Sono qui che scrivo (un articolo per un sito, un racconto per un’antologia, un saggio per uno studio dedicato a un particolare argomento e poi c’è un abbozzo di nuovo romanzo a cui sto lavorando da ormai un mese dopo un blocco durato quasi un anno, anche se negli anni passati ho messo un bel mucchio di fieno in cascina e su questo fronte posso dirmi abbastanza tranquillo) e nel frattempo sento i libri svolazzare in soggiorno dove la mia personale libreria è collocata. Altri libri li odo strisciare sul pavimento e altri sono usciti dal soggiorno e li ascolto muoversi lungo il corridoio. Producono un ronzio aprendo e chiudendo le pagine come se fossero una bocca e quando inghiottono un altro libro producono rumori che mi fanno pensare di avere in casa mostriciattoli simili ai Gremlins o ai Critters extra-roditori.
La porta della mia stanza, però, è chiusa. Quando chiudo la porta, fuori dalla stanza può accadere di tutto, ma niente di ciò che accade può impedirmi di scrivere. Sì, sento i rumori prodotti dai libri e a volte avverto con l’udito qualche libro grattare contro la porta chiusa della mia stanza. Sbatterci contro come farfalle impazzite. Ciò tuttavia non è sufficiente per distogliere la mia concentrazione. Anzi, in un certo senso, questo sottofondo (benché mi renda conto alquanto inquietante) serve a farmi concentrare meglio. Del resto, penso sempre a qualche libro che ho letto. Sempre. I libri che ho letto e che tengo diligentemente in fila sugli scaffali della libreria in legno massello del soggiorno e nella libreria dall’aspetto più funzionale posta dirimpetto sono sempre lì a grattare contro la porta della mia mente. Talvolta bussano. A volte la colpiscono così forte da sembrare di volerla tirare giù. Dovete credermi quando dico che nel corso della giornata devo forzarmi più e più volte per non alzarmi dalla sedia davanti al computer con l’intento di consultare qualche libro in soggiorno, ancorché, sebbene imbarazzante, “consultare” non credo sia la parola giusta, perché la parola corretta in questo caso, per quanto mi riguarda, è “accarezzare”, “toccare con mano”, “intrattenere un contatto fisico”. Ecco, queste sono le parole adatte per descrivere il desiderio che mi circola nella testa quasi senza soluzione di continuità.
E poi c’è il contatto degli occhi con le parole, le quali rilasciano nella mia mente immagini similmente a come fanno bustine di the nell’acqua bollente o pastiglie per rendere effervescente l’acqua. Una tal sorta di canto delle sirene è perennemente presente nel mio cervello e devo lottare quasi costantemente per non soccombere difronte a esso. Anche quando scrivo, sì. Anzi, quando scrivo, le sirene ululano ancora più forte nella mia testa e i libri grattano nella porta della mia mente (e della mia stanza, luoghi per me pressoché intercambiabili) e posso quasi sentirli: “Leggi me! Leggi me! Ci sono già io! Ci sono io!”.
Sì, l’impulso di mollare tutto ciò a cui sto lavorando e correre in sala, agguantare un libro (magari al volo, dato che la mia personale libreria di casa è popolata di libri volanti) e mettersi a leggere, sprofondare nella lettura è molto forte. Insomma, perché scrivere qualcosa che c’è già e al quale io probabilmente aggiungerò, se lo aggiungerò, un cinque per cento in più? Chi mi sono messo in testa di essere? Chi credo di essere?
Questo è un punto molto importante al quale è necessario risponda senza ambage, voli pindarici, svolazzi della fantasia, circonlocuzioni. La risposta è: non credo di essere un bel nessuno. Anzi, consentitemi di essere ancora più chiaro di così scrivendo qui di seguito una piccola litania che il lettore se vorrà è autorizzato a saltare – in base anche a quanto espresso nell’articolo Il gusto di saltare le pagine. Io non credo di essere Stephen King.
