Mentre le società moderne si sono in direzione della democrazia, il pensiero moderno è arrivato ad un’impasse, incapace di raggiungere il consenso su ciò che costituisce l’uomo e la sua dignità, e perciò incapace di definire i diritti dell’uomo.
(Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo)
Francis Fukuyama nelle ultime pagine della sua epocale opera La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), recentemente riedita da Utet, accenna a significativi dubbi, timori e perplessità relativi alla sopravvivenza del modello demoliberale quale visione culturale, spirituale e sociale. Già nel 1992 Fukuyama era stato profetico nel cogliere alcune tendenze psico-culturali in atto, oggi quasi prevalenti nella società televisiva e visiva attuale, che miravano a diffondere il cosiddetto “trans-umanesimo”, cioè quella visione dell’esistenza che pone il baricentro del valore non più in senso antropocentrico.
Diritti degli animali e delle cose, erotismo diffuso, virtualismo di massa, ambientalismo dogmatico, giustificazione paradigmatica di qualsiasi tendenza sessuale, vegetarianesimo estremo, riscoperta del valore di tradizioni tribali (cannibalismo incluso), esaltazione delle ibridazioni uomo-tecnologica e della robotica quale nuova religione, e molto altro. Visioni già previste da Aldous Huxley e, negli anni ‘90, da Elémire Zolla. Ma molti altri pensatori e visionari, spesso radicali ed estremisti, hanno preparato un inquietante e surreale “oltre-umanesimo” già negli anni ‘60-‘70, producendo una sorta di “primitivismo ipertecnologico” o di “tribalismo visionario e futurista”. Basti ricordare le teorie animaliste e speciste di Peter Singer, l’idea neopagana e mitizzante di “Gaia” ideata dal chimico inglese James Lovelock nel 1979, le teorie neomaltusiane del WorldWatch Institute che già nel suo report del 1990 indicava come target il dimezzamento del ritmo di crescita, fino al pensiero visionario e anarchico del “riscaldamento sociale”, appoggiato da Edgarin Morin.
Si tratta di tendenze-visioni “alla moda”, spesso anche contrastanti tra di loro, ma tutte accomunate da uno spiccato e radicale “anti-umanesimo”, come se l’Uomo fosse solo il problema e non più il centro dell’universo. Questa trans-valutazione delle coordinate etico-valoriali pone un grande problema che non sfuggì a Fukuyama: cosa resisterà quindi del modello universalistico-umanistico della democrazia liberale? Sì perché il Liberalismo quale “religione civile delle libertà”, dei diritti e della persona umana, si fonda su di un presupposto umanesimo di origine cristiano-kantiana, sopravvissuto pure al comunismo e al post-1989. Ora invece lo “spirito del 1789”, se appare così reinterpretato in modo parossistico e totalizzante, sembra voler oltrepassare i limiti della stessa riconoscibilità e identificabilità umana per muoversi dentro territori mentali ancora fluidi e poco definibili se non nei termini generici di un “panteismo caotico”. Il culto del caos e dell’indifferenziato quale alternativo all’umanesimo classico? Ma su quale nucleo di valore ci si può fondare se si abbandona una visione condivisibile di umanità? Una filosofia del conflitto globale o dell’indifferenza totale? Siamo chiamati quindi per forza a ri-definire quali siano quei postulati e assiomi che fanno del Liberalismo una visione di valore riconoscibile e apprezzabile, almeno storicamente, in modo da poter verificare se ancora sussiste o se le sue metamorfosi molteplici lo hanno condotto sull’orlo del “suicidio” sociale e culturale.
Possiamo individuare otto “dogmi” che sostanziano il Liberalismo quale visione ideale, democratica e universale, che trova le sue radici nello sperimentalismo libero di Francesco Bacone come in Hobbes, Kant e Locke:
- l’idea di persona umana quale ente morale originario e naturale;
- l’idea che la persona umana abbia diritti e libertà innate e intoccabili;
- l’idea di un progresso lineare e continuo della storia e dell’umanità;
- l’idea di cittadinanza, di Stato e di Nazione, quali status ed enti che derivano dalla persona umana e si fondano sulla persona umana quale valore da riconoscere e servire;
- l’economia di mercato quale sistema autoregolantesi, con minime regole generali;
- l’idea di ragione e di discussione quale luce individuale e sociale;
- l’idea della centralità delle dinamiche economiche e del commercio in particolare;
- l’idea di tolleranza quale riduzione delle dimensioni religiose e identitarie alla sfera privata, bastando un’etica generale di base quale esigenza di convivibilità sociale.
Il Liberalismo quale laicizzazione della filosofia cristiana di Agostino e Severino Boezio. Se questo, come sembra, è ancora il nucleo essenziale del modello demoliberale occidentale, oggi formalmente ancora dominante nella maggior parte del mondo, notiamo facilmente come tutti questi otto principi universali si rivelino assai indeboliti e smarriti nelle società contemporanee, tanto da renderne difficile un riconoscimento sociale e culturale significativo. E questo indipendentemente dalle nuove tendenze del trans-umanesimo o dell’anti-umanesimo a cui accennavamo, le quali possiamo apprezzarle quale tentativo in corso di sostituzione ad una visione in declino di un altro scenario valoriale di fondo. Il concetto di persona, così fondamentale in tutte le Carte costituzionali che seguono il modello occidentale, appare oggi purtroppo assai sbiadito, confuso, obliato. La retorica di massa, la “massmedializzazione” globale, il comunicare per slogan e semplificazioni, la stessa concezione dell’Unione Europea, fondata su “funzioni” tecniche ma priva di una visione ideale comune, di un mito fondativo, appaiono fattori e aspetti che operano indifferentemente ad una concezione dell’uomo quale persona e non mera funzione di consumo e ricettore di intrattenimento.
Nel villaggio globale attuale tutto è trasparente come pure tutto è privato e il culto delle dipendenze e di un modello esistenziale “adolescenziale”, cioè passionale e istintuale, iper-emotivo, non ci permette di ragionare e di percepire in quanto “persone umane”, ma secondo mood più vicini al concetto di frammento, di net, di compulsione transitoria. La realtà e la retorica della “Rete” collettivizza la percezione dell’idea di persona umana, modo di vedere anch’esso in via di “privatizzazione”, cioè di esclusione sociale.
Carmelo Bene giocava spesso sul doppio senso del termine “privato”: quale sfera strettamente individuale e quale “privazione”. Più che di diritti fondamentali oggi si parla di aspettative, di interessi effimeri, di pulsioni organizzate per un momento. Possiamo poi parlare ancora di “progresso” nel tempo disincarnato e assoluto del rappresentativo, del virtuale, del visivo? Possiamo parlare di progresso nel tempo della “questione ambientale mondiale”, delle guerre per l’energia e del sorgere di nuove e antiche tensioni geopolitiche e militari? Viviamo in un mondo di “rappresentazioni di rappresentazioni”, come già i Situazionismi avevano profetizzato. Le esperienze reali sono fenomeni di nicchia, in via di “privatizzazione”.
La retorica “dell’assenza di frontiere” funziona nel commercio, nel web, nella comunicazione ma questa sensibilizzazione massiva reca come lato oscuro la dis-individualizzazione. L’uomo è infatti un animale sociale e il sociale esiste come corpo, se esistono corpi. La iper-tecnologizzazione del comunicare sociale porta alla dematerializzazione, quindi alla perdita del senso del corpo. Ma senza il senso del corpo si indebolisce ugualmente la percezione della coscienza soggettiva, specie della coscienza quale spirito critico. Diventiamo tutti modulazioni effimere di un’unica coscienza collettiva. Aristotele era convinto che non potesse esistere un “corpo infinito” mentre oggi viviamo nel tempo utopico del corpo infinito del web. Senza confini non esistono più le identità, gli Stati, le cittadinanze e i diritti ad esse conseguenti. Non si percepisce più la persona umana in quanto tale, socraticamente, autonoma da contesti particolari e da condizionamenti. La società di massa implica strumenti di massa sia a livello di media che a livello di distribuzione delle merci, prima delle quali la “merce denaro”, oggi distribuita come merendine dai bancomat e dagli smartphone.
Ma siamo in presenza di un felice caos spontaneo? No: l’economia appare guidata da poche grandi aziende mondiali in continuo conflitto fra di loro o in regime di oligopolio. Il Liberalismo appare fallito proprio nel suo punto più celebre di successo: la libertà di mercato. L’aspetto di massificazione e di iper-finanziarizzazione dell’economia ha ridotto gli spazi di reale concorrenza fra le aziende. Mentre Fukuyama sognava la società fondata su di una felice “unica classe media” oggi assistiamo al contrario all’implosione della classe media, alla sua crisi ed erosione, e all’emergere di una società-massa indifferenziata, posta in posizione passiva rispetto ad una produzione monopolizzata da una ristrettissima élite.
Libertà assoluta nel consumo ma dirigismo estremo nella produzione. Imprevedibili recessioni mondiali e crisi bancarie sconfessano poi la credenza dogmatica in un misterioso e sacrale “Mercato” che operi provvidenzialmente come il Dio delle religioni rivelate. Nella società delle mode, delle manie di massa, dell’iper-emotivismo, può esservi adeguato spazio per le “ragioni della ragione”, per una cultura della razionalità? La retorica della “tolleranza”, infine, privata di ogni dialettica e concretezza decade facilmente in indifferentismo, cinismo, apatia.
“L’estremismo della tolleranza” si rivela non solo inutile retorica ma produce danni gravi in termini di diseducazione in quanto generalizza il già pessimo imperativo dissolutivo del “vietato vietare” di celebre memoria sessantottina. Si perde così ogni capacità etica, ogni valutazione in termini di bene e di male, oltre a generarsi un processo di deresponsabilizzazione che indebolisce ogni identità, sia personale che sociale. La comunità rischia quell’implosione per difetto di etica ed eccesso di “libertà inutili” che lo stesso Fukuyama paventa.
Se da una parte allora il sistema del “Liberalismo totale” appare realizzare ogni slancio e noeticità, sembra oltrepassare inverandolo pure il marxismo, ma nei termini minimali di un Mc Donald quale luogo marxista oltre che luogo animico e sociale, dall’altra l’utopia pericolosa di un “Liberalismo assoluto” reca i rischi massimi, estremizzandoli, propri di ogni “assoluto storico”, tipici di ogni ideologismo. Questi rischi di “totalitarismo soft”, di “psico-dittatura”, di totale omologazione mediatica e sociale appaiono ingigantiti dall’apparente assenza di pensiero e sistema alternativo.
La “zero-theory” avvantaggia per forza inerziale la passività generale di fronte all’ultima involuzione metamorfica del “camaleonte liberale”, l’abdicazione di ogni coscienza critica rispetto ad un Liberal-pensiero sempre meno pensiero e sempre meno “liberale”. Rischiamo l’avverarsi di un pericoloso paradosso: che la democrazia liberale trionfi e vinca snaturando se stessa, rinnegando se stessa, residuando solo quale maschera mediatica. Il paradosso di un Liberalismo che riesce a saturare il mondo al prezzo assurdo però di calpestare i suoi stessi fondamenti, diventando la propria antitesi pratica, in assenza di antitesi dialettica significative. Se il Liberalismo non ha più nemici cosa gli impedisce di avviarsi sempre di più in un’involuzione autoritaria e tecnocratica? Come potrà essere limite a se stesso in assenza di un rinvio ad una visione trans-temporale? E cosa ci garantisce che la dialettica storica hegeliana resti sempre dentro una visione liberale e non possa essere declinata altrimenti?
Il tema attiene al nucleo del Liberalismo che viene sempre postulato come fosse un nucleo magmatico tanto spontaneo quanto fatale nel suo procedere. Ma è appunto questo il postulato più debole e fideistico del Liberalismo, sconfessato il quale tutta l’impalcatura filosofica democratica inevitabilmente crolla. Possiamo dire che nell’epoca delle post-ideologie resta la forma-ideologia solo per il Liberalismo, il quale si trova a rischio scissione-implosione per il conflitto della sua anima democratica con le dinamiche massive e iper-capitalistiche che da esso stesso derivano. Fukuyama individua una delle cause di tale involuzione educativa proprio nel “peso della storia” e nella tolleranza accettazione di ogni credenza nell’epoca delle post-ideologie. Tale livellamento di pensiero demotiva e neutralizza ogni slancio ideale e anestetizza la coscienza etica e sociale. “Un’auto-dialettica” dissolutiva che neppure Hegel avrebbe potuto prevedere!