Kabul è caduta.
Il governo degli Stati Uniti aveva previsto la riconquista del Paese da parte dei Talebani, ma secondo le loro stime sarebbe successo in un periodo variabile tra sei mesi e un anno dal ritiro delle truppe statunitensi e della Nato: il Paese è stato occupato in meno di un mese, l’ex presidente è fuggito, il Paese è nel caos, migliaia di civili stanno tentando di trovare una via di fuga.
Le terribili immagini che arrivano dall’Afghanistan si sono diffuse in modo capillare attraverso i mezzi di informazione di tutto il mondo, dalle prime pagine dei quotidiani alle televisioni ai social media.
L’agonia della popolazione afgana sta provocando un’ondata di indignazione che però purtroppo è presumibilmente destinata a rimanere tale: una reazione emotiva senza alcun impatto sulla realtà, e non animata da un vero bisogno di giustizia. Lo sguardo dell’Europa ora puntato sull’Afghanistan rimane cieco di fronte alla sofferenza delle migliaia di profughi bloccati a poche centinaia di chilometri dai nostri confini.
Mentre i Talebani impediscono l’accesso all’aeroporto alla popolazione in fuga, la civilissima Europa rifiuta di accettare le domande di asilo, applica respingimenti illegali, rinchiude i rifugiati in campi inumani, paga al dittatore Erdogan miliardi di euro per fermare l’esodo dei profughi.
Mentre i Talebani riconquistavano il controllo del Paese, i governi di Austria, Belgio, Danimarca, Germania, Grecia e Olanda in una lettera indirizzata ai commissari europei responsabili per le migrazioni hanno sostenuto che bisogna continuare con i rimpatri per dissuadere i cittadini afgani dal cercare rifugio in Europa.
I confini d’Europa si stanno trasformando in cimiteri.
Anche quando nel settembre del 2020 è bruciato quel lager spaventoso che era il campo di Moria, abbiamo pianto ipocritamente per poi asciugarci gli occhi e voltare la faccia, mentre i rifugiati non venivano trasferiti in sicurezza in Europa ma nuovamente ammassati nel nuovo campo di Kare Tepe, che se possibile è ancora peggio di quello di Moria. Attualmente ci vivono 4.200 persone ridotte a fantasmi senza diritti, senza speranza e senza voce.
Il 45% degli sfollati del Kara Tepe sono bambini, privati del diritto ad avere accesso all’istruzione, che passano la loro infanzia chiusi in una prigione a cielo aperto circondata da filo spinato (anche quello pagato con fondi europei).
Uomini donne e bambini in fuga da conflitti e violenza, scappano dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Pakistan, dall’Iran per trovarsi costretti a sopravvivere in condizioni spaventose alle porte d’Europa, consegnati all’angoscia di una attesa che può durare anni.
I campi sono un limbo di disperazione in cui i tentativi di suicidio sono frequenti anche tra i bambini sfiniti, mentre i documenti non arrivano, le pratiche burocratiche si arenano e la vita si consuma.
La stessa situazione si ripete attraverso la rotta balcanica dove migliaia di persone sono bloccate in campi profughi che dalla Grecia arrivano alla Croazia passando per Nord Macedonia, Albania, Serbia, Bosnia Erzegovina.
Nonostante il diritto internazionale sancisca il diritto all’asilo e alla protezione, le persone in fuga da guerre e violenza vengono costrette ad un viaggio a piedi che può durare anni, mesi infiniti di freddo, fame, sete, respingimenti illegali, botte, insulti.
Oggi molte voci si levano invocando corridoi umanitari, ma tra il 2008 e il 2020 abbiamo rimpatriato dall’Europa all’Afganistan 70.000 persone, di cui 15.000-20.000 erano donne.
Oggi leggo appelli che chiedono ponti umanitari per evacuare mamme e bambine, lasciando indietro papà e bambini.
Oggi quelle che piangiamo guardando le foto (strazianti) di Kabul oggi sono lacrime di coccodrillo.