Sono passati trent’anni dal 9 agosto del 1991, quando avvenne l’omicidio di Antonino Scopelliti, sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione. Era un magistrato calabrese, originario di Campo Calabro, piccolo paese sito ai piedi dell’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria. La sua carriera giudiziaria si svolse tutta tra Milano e Roma, sempre con funzioni di pubblico ministero, nel corso della quale affrontò processi riguardanti terrorismo, criminalità organizzata e vicende private di rilevanza nazionale. Fu il primo e l’unico magistrato reggino vittima di omicidio eccellente, al contrario di quanto era avvenuto in Sicilia, ad opera di Cosa Nostra.
La ‘ndrangheta reggina non mai praticato la tattica di uccidere rappresentanti delle istituzioni. Ha percorso, talvolta con successo, la strada della delegittimazione, avvalendosi a questo fine di politici locali collusi o comunque compiacenti per mirate interrogazioni parlamentari. Vero è che il 26 agosto del 1989 era stato ucciso Lodovico Ligato, politico reggino, ex presidente delle Ferrovie dello Stato, ma all’epoca privo di incarichi e funzioni pubbliche. Di quel delitto furono individuati esecutori, mandanti e organizzatori (ma non i mandanti politici, rimasti ignoti). Per l’omicidio di Scopelliti, invece, rimasero impuniti sia gli esecutori che i mandanti.
Proprio perché isolato, quell’omicidio apparve inspiegabile in una logica tutta calabrese. La guerra di mafia avvenuta tra il 1985 e la prima metà del 1991 si era conclusa con settecento morti, senza vinti, né vincitori e le cosche avevano raggiunto un accordo che chiudeva anche per il futuro la possibilità che potessero scoppiare nuovi sanguinosi conflitti. Giocarono un ruolo alti esponenti mafiosi stabiliti negli USA e in Canada, che non potevano tollerare il protrarsi di una guerra che non solo richiamava l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale (giunsero a Reggio numerosi giornalisti della carta stampata e delle reti RAI), ma danneggiava gli affari economici di tutta la ‘ndrangheta calabrese, e. soprattutto, richiamava l’intervento degli organi di polizia giudiziaria e della magistratura che non potevano certo assistere inoperosi allo spettacolo di omicidi con cadenza quasi giornaliera dagli opposti schieramenti.
Ai funerali del magistrato reggino furono presenti sia Giovanni Falcone che Giovanni De Gennaro, interessati a comprendere le ragioni di quell’anomalo omicidio e chi scrive ebbe occasione di illustrare al collega Falcone che le motivazioni andavano cercate fuori da logiche territoriali. Unanime fu la conclusione che la decisione era da ricondurre a Cosa Nostra. Scopelliti era stato designato dal Procuratore Generale della Cassazione Vittorio Sgroi, a rappresentare la pubblica accusa nel maxiprocesso di Palermo, che sarebbe stato trattato in Cassazione nel gennaio dell’anno successivo. E infatti, nell’abitazione del magistrato vi erano i faldoni che egli si era ripromesso di studiare durante le ferie estive. Da questo fu facile dedurre che Cosa Nostra, alla vigilia di quel processo, di cui temeva fortemente l’esito, avesse voluto lanciare un messaggio di intimidazione ai componenti della Suprema Corte. Se questa era l’intenzione, l’effetto fu tuttavia esattamente quello contrario. La sentenza fu durissima e confermò tutte le condanne inflitte dalla Corte d’Appello di Palermo. Cosa Nostra si sentì tradita dai suoi referenti politici, tra cui Salvo Lima, prima vittima della vendetta mafiosa, il 12 marzo del 1992.
Tra i processi più importanti che Scopelliti ebbe modo di trattare nel corso della sua attività di pubblico ministero fu quello svoltosi a Milano contro la banda Cavallero, processo che si tenne in Corte d’assise a Milano, conclusosi nove mesi dopo la cattura della banda, con la condanna di tre dei suoi componenti all’ergastolo. Per l’esito positivo del processo il giovane pubblico ministero ricevette dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano un telegramma di elogio il 18 luglio 1969.
Nel 1971, Scopelliti si occupò del processo a carico degli anarchici milanesi, accusati di avere compiuto l’attentato del 25 aprile 1969 alla Fiera di Milano, che provocò 16 feriti, e altri attentati minori. Gli inquirenti imboccarono immediatamente la pista anarchica, tanto da arrestarne sei, oltre ai coniugi Feltrinelli, denunciati a piede libero. Depistaggio organizzato che servì come premessa per l’attribuzione alla matrice anarchica, del successivo, ben più grave attentato del 12 dicembre successivo alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana. Nell’incandescente dibattimento quasi tutti gli imputati denunciarono le violenze subite in questura e in carcere dall’agente Vito Panessa e le minacce ricevute dal commissario Luigi Calabresi per indurli ad accusare Giangiacomo Feltrinelli e la moglie Sibilla Melega. La requisitoria del pubblico ministero Antonino Scopelliti, (pubblicata quasi integralmente nel bel libro di Paolo Morano, Prima di Piazza Fontana) smontò l’attendibilità della principale testimone d’accusa, Rosemma Zulema, che definì inaffidabile e calunniatrice. Il processo si concluse con la sentenza della Corte d’Assise di Milano del 28 maggio 1971. I coniugi Feltrinelli vennero assolti con formula piena. Nessuno degli imputati fu condannato per gli attentati del 25 aprile, né per associazione a delinquere, accogliendo su questo punto le richieste del pubblico ministero. Anni dopo, di quell’attentato furono ritenuti colpevoli e condannati gli esponenti di Ordine Nuovo, Franco Freda e Giovanni Ventura.
Come sostituto procuratore generale della Cassazione si occupò del processo “cd. Valpreda” per la strage di Piazza Fontana a Milano, il processo per la strage di piazza della Loggia a Brescia, quello per l’omicidio dell’on. Aldo Moro e della sua scorta, e quelli per l’omicidio del colonnello dei carabinieri Antonio Varisco e per l’uccisione del capitano Emanuele Basile. E ancora: i processi per la morte del Consigliere Istruttore Rocco Chinnici e della sua scorta, nonché quelli per la morte del giudice Vittorio Occorsio, del giudice Mario Amato (in questo caso la I sezione della Corte di cassazione, presieduta dallo stesso giudice Corrado Carnevale, accolse in toto le richieste della Procura Generale) e del giornalista Walter Tobagi, nonché quelli relativi al ccdd. “casi Calvi e Sindona”.
Per tornare alle indagini sull’omicidio di Antonino Scopelliti, i killer erano stati inizialmente individuati in due giovani, l’uno appartenente alla cosca De Stefano-Tegano di Archi, rione di Reggio Calabria, l’altro ad una cosca alleata, di Villa San Giovanni. Le indicazioni provenivano da collaboratori di giustizia, ma mancavano riscontri oggettivi di qualsiasi genere e dunque fu inevitabile il loro proscioglimento. Analoga conclusione ebbe il processo a carico dei mandanti, individuati nei componenti della Cupola di Cosa Nostra. Di recente, sono state rese note le dichiarazioni di altro collaboratore, Maurizio Avola, ma al momento non possono essere ritenute attendibili per difetto dei riscontri che, come sempre, devono convalidare il racconto di tali soggetti, sia per incongruità del suo racconto.
In precedenza, il collaboratore di giustizia Leonardo Messina in audizione avanti la Commissione parlamentare antimafia, il 4 dicembre 1992, alla richiesta di notizie in merito all’omicidio del dott. Scopelliti, riferì:
Posso dire quello che si diceva dopo l'uccisione di Falcone. Si pensava che quell'incarico fosse ricoperto da Cordova. Si diceva come è stato ucciso Scopelliti i calabresi uccideranno pure lui. […] Appena Cordova va alla superprocura (dopo l'omicidio di Falcone si cominciò a vociferare il nome di Cordova) saranno i calabresi a fare quello che hanno fatto con Scopelliti.
E, alla richiesta del Presidente della Commissione, Luciano Violante, se fossero stati i calabresi a decidere la morte del giudice, Leonardo Messina rispose:
È sempre Cosa nostra a decidere […] Sì. La 'ndrangheta è solo un nome. La struttura è tutta Cosa nostra.
Chi ebbe occasione di frequentare o, comunque, incontrare, Scopelliti nei giorni che precedettero la sua morte, notò sul suo viso un atteggiamento di forte preoccupazione, quasi avesse ricevuto segnali negativi sulla sua sicurezza. Di questo, però, non fece parola con alcuno, neppure con la Prefettura, che con riferimento al prossimo impegno processuale, avrebbe immediatamente convocato il Comitato per la sicurezza e disposto le misure di protezione necessarie in favore del magistrato.
Scopelliti era un magistrato estraneo a logiche di corrente, corporative o di contiguità politica, era un uomo solo anche nella vita privata. Questa sua caratteristica si riflette anche nella visione che aveva del ruolo del giudice nella società, che non si può non condividere.
Non dovrebbe dimenticare il giudice la virtù dell’equilibrio quando sia malauguratamente tentato di riempire gli spazi che vengono a lui offerti ispirandosi al suo patrimonio ideologico. Non dovrebbe in sostanza dimenticare che il cittadino ha il diritto di attendersi dal suo giudice l’uso della massima prudenza prima di emettere qualsivoglia provvedimento; ha il diritto di non tollerare catture e perquisizioni spettacolari quanto inopportune; ha il diritto di non tollerare inchieste fondate sul poco o sul niente; ha il diritto di vedere il suo giudice «con la testa stretta fra le mani» nel momento del decidere e del giudicare.
(Difesa dei giudici. Discorso alla gente che sta dietro l’angolo, in Gli Oratori del Giorno, maggio – giugno 1987)
Insegnamento di straordinaria attualità alla luce delle frequenti esposizioni mediatiche di alcuni magistrati presenzialisti.
Con il passare del tempo, l’assassinio di Scopelliti è passato in secondo piano nella memoria collettiva. Era la Sicilia la terra degli omicidi eccellenti mentre la Calabria era sotto il dominio della ‘ndrangheta reggina, ritenuta, a torto, un fenomeno mafioso di secondo livello, ancora poco conosciuto, percorso da logiche tribali e familiari. Quell’omicidio chiudeva la cd. guerra di mafia di Reggio Calabria e apriva la stagione stragista di Cosa Nostra di Riina e Provenzano del 1992-93. Il suo ricordo si è affievolito e il suo insegnamento è ignorato. Questo articolo vuole onorare la sua memoria, indicandolo come esempio alle giovani generazioni di magistrati, che di lui, forse, non hanno neppure sentito parlare.