Se c’è qualcosa che si è rafforzato in questo oscuro tempo di pandemia, è il legame con la propria terra. Quella che calpestiamo, quella che ci sporca le scarpe, in cui possiamo infilare le mani, che vediamo diventare fango o crepata dalla siccità. Quella che spesso ci dimentichiamo. Privati di cose semplici come il contatto con gli amici, la famiglia allargata, gli incontri e gli scambi con gli sconosciuti, a molti di noi è venuto naturale stabilire un rapporto più intimo con la terra a cui apparteniamo. È quello che ho fatto io, almeno, disegnando una cartografia mentale dei sentieri che si arrampicano sulle colline intorno a casa, quasi per la prima volta, dopo vent’anni in cui ci ho vissuto. Forse anche perché lì, tra torrenti, alberi e scarpate, quando siamo da soli, la pandemia non c'è, non si vede.
Across the flatlands, il nuovo progetto degli Airportman, che per me è uno degli album italiani più interessanti degli ultimi tempi, riesco a descriverlo prima di tutto così: una dichiarazione di rispetto, un tentativo convinto di raccontare un territorio, che è in questo caso è quello della pianura cuneese e che a sua volta, necessariamente, racconta chi lo abita. Gli otto pezzi (più l’introduzione iniziale) che ne fanno parte sono legati ad altrettante fotografie di Francesco Pala: immagini che compongono il ritratto di una natura fatta di contrasti, tra luce e buio, tra cieli sereni e grandi nembi, tra paesaggi agresti e tralicci dell’alta tensione, tra esplosioni di sole e promesse di bufera, tra devozione religiosa e fatica del lavoro. Ho detto contrasti, ma probabilmente l’intento è quello di stabilire un’armonia, di testimoniare che la natura non è solo quella che l’uomo ha trovato su questo pianeta ma anche quella che ha modificato, che la tensione che spinge a cercare qualcosa di superiore e la sacralità di un campo arato stanno insieme, sono parte della stessa cosa.
Non c’è una sola parola in questi brani, l’album è interamente strumentale, eppure non fa da sottofondo, non è nemmeno una colonna sonora (anche se a tratti ha gli stilemi di quelle riuscite), e a me sembra proprio un racconto, per musica e immagini. Il disco fisico, in vinile, sarà disponibile a settembre, ma intanto è uscita un’edizione limitata molto particolare: un piccolo cofanetto in cartone, con dentro le otto fotografie di Francesco Pala stampate in alta definizione e una chiavetta usb con i file dei pezzi, sia in mp3 che in formato non compresso. Un modo nuovo di affrontare, anche in questo caso, il contrasto tra musica liquida del tutto immateriale (ma del resto la musica, come diceva Leonard Cohen, è qualcosa che si fa con l’aria e quindi è di per sé immateriale) e un oggetto da tenere fra le mani, e che in questo caso è parte integrante del contenuto, anche di quello musicale.
Recentemente ho visto a Venezia una mostra che metteva insieme tre componenti: le fotografie di Luigi Ghirri, i dipinti di Francesco Caccavale e le poesie di Andrea Zanzotto. Anche in quel caso si partiva dalle immagini che ritraevano un territorio, e ho trovato curiosa la somiglianza (nell’intento) con questo lavoro degli Airportman. E in fondo nelle fotografie di Ghirri (che esteticamente sono molto diverse) c’è lo stesso sguardo rivolto alla “normalità”, lo stesso rifiuto dell’eclatante, che ho trovato in queste di Pala, e che alla fine trovo nella musica degli Airportman. Che è quello