Io non credo di essere Tom Wolfe. Io non credo di essere Joyce Carol Oates. Non credo di essere John Le Carré. Né tantomeno Jack Higgins. Non mi credo Dean Koontz. Non credo di essere Joe Landsdale. Non credo di essere Faulkner e non credo di essere Hemingway. Non penso assolutamente di essere Alessandro Baricco, Gabriel Garcia Marquez, Milan Kundera. Non mi sento Ken Follett. Non mi sono mai sentito all’altezza di Mario Puzo. Non mi sento all’altezza di Frederick Forsyth. Non credo di essere Patricia Corwell. Non credo di essere Jeffery Deaver. Non mi sono mai sentito l’autore dei Tre Moschettieri né l’autore di Oliver Twist. Non ho mai pensato di essere Philip Conford o Martin Cruz Smith. Né mai, ovviamente, Tolstoj o Dostoevskij o Puskin o Turgenev. Mai Checov. Mai l’autore delle Tigri di Mompracem.
Non mi sono mai messo in testa di essere nessuno degli autori presenti nella mia personale libreria né degli autori che ho letto pur non possedendo una copia del loro libro in casa. Mai. Li venero, questi autori. Cerco di apprendere. Ma non li sfido. Anzi, mi guardo ben bene dal farlo. “Se guardi nell’abisso, l’abisso guarda in te” diceva Friedrich Nietzsche e a me i libri di questi autori, ed altri, sembrano già sufficientemente abissali. Se leggi un libro, un libro legge te. Se ti sporgi sulla mente di un autore, anche l’autore sbircerà nella tua.
In questi giorni mi sono guardato un bel thriller con Robert De Niro e Marlon Brando che si intitola The score. De Niro mi è parso recitare non al massimo delle sue possibilità per quasi tutta la durata della pellicola, eccetto alla fine, quando, dopo un colpo di scena clamoroso, manda a spasso il novellino che lo aiutava nel colpo, e che ha cercato di gabbarlo, facendo finalmente un paio di smorfie delle sue (con quelle fossette profonde, lunghe, che sembrano quasi squarci nella pelle ad aprirgli in due le guance e la fronte che si corruga in decine di rughe orizzontali e verticali, una fronte tutta da leggere e decifrare) e chiedendo al novellino: “Dimmi un po’, Jack, quand’è che ti sei messo in testa di essere me?”. Ho pensato che De Niro quella domanda sembri farla direttamente a Edward Norton. “Dimmi un po’, Edward, quand’è che ti sei messo in testa di essere me?”.
Ecco. Di questo parlo. Quando scrivo io non penso di essere un bel nessuno. Sono assolutamente conscio del fatto che là fuori ci sono opere molto ben fatte, bellissime, emozionati; cionondimeno, io il mio libretto lo scrivo lo stesso, e quando mi va bene (e fino a oggi mi è andata bene se non erro diciotto volte, perché sto perdendo il conto dei libri scritti e pubblicati, e lo dichiaro con un certo orgoglio, sia chiaro), lo pubblico anche. Non è una questione di presunzione. Né di competitività. Non mi sono montato la testa pensando di essere chissà chi. È solo che l’arte ha a che fare con i tarli nella mente ed è un fuoco che ti brucia dentro, ed ha a che fare con la produzione, in modi diversi, e a diversi livelli, e secondo canoni estetici assai differenti, del bello. Scrivere dà piacere. Per questo si scrive. Le arti danno innanzitutto piacere.
Il mondo capitalistico occidentale ha i suoi metodi per soffocare nella culla chi desidera dedicarsi a qualcosa di bello e piacevole. Il modo più soffocante che mi viene in mente è senza ombra di dubbio il pernicioso strumento del successo. Se fai successo, allora è lecito poter fare il cantante, lo scrittore, il musicista… Se non ottieni successo, diventi sempre più ridicolo ogni anno che passa. Ma c’è molto più di questo. Cerco di spiegarmi con un piccolo aneddoto.
L’altro giorno una coppia di amici (non una coppia gay; un uomo e una donna, e non è nemmeno sicuro che scopino) hanno proposto di andare sul Giarolo, un monte dalle mie parti. E qualcuno ha detto: “Credete di essere Ambrogio Fogar o Reinhold Messner?”. Capito cosa si sono sentiti direocchi, la coppia non gay di miei amici, maschio e femmina? Che senso ha andare sul Giarolo, se non lo fai per diventare ricco e famoso? Anche se canti una canzone con la chitarra e la pubblichi sui social è ormai lo stesso. Il fatto è che abbiamo perso il gusto di prendere le cose per quello che sono e le paragoniamo a chi quelle stesse cose le sa fare davvero, e bene, e ci guadagna pure, e fa successo. Dunque, perché farlo?
Ma perché è bello, accidenti! È bello suonare una canzone con la chitarra e farla sentire agli altri, andare a fare una gita sul Giarolo, farsi il pane in casa anche se non si è Gabriele Bonci e aprirsi una macelleria per guadagnarsi da vivere anche se non si è Vissani.
È bello. Ed è bello farle anche abbastanza bene le cose, è parte del piacere di fare una qualsiasi cosa, senza per questo sentirsi dire: “Sei bravo con la chitarra… Dovresti farlo di professione” o “Peccato che non hai seguito la tua passione diventando il nuovo… puntini puntini”. Una volta sono andato a letto con un’amica e al termine mi ha detto che dovrei fare… Capito? È da malati.
Concetti come quello di successo, popolarità hanno distrutto il puro piacere di farle, le cose. Ma anche qui c’è qualcosa di molto più intelligente che possiamo dire. In fondo, la televisione, e tutto ciò che di attinente ci possa venire in mente, non è affatto una “cattiva maestra”, se cominciassimo a guardarla come un contenitore di tutto quello che nella vita non va fatto, non va praticato, di tutte le più insulse perdite di tempo che ci siano a disposizione nella breve vita terrestre di un uomo e di una donna. Uno su mille ce la fa, e gli altri finiscono in una bettola pulciosa a guardare malinconicamente il fondo di un bicchiere. Perciò, meglio evitare. Meglio non correre rischi.
In Italia la rete ha mostrato assai bene che il mondo editoriale, ad esempio, è estremamente efficiente nel creare falliti assoluti, i quali si associano anche e vanno avanti anni e anni sperando in un rilancio e ottenendolo persino: cinque minuti di notorietà al prezzo di non avere una famiglia, bambini, non avere nemmeno la patente, la laurea. Questo meccanismo è stato e continua a essere il massacro delle nostre vite. Aspirare alla produzione di tutto ciò che è puro passatempo, perdita di tempo. Rispetto al progresso. Rispetto al rendere il mondo un posto più abitabile. E la televisione è un catalogo infinito di tutto questo. Dai saltimbanchi, agli attori, cantanti, agli opinionisti, ai giornalisti – a volte penso che tutti in televisione, tutti quanti, nessuno escluso, siano lì in rappresentanza del Grande Nulla, del Grande Vicolo Cieco.
Pensiamo agli ospiti televisivi. Fanno due interventi da cinque minuti ciascuno senza dire assolutamente nulla di rilevante e incassano un assegnuccio di migliaia di euro. La televisione è solo una macchinetta per fare soldi e magari, tramite la pubblicità dei prodotti, per mangiarteli. Ma se le cose stanno così, allora perché semplicemente non gettiamo la maschera di questa ipocrisia e ci mettiamo a pagare gli ospiti televisivi senza chiedergli di venire in televisione? Li paghiamo e basta, senza chiede nulla in cambio. Se vado da un sarto, da un artigiano pago una cifra e ottengo in cambio una merce. Ma cosa ottiene in cambio chi paga un opinionista? La fuffa più assoluta. Il nulla più assoluto. Pagati per non dire nulla a commento del nulla.
A commento del nulla, sì, perché, come abbiamo già detto nell’articolo L’amante delle parole, ormai i giornalisti raccontano sempre meno i fatti, preferendo a questi gli annunci, i fatti che devono ancora accadere. Su questo punto, importante è domandarsi anche come mai nei telegiornali si preferisca raccontare sempre meno i fatti. Forse perché oggi troppa gente tra chi ascolta è in grado non solo di verificare i fatti che vengono succintamente raccontati dai telegiornali e dai giornali, ma anche di scavare e scoprire da sé la verità, di mettere in luce quale percorso reale stia dietro ai fatti rispetto a come ci vengono propinati dai giornali. Ecco perché si tende sempre di più a tacerli. Un giornale che racconta un omicidio dà la possibilità a qualcuno tra i lettori di scoprire che quello non è affatto un semplice omicidio, ma il risultato di una lunga concatenazione di eventi non casuale che tira in ballo servizi segreti, logge massoniche e la tentacolare piovra mafiosa.
Ma tornando agli opinionisti, oltre a esprimere il nulla molto spesso a commento del nulla, sono sempre i soliti. Allora, tanto vale pagarli senza farli scomodare, questi illustri signori. Pagarli così, per simpatia. I soldi gli sponsor li danno anche per i film, senza dover mettere in piedi trasmissioni. Certo, verrebbe a mancare l’elemento della notorietà… Ma se inviti per venti o trent’anni sempre gli stessi volti, un’ospitata in più o in meno non toglie o aggiunge nulla al livello di notorietà. Dunque, chi va in televisione, ci va per incassare l’assegnuccio e far guadagni sull’indotto. Tutto questo però distrugge in modo assai democratico e individualista, uno di quegli ossimori che l’occidente capitalista tanto adora, migliaia di vite, le contrae, le rovina.
Personalmente non ho mai scritto una riga per arrivare al successo delle vendite. Specie in un Paese come l’Italia. Non ci ho mai pensato nemmeno per un istante. Le volte in cui ho vagheggiato qualcosa… mi figuravo di essere da piccino uno studente americano e un paio di volte, da più grandicello, un poeta cinese, visto che a quanto pare in Cina la poesia va una meraviglia. Eppure, questa faccenda viene scagliata come un dardo velenosissimo qua e là, e in vari modi. Alcuni moralistici (“Se non fai successo, perdi tempo”), altri in modo malizioso (“Scrivi perché sotto sotto vuoi arrivare al successo”). Trattano te come quegli scrittori che sono in televisione, alcuni dei quali si fregiano del titolo, e lo sappiamo pure benissimo, per pura vanità. Io non mi pongo e non mi sono mai minimamente posto il problema se sono o non sono uno scrittore. Scrivo e basta. Butto giù una storia e se questa storia trova un editore sono a posto. So che la storia che ho scritto è magnifica e questo mi basta. In più, ho altre storie magnifiche da raccontare e non posso perdermi nella costruzione del culto della mia personalità, nella promozione della mia immagine di scrittore. Per dirla come direbbe il nostro buon amico Robert De Niro (il quale nei suoi film ripete sempre le battute due o tre volte se non quattro o cinque), a me piace scrivere. A me piace scrivere. A me piace scrivere.
Mi piace scrivere e mi piace leggere. Questo mi piace fare. Questo. Lasciare che le parole entrino nella mia testa, colpiscano la mia mente, tutti quei bit d’informazione, come la musica, è una droga per me, senza la mia dose di alfabeto quotidiana, mi sentirei in astinenza. Starei male. Questo è più o meno tutto. A me questa cosa di scrivere mi esce dagli occhi da sempre. Okay, forse non sono bravo come altri (io ho i miei seri dubbi di non esserlo, non è per ammissione di colpa che lo dico, solo per quel vecchio concetto un po’ obsoleto e che non piace agli studi legali quando devono redigere una lettera alla ex-moglie chiamato umiltà), ma ciò non cambia che sono matto per la lettura e la scrittura. Infatti, sono matto per la lettura e la scrittura.
Libri volanti. Libri che strisciano per casa come i Fornit di Stephen King nel suo racconto lungo (esistono racconti di Stephen King che non siano lunghi? Sì, ma sono tre o quattro in tutto) La Ballata della pallottola flessibile. Pavimenti i cui mosaici cambiano conformazione. Fogli che bisbigliano negli armadi. Armadi-fornace abitati da demoni guardiani. Queste cose le vedo e anche se non le vedessi e un giorno dovessi vederle, le accetterei tranquillamente. Per me un libro può volare o mettersi a fare la maglia. Fa lo stesso. Lo capite, che fa lo stesso? Tanto lo leggerei ugualmente.
L’altro giorno ho preso in mano La casa degli invasati di Shirley Jackson. Di questo libro posseggo un’edizione vecchia, probabilmente pescata anni e anni fa in qualche mercatino di libri usati: l’edizione Oscar Horror della Arnoldo Mondadori Editore. È un libriccino dal dorso tutto nero con sopra la scritta a caratteri cubitali rosso sangue “Horror” e sotto il titolo a caratteri bianchi “La casa degli invasati” e poi un riquadro con l’immagine di un volto di donna dai capelli a caschetto biondi, gli occhi con le pupille girate verso l’alto a conferirle un’espressione mista tra orgasmo e terrore e la bocca spalancata che sta probabilmente emettendo un sospiro o forse un lamento di raccapriccio. La donna è nuda, anche se si vede solo il collo e il quadrante superiore del petto e il braccio destro sollevato con la mano a reggersi fortemente alla testiera di un letto sul quale la donna pare rannicchiata. Ebbene, ho preso tra le mani questo tascabile dell’edizione Oscar Horror Mondadori e dal lato delle pagine ho visto sporgere un dito. Un dito orrendo. Scheletrico e di colore violaceo. Pieno di verruche e bitorzoli, con un un’unghia assai lunga e affilata. Inequivocabilmente il dito di una strega. Appena ho vista quella cosa sporgere dal libro, ho mandato un urlo e in quel momento il dito si è mosso e mi ha punto. Il dito di strega mi ha punto e poi si è ritirato all’interno del romanzo di Shirley Jackson scomparendo nel nulla.
Ora sono qui terrorizzato al pensiero che da un momento all’altro qualche strana stregoneria possa manifestarsi sul mio corpo. Forse un eczema. Sento un prurito nella zona dove sono stato punto. Il prurito si espanderà a poco a poco oppure tutto di colpo e io verrò ricoperto da pustole purulenti e comincerò a grattare e grattare e grattare… Ma forse avviene tutto a livello psicologico. Non ne sono sicuro. Ad ogni modo, e questa è forse la parte più difficile da mandare giù in questo incredibile resoconto, anche se sono stato punto dal dito che sporgeva inerte dalle pagine del libro della Jackson, quell’orrendo dito violaceo pieno di verruche e bitorzoli, io quel libro, La casa degli invasati, superato lo shock iniziale, l’ho ugualmente aperto e ho preso a leggerlo, anzi, a rileggerlo. Sono arrivato a pagine 86. Nulla mi ferma, insomma, quando mi prende la voglia di leggere un libro. Nulla.
Lo stesso vale quando devo scrivere qualcosa in cui credo veramente. Qualcosa che sono predisposto a scrivere. Può bussare il diavolo alla porta della mia stanza, ma io non aprirò, non sentirò. Se sento è solo per potermene servire in qualche modo. Sì, scrivere serve per vincere. Ne sono assolutamente convinto. Io vinco ogni volta che scrivo. Ho già vinto nelle mie storie, ecco perché non mi interessa vincere “con” le mie storie. Non ne sono portato. Non sento questa specifica vocazione. Le storie che scrivo sono già il segno dell’avvenuta vittoria. La vittoria sul diavolo. La vittoria sui mostri nella mia mente. La vittoria sulle paure. Scrivi una storia, ci cacci dentro un mostro e il mostro è sconfitto e anche se non è sconfitto è intrappolato in quelle pagine. A livello psicologico funziona. Uccidere il mostro in una storia o ingabbiarlo in una storia serve a toglierselo dai piedi, a fare sciò, mandarlo via dai pensieri, dai sentimenti.
Qualche buon anno fa ormai scrissi un romanzo dove affrontavo il problema che avevo da circa una decina d’anni degli attacchi di panico – Il diario dei sogni, Las Vegas Edizioni, tradotto anche negli Stati Uniti. Non servì a un tubo. Gli attacchi di panico rimasero, ma a un certo punto trovai delle soluzioni e piano piano quegli attacchi se ne andarono. Oggi sono tornati. Per questo credo che certi problemi la scrittura possa risolverli solo temporaneamente, non per sempre. Ma potrei scrivere un altro libro e metterci dentro il mio problema e qualcosa di buono potrebbe accadere di nuovo come è successo l’altra volta. Potrei, per esempio, partire dall’immagine di me questa estate ad Albissola Marina in Liguria che mi dirigo a piedi verso Savona. Fa caldo. Macchine e camion di diversa cilindrata sfrecciano sulle corsie della strada principale. Supero un tunnel e sbuco su un tornante dalla sommità del quale si gode di un’ottima panoramica del porto sottostante con navi e container colorati. La panoramica è ottima, ma un primo dubbio mi attraversa come una lama la mente: mi prenderanno le vertigini?
Proseguo superando il porto e introducendomi verso il primo tornante. Le mani cominciano a sudarmi. L’odore dell’asfalto cotto dal sole e del fumo dei tubi di scappamento si fa molto persistente. Sento improvvisamente che il sole delle due del pomeriggio mi sta arrostendo la testa. La sento girare e poi arriva il blocco all’esofago, il fiato si fa corto. Come se non potessi più respirare. La scarpata alla mia sinistra mi sembra altissima e piena di sporgenze rocciose che potrebbero staccarsi da un momento all’altro e travolgermi. E poi c’è il cielo. Smisurato, da perdersi. In quel cielo potrebbe volare qualsiasi cosa. Un satellite potrebbe tenermi d’occhio. Magari un Predator, uno di quegli aerei americani invisibili. Per arrivare al top del pensiero paranoico che mi piglia in momenti come questo… un cecchino potrebbe tenermi puntato un fucile ad alta precisione dritto sulla nuca e potrebbe lasciar partire il colpo da un momento all’altro. Ne ho abbastanza. Mi stoppo e giro sui tacchi. Cerco di prendere fiato ma non ci riesco. Non ci riesco! Ecco che arriva. Arriva. L’attacco di panico. Il terrore incontrollato e irrazionale. Arriva. Eccolo. Adesso le macchine sfrecciano molto più velocemente di prima. Potrebbero sbandare da un momento all’altro.
Un colpo di clacson mi manda ai matti. Dopo quel suono di tromba dell’Apocalisse non ho proprio idea di come mai la testa non mi sia schizzata dalle spalle finendo una cinquantina di metri di sotto dove il mare sciaguatta incessantemente. Mi metto a correre e a saltellare cercando in qualche modo di riprendere fiato e di non crollare a terra, di non lasciarmi vincere dal panico, anche perché in una situazione del genere chi mi soccorrerebbe? Il cuore mi sfarfalla nel petto. Una sensazione opprimente mi schiaccia a terra. La scarpata è troppo alta (e non è vero), il cielo è troppo grande e di sotto c’è il mare. Di cosa ho paura?
Lo so benissimo chi è il nemico. Il nemico è dentro di me e sono io stesso. Una parte folle che si diverte a prendersi gioco di me, a farmi gli scherzi. Sto lottando con me stesso per dominare l’impulso di buttarmi di sotto. Nel mare. Una forza attrattivo-repulsiva agisce su di me fortissima. Con questo me la sto vedendo, mentre filo indietro verso Albissola Marina, verso lo stabilimento balneare dal quale mi sono allontanato. Mando un salto. Faccio una corsetta. La meta è ancora troppo lontana. Non ce la farò. So che è brutto raccontarlo ma a un certo punto arrivo alla soluzione disperata di mettermi a quattro zampe e procedere così. C’è una fila di siepi che separa il cordolo del marciapiedi dalla carreggiata dove sfrecciano le macchine e se mi metto a quattro zampe forse posso eliminare l’immagine opprimente della scarpata alla mia sinistra. Ma la ringhiera che corre alla mia destra e che mi separa dal mare immenso e che mi attrae a sé non mi impedisce di vedere appunto l’acqua. No, non serve. Non serve mettersi a quattro zampe. Non serve. Ma ecco. Una spiaggia libera.
Percorro una fila di scalini in pietra molto ripida, li percorro lentamente, molto lentamente e arrivo nella spiaggetta sottostante dove cerco di calmarmi. Ma anche lì il cielo è enorme e il senso di imminente black-out non mi abbandona. Sento ogni singolo muscolo del mio corpo tremare. Le mani, meglio neanche parlarne. Tremano. Tremano forte.
Cerco di ritrovare il coraggio e mi rimetto in marcia per coprire quei duecento, trecento metri che mi separano dalla mia confort-zone, dove so che questa assurda situazione senza senso contro la quale non ho praticamente armi svanirà. Solo che una volta rimessomi in marcia non ce la faccio. Non ce la faccio. Percorro un centinaio di metri e poi sento di nuovo invadermi dal panico o anche solo dal timore che il panico possa attanagliarmi all’improvviso. Così giro sui tacchi e corro indietro, dalla spiaggia libera. Lì ci sono due bagnini, due ragazzi seduti su seggiole di plastica bianca, da un tavolino. Fanno controlli molto blandi. Chissà cosa pensano vedendomi in quello stato. Chiedo anche un passaggio a un signore, che ovviamente me lo nega. Gli spiego la situazione e lui si mette a ridere e mi dice di farmi coraggio, suvvia.
Ecco che la sto pagando. Ecco come si paga. Tutti gli errori commessi. Le cose brutte a torto o a ragione subite o inflitte. Le pago così. Sono tornate, tutte le mie paure, i sensi di colpa. Che cazzo, se ci penso, non so neppure esattamente cosa siano… Si sono chiusi, i sensi di colpa, su di me all’improvviso. Mi rimetto in marcia. Decido di correre. Ma l’attrazione verso il mare è così forte, la barriera costituita dalla ringhiera così esigua, che corro a ridosso delle siepi, graffiandomi cosce e polpacci. Corro e corro inseguendo una bella ragazza in bicicletta. Mi aiuta guardarle i capelli, le spalle nude, le belle braccia. Alla fine, arrivo nella passeggiata mare. Ce la faccio. Riesco a togliermi da questa situazione. Una situazione reale. Il giorno dopo ho provato ad andare verso Celle Ligure, ma neanche a parlarne. Troppo strapiombo.
Ecco. Forse dovrei affrontare questa paura. Scrivere di questo. Forse troverei una soluzione.
Come è successo l’altra volta. Forse. Lo spero.
I mostri di cui parlo in questi scritti sono reali, ragazzi. Il tono con cui ne parlo è anche abbastanza sbruffone, e sembra tutto molto fantasioso, ma purtroppo è tutto vero.
Tutto vero.