Nel 2000 la seconda (in ordine di dimensioni) compagnia petrolifera non statale al mondo, la British Petroleum, ingaggiò i professionisti della comunicazione Ogilvy & Mather perché promuovessero in qualche modo l’idea che la responsabilità del cambiamento climatico non fosse da attribuire a un gigante dell’industria petrolifera come loro, ma - rullo di tamburi - ai singoli consumatori.
Il risultato fu un’immensa campagna mediatica che coniò il termine “carbon footprint” (in italiano anche noto come impronta di carbonio) per indicare il livello di emissioni legato a una persona, a un prodotto, a un servizio. Nel 2004 rilasciarono un “carbon footprint calculator” così che chiunque potesse misurare quanto stesse impattando sull’ambiente per andare al lavoro, fare la spesa, viaggiare.
L’intera campagna pubblicitaria faceva uso del pronome “tu”, mai “io” o “noi”: la British Petroleum si è così linguisticamente rimossa da qualsiasi ammissione di responsabilità in materia di surriscaldamento globale. E “carbon footprint” è diventato parte integrante del vocabolario ecologista, del quale fa parte tutt’oggi.
Caso isolato? Negli ultimi anni, messi alle strette dalla pressione ad agire in contrasto al vertiginoso aumento delle temperature, molti Stati e molte aziende nazionali e internazionali hanno iniziato a sottoscrivere dei “climate pledge”, degli impegni per il clima, in cui promettono di darsi da fare per raggiungere il target zero emissioni nette entro i prossimi decenni.
A prima vista potrebbe sembrare un risveglio collettivo: si stima, del resto, che oggi un quinto delle 2000 maggiori compagnie a livello mondiale abbia avanzato qualche forma di impegno climatico, con il risultato di un calo stimato del 25% delle emissioni dal 2015 al 2019. Tuttavia, il ritmo di queste prese di coscienza, sostengono gli scienziati, è ancora troppo lento e implica inoltre un pericoloso spostamento dell’attenzione dalla riduzione delle emissioni necessaria ora alle speranze per un futuro prossimo ancora lontano.
L’impegno a parole, tuttavia, non corrisponde a un cambiamento significativo. Secondo uno studio di MSCI pubblicato lo scorso luglio, dall’analisi di 9300 aziende è emerso come il trend si riconferma quello di un rapido esaurimento del “carbon budget”, vale a dire le emissioni ancora disponibili per mantenersi in linea con l’impegno di mantenere l’aumento sotto il limite di 1.5 °C. Si prevede che sarà esaurito entro i prossimi sei anni.
In un’analisi di alcuni dei più grandi responsabili delle emissioni di gas serra del mondo, il gruppo di investitori Climate Action 100+ ha scoperto che nessuna azienda ha reso completamente noto come prevede di raggiungere le emissioni zero: molto spesso si tratta di impegni a lungo termine, con scadenze pluridecennali e pochi obiettivi intermedi, per i quali un effettivo monitoraggio dell’efficacia può rivelarsi molto difficile.
Alcuni dei climate pledge più audaci fanno affidamento su tecnologie di rimozione del carbonio che ancora non esistono, o almeno non nelle dimensioni necessarie. Molti altri dipendono pesantemente dalle pratiche di “carbon offsetting” (o compensazione di carbonio), come piantare alberi o proteggere le foreste per contrastare le loro stesse emissioni: progetti molto spesso accusati di contabilità irregolare, di "greenwashing" e a volte perfino di alimentare attivamente il cambiamento climatico.
Inoltre, si tratta di impegni su base volontaria. Segno di buona volontà per alcuni, per altri di uno sforzo di autoregolamentazione per scongiurare interventi governativi. Fino ad arrivare a vere e proprie campagne di disinformazione. Le cinque più grandi compagnie petrolifere quotate in borsa hanno speso più di un miliardo di dollari in branding ambientale e lobbying ingannevole nei tre anni successivi all'accordo di Parigi del 2015, secondo un rapporto del 2019 di InfluenceMap.
Le aziende, possiamo concludere, non possono essere lasciate sole ad affrontare il cambiamento climatico. Le proporzioni sono troppo ampie perché si continui a posticipare un deciso intervento normativo coordinato a livello internazionale. Basti pensare che l’umanità oggi emette circa 40 Gt di CO2 (40 miliardi di tonnellate) all’anno. Ma non parliamo di umanità in generale: il 71% delle emissioni industriali globali di gas serra dal 1988 è stato imputato a sole 100 aziende private e statali legate ai combustibili fossili.
Ancora peggio: un'indagine del Guardian del 2019 ha rilevato che 20 compagnie di combustibili fossili, tra cui Chevron ed ExxonMobil, sono da ritenere responsabili di più di un terzo delle emissioni di gas serra dal 1965 - al punto che, secondo gli esperti, non potevano non essere consapevoli del legame tra i loro prodotti e il cambiamento climatico.
Quello che si è ottenuto, a livello legislativo sovranazionale, è l’obiettivo definito dall’Accordo di Parigi di mantenere l’aumento medio della temperatura globale al di sotto di 2 °C rispetto al livello pre-industriale, puntando a limitarlo a 1.5 °C (soglia confermata dal recente G20). Ciò comporta la riduzione delle emissioni di gas serra di almeno il 90% entro il 2050 e la rimozione dall’atmosfera delle rimanenti, quelle che non è tecnicamente o economicamente possibile abbattere.
È per questo motivo che si parla di “emissioni nette”: perché anche in un futuro fortemente decarbonizzato resterà una quota ineliminabile di gas serra che dovrà essere compensata in altri modi.
Si tratta principalmente delle cosiddette NETs (Negative Emissions Technologies). Tra queste, sono comprese alcune soluzioni ancora in fase di ricerca o di sviluppo, dagli effetti e dalla praticabilità controversi, e che in generale saranno comunque molto costose se applicate su larga scala (BECCS, Enhanced Weathering, DACCS).
L’alternativa, molto più realistica, efficace ed economica, è ormai arcinota: piantare alberi. Che oltre a compensare le emissioni inquinanti, provvedendo al sequestro diretto dell’anidride carbonica dall’atmosfera, affronta contemporaneamente un altro problema ambientale molto serio: la deforestazione. Ma non è esente da criticità.
Innanzitutto, una speculazione: quanti alberi potranno essere piantati perché crescano per davvero, senza ridurre troppo la superficie agricola necessaria per sfamare una popolazione mondiale in crescita, e perché assolvano in maniera efficace al loro compito di assorbire il biossido di carbonio?
Ad oggi, non è possibile sapere quanti alberi possano essere piantati senza mettere a rischio la sicurezza alimentare mondiale, e specialmente quella delle regioni più povere. Un’idea spesso avanzata è quella di sfruttare le aree marginali, prive di foreste, ma contiene una potenziale contraddizione logica: perché su quei suoli non crescono alberi? Sono aree di pascolo? O troppo aride? Troppo scoscese? Troppo ventose?
Anche prendendo in considerazione i più ambiziosi scenari di forestazione e facendo stime ottimistiche sulla loro crescita e sui tassi di assorbimento, si avrebbe una sottrazione annuale di biossido di carbonio dell’ordine di 7.5 Gt, una briciola a confronto delle 40 prodotte annualmente.
E non è finita: ci sono aree naturali in cui piantare alberi sarebbe addirittura dannoso. Alle alte latitudini, coperte di neve per molti mesi all’anno, le foreste riducono l’albedo (vale a dire la riflessione della radiazione solare verso lo spazio) e favoriscono quindi un riscaldamento maggiore della superficie. Questo, nella regione artica, potrebbe portare alla fusione del permafrost e al rilascio delle enormi quantità di carbonio che attualmente immagazzina.
Inoltre, è dimostrato che limitare la deforestazione è molto più efficace che promuovere la riforestazione: le vecchie foreste sono depositi secolari di anidride carbonica, immagazzinata nel suolo e nei tronchi. Tagliare alberi significa non solo ridurre drasticamente l’assorbimento del biossido di carbonio, ma anche favorirne un immane rilascio. Un effetto simile hanno anche gli ormai frequenti incendi boschivi.
Piantare alberi, così come la meno realistica opzione di sequestrare carbonio dall’atmosfera con l’aiuto di tecnologie innovative (anche detta CDR, o Carbon Dioxide Removal), pone più criticità di quelle che utopisticamente promette di risolvere. Sono un lasciapassare per i policy maker e per tutti i maggiori responsabili delle emissioni mondiali, che si sentono autorizzati a rimandare di anni o addirittura decenni l’implementazione di azioni concrete, certi che sia solo questione di tempo perché le emissioni siano compensate senza bisogno di ridurle.
Di base, inoltre, questo ragionamento contiene un grosso errore: una tonnellata di CO2 prodotta non equivale a una tonnellata di CO2 rimossa. Per esempio, quando il carbonio è immagazzinato nelle foreste o nel suolo per compensare le emissioni legate ai combustibili fossili, c'è un disallineamento di tempistiche. Ci vogliono anni, a volte anche decenni, perché queste tecniche biologiche comincino a rimuovere e immagazzinare carbonio in quantità significative. E di fronte alle perturbazioni climatiche già esistenti, come incendi e inondazioni, stanno diventando sempre più inaffidabili, in quanto comportano un rischio sempre maggiore di rilasciare rapidamente il carbonio catturato.
E in tutto questo, c’è da considerare che l’obiettivo zero emissioni nette entro il 2050 non è nemmeno sufficiente: se non riduciamo drasticamente le emissioni fin da subito, nel giro di dieci anni avremo superato la soglia oltre cui non sarà più possibile contenere l’aumento delle temperature sotto 1.5 °C. Anzi, alcuni studiosi sostengono che potremmo già averla superata: il nostro sistema climatico possiede una sua inerzia e molto probabilmente non abbiamo ancora sperimentato tutto il riscaldamento corrispondente alle forzanti radiative presenti oggi.
Le previsioni sull’andamento delle temperature sono molto drastiche, nonostante il significativo impegno all’inversione di tendenza. Nel 2014, prima dell'Accordo di Parigi, eravamo sulla buona strada per riscaldare il Pianeta di quasi 4 °C entro la fine del secolo, un risultato considerato catastrofico. Oggi, siamo scesi a 3 °C: una tendenza nettamente migliore, considerato anche il breve tempo di intervento, ma ancora potenzialmente devastante.
Se aziende e Stati dovessero rispettare alla lettera i loro climate pledge, pur con tutte le difficoltà sopra analizzate, il mondo potrebbe riuscire a limitare il riscaldamento totale a circa 2-2.4 °C entro il 2100. Che è un risultato ancora incommensurabilmente lontano dal limite di 1.5 °C entro il 2050: l'IEA (International Energy Agency) stima che le attuali politiche ambientali ammontano solo a un quinto dei tagli alle emissioni necessari per rispettarlo.
C’è chi, per tamponare, suggerisce di ricorrere alla geoingegneria solare, una misura temporanea per ridurre i picchi di temperatura, le tempeste estreme e altri effetti meteorologici del cambiamento climatico. Consiste nell’aumentare la capacità di riflessione dei raggi solari dalla Terra aggiungendo gocce di acido solforico nella stratosfera mediante aerei, sbiancando le nuvole a basso livello sopra l'oceano spruzzando sale marino nell'aria e sfruttando altri meccanismi simili. Ma è solo per tamponare e certamente non per risolvere.
Il cambiamento climatico è una gravissima minaccia agli ecosistemi e alla nostra stessa sopravvivenza. È di primaria importanza provvedere il più presto possibile a misure drastiche di riduzione delle emissioni: si stima che sia necessario almeno il 10% di emissioni in meno ogni anno. L’attenzione deve essere distolta dagli apparentemente prossimi ma in realtà lontanissimi obiettivi di metà secolo e riportata al qui e ora.
Le nazioni ad alto reddito, oltre a provvedere a una riduzione interna delle emissioni, devono incrementare i contributi finanziari per il clima ai Paesi a basso reddito. Dobbiamo, come società mondiale, rifiutare le logiche di carbon offsetting tra Paesi ad alto e basso reddito e sostituirle con iniziative concrete basate su prove scientifiche, che tengano conto di un “carbon budget” limitato e che ragionino in un’ottica di giustizia climatica globale.
Il tempo per intervenire si esaurisce in fretta.