendere l’etimo della parola cantus in relazione all’omofono canthus4. Il canto, secondo lui, non è che una inflexio, cioè un movimento ricurvo della voce che invece di procedere in modo rettilineo come fa il suono che la precede, si piega incurvandosi.
Se volessimo ricavare dalle parole del più grande etimologista del Medioevo uno degli assiomi che per millenni ha fondato i presupposti della magia naturale, avremmo allora il seguente principio: se il canthus è il cerchio della ruota prodotto da una linea materiale (il ferro) che qualcuno ha piegato (dal greco κάμπτω: io piego), analogamente il cantus è il cerchio della voce prodotto da una linea “immateriale” (il suono) che qualcuno allo stesso modo ha piegato, cioè “inflesso”.
Per millenni questo è stato il principio di somiglianza che ha sorretto il pensiero magico.
Che valore dare dunque al cantu contenuto per privazione nello scantu? Come testimonia la copiosa letteratura antica e medievale, il cerchio è sempre stato un simbolo fondamentale sia nella tradizione cosiddetta popolare che nella letteratura biblica, in quella letteraria e, non meno, nella speculazione scientifica dei dotti di tutti i tempi.
Nell’ambito delle antiche ritualità, il cerchio è certamente la figura atta alla recinzione di persone o cose con funzione di protezione. Dagli sciamani e dai profeti del Giudaismo, per restare in ambito occidentale, un cerchio veniva tracciato intorno agli individui per proteggerli dalle influenze negative. Un cerchio, si è giunti ad argomentare, è stata forse la misteriosa figura disegnata sulla sabbia da Cristo per proteggere l’adultera dai suoi accusatori. Sempre un cerchio, infatti, nei vangeli apocrifi è quello con cui l’apostolo Pietro avrebbe catturato sette demoni nella città di Azotus, rivelando la conseguente funzione di imprigionamento e recinzione che l’antichità tributava alla forma circolare.
Nell’archeobotanica magica tre cerchi tracciati nella terra attorno alla radice erano quelli atti a proteggere la mandragora durante la sua raccolta. E i circoli di pietre, da quelli delle fate a quelli degli orologi astronomici come Stonehenge, erano ritagliati come spazio sacro circolare separato dall’orizzontalità profana.
Ma c’è una fonte mitologica ancora più determinante che ci permette di equiparare il cantus al canthus: il mito di Anfione. Le mura della città di Tebe sarebbero state infatti oggetto di una costruzione affatto particolare. Anfione, racconta Orazio5, mediante il suono della cetra avrebbe messo in movimento le pietre che si sarebbero aggregate attorno alla città in forma di mura di protezione proprio grazie al suono o al cantus.
Come allora l’incanto ha messo in moto la melodia primordiale la cui traccia rimane nei miti di Orfeo e Anfione, così il primitivo excanto, che ad esso etimologicamente si oppone, deve aver acquistato il senso dell’uscita dalla melodia stessa, l’infrazione della cinta muraria che proteggeva materialmente le città e psichicamente gli individui.
Che senso dare allora all’angolo che pur è silentemente implicato nella nozione latina di cerchio e di canto? Ci vengono in aiuto ancora una volta le radici “magiche” dell’antica architettura così come si evince da descrizioni come quella biblica del tempio di Salomone le cui prescrizioni hanno per secoli ispirato i costruttori di basiliche e cattedrali dell’era cristiana.
Già nella più antica pratica astrologica si usava tracciare gli oroscopi o zodiaci, che sono com’è noto cinture circolari, in forma di quadrati in modo che ad ogni angolo o canto del quadrato venissero raggruppati tre dei complessivi dodici segni.
Nell’ambito dell’architettura simbolica con cui venivano e verranno nei secoli costruiti gli edifici religiosi, la forma circolare veniva ricavata quindi dalla “quadratura” dello spazio, in particolare dopo aver espletato il rito che in tutte le tradizioni religiose del Pianeta si è sempre rivelato la pratica preliminare alla sacralizzazione dello spazio stesso: la definizione dei quattro punti cardinali.
Quando dal quadrato spaziale si sarebbe infine ricavato il cerchio, l’evento sarebbe valso agli occhi degli antichi come un tipo di azione “miracolosa” sì, ma in senso potentemente matematico, un’azione che non a caso ha popolato le prove e gli sforzi di appassionati e geniali artisti come Leonardo da Vinci6. Si sarebbe cioè ottenuta, in qualche modo che ancora sfugge alla moderna comprensione, la “quadratura del cerchio”. Il quadrato avrebbe finito cioè con il trascendere la propria terrestrità diventando la figura che per sua natura matematica è composta da infiniti punti e che in tal senso supera la quaternità stessa: il cerchio.
Quando nel pensiero magico un quadrato diventa cerchio, l’angolo o canto del quadrato diventa per conseguenza un punto del cerchio. Il canto, diventando un punto del cerchio, giunge ad essere all’interno di questa stessa logica “in qualche modo” il cerchio stesso. Ci troviamo così sorprendentemente di fronte ad un’altra legge “magica” della scienza antica: la parte coincide con il tutto, e ciò in ragione di quella che per gli antichi era la legge di contiguità.
Quali immagini implicite possono aver dunque anticamente legittimato la nascita di espressioni perfette e primitive quali sono lo scantu e lo scantàri? Difficile spiegarlo a parole e addirittura pericoloso. Necessario però per chi vuole approdare sull’Isola e aspira a ottenere la formula. Tra tutte la più potente è il comandamento che si può offrire a sé stessi e che recita così:
Nun ti scantàri.
Note
1 De vulg. I, XII, 6.
2 Vocabolario Siciliano etimologico, Italiano e Latino, a cura dell’abbate Michele Pasqualino, Stamperia Reale, 1790 Parma, Vol. 4, s. v. scantu.
3 Etym. III, 3, 5.
4 Ivi, III, 20, 8.
5 Ars Poet., vv. 394-396; vedi anche Stazio, Theb. VIII 232-233, X 873-877.
6 Cfr. Codex Atlanticus, 45 v. a, 85 r. a.