Gli italiani della mia generazione si ricordano bene di quel ritornello dell’ormai storica canzone di Francesco de Gregori intitolata La leva calcistica del ‘68: il ritornello, orecchiabile come solo un aforisma sa essere, ricorda che non occorre soffermarsi sui particolari più superficiali per giudicare la grandezza di un giocatore. Chiaramente, per esteso, la metafora usata dal cantautore romano ci rammenta che ogni essere umano, per giudicarne un altro, deve concentrarsi sulla sostanza e che i particolari spesso sviano da un giudizio oggettivo. È vero, per carità ma solo in parte: perché è proprio da alcuni particolari che a prima vista possono sembrare minimi, inconsistenti, quasi accidentali che è possibile scorgere la vera genialità e l’eccellenza. Come dire: il giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia ma il genio lo scopri da tutte queste cose più alcuni particolari unici e originali, che solo degli occhi che già hanno conosciuto la genialità sanno scorgere.
Ad accompagnare questo mio articolo troverete un’immagine. È raffigurato un particolare fortemente ingrandito di una delle splendide opere di Vittore Carpaccio esposte nella Sala delle Gallerie dell’Accademia di Venezia: l’opera è intitolata Ritorno degli ambasciatori alla corte inglese. Nel suo complesso si tratta di un grande telero ad olio di circa tre metri per cinque, ispirato ad uno degli episodi relativi alla storia di Sant’Orsola.
La sala è di per sé meravigliosa: se amate la bellezza e l’arte vi consiglio vivamente di visitarla. Vi immergerete in una sorta di Cappella degli Scrovegni datata 1495 in cui la coralità di tutte le tele che la compongono perimetralmente si fonde con la dovizia dei particolari che solo un genio come Carpaccio era capace di rendere, oltre all’uso armonico e vivace dei colori e un incredibile equilibrio tra le forme, tra i vuoti e i pieni, tra le folle e gli eremiti, tra le luci e le ombre.
In un ambiente immersivo e coinvolgente come questo, cari lettori, ci si può tranquillamente perdere. È una sorta di labirinto, colmo di sinfonie cromatiche che coronano i sensi fino quasi a far svenire lo spettatore. Consiglio vivamente di affrontare quest’esperienza stando attenti a non cadere nei due tranelli opposti, rappresentati rispettivamente dal perdersi e restare annichiliti di fronte al caos fermo che ci circonda e il fuggire dalla sala, come spaventati da cotanto splendore. Sono queste, infatti, le reazioni più diffuse tra i visitatori ed è un peccato, vi assicuro.
Godendo della visionarietà dell’insieme, potete provare invece a concentrarvi e a percepire la forza della moltitudine dei personaggi storici rappresentati, dell’esotismo dei paesaggi, della Venezia rinascimentale mischiata all’oriente misterioso ed enigmatico, dalle architetture folli dei palazzi, dei ponti, delle mura merlate e poi soffermatevi su alcuni punti di questi splendidi oli; troverete angoli apparentemente meno chiassosi, oserei dire proprio silenziosi, in disparte e ai lati della scena centrale. Sono i punti dove l’artista ha in realtà concentrato maggiormente la propria attenzione per estrapolarne sensazioni desuete, inaspettate, come l’ironia, a volte il disincanto, soprattutto lo spirito di libertà, l’aspetto meno digeribile da parte dei committenti interessati unicamente alla pedissequa citazione storica delle scene, dei protagonisti, dei santi e dei soldati.
Provate ad osservare, per esempio, la meraviglia di questi due animali posti in modo ben poco appariscente nella parte inferiore destra dell’opera: in primo piano, passeggia tranquillo e noncurante un volatile, su un piano posto tra l’osservatore e la folla raffigurata; l’uccello non è per niente disturbato dagli schiamazzi, dal movimento delle persone. È come avulso dall’umanità, in generale. Dietro l’elegante e un po’ altezzoso pennuto, ecco comparire un’incredibilmente ironica e malinconica scimmia, quasi a impersonare una primitiva umanità scoraggiata, sconsolata e rassegnata alla finzione e artificiosità della vita sociale che l’uomo d’allora (ma vogliamo dire che oggi è diverso?), contemporaneo al Carpaccio, svolgeva.
Ad aumentare l’effetto dissacrante della scena, il pittore rappresenta il mesto primate vestito di tutto punto con un costume antropomorfo. Viene un po’ da ridere e un po’ da piangere. Oggi come oggi un effetto simile me lo danno i cappottini rossi dei cagnolini al guinzaglio delle sciure in ghingheri che, non potendo rivestire di ridicolo i figli, si sfogano con il loro amico silenzioso e fedele (fedele per istinto, naturalmente: fosse dotato in sé dello spirito della libertà, ne sono certo, sarebbe già fuggito da tempo).
Quando parlerò dal vivo nelle prossime conferenze di questa e altre meravigliose opere del passato, aggiungerò altri particolari. Faccio però notare ancora una cosa: è consuetudine, nella parte inferiore destra di un’opera, che l’artista ponga la propria firma. In questo caso Carpaccio, proprio in quel preciso punto, vi ha raffigurato la famosa scimmia sconsolata. Un minuscolo e prezioso dettaglio che ai miei occhi d’artista, di studioso del settore e di divulgatore di storia dell’arte mi fa provare la dolce sensazione di andare oltre lo spazio-tempo e poter dire che in fondo la nostra evoluzione non è fatta di costumi e rumori ma di brevi momenti di silenzio e di rare e solitarie scintille di profonda umanità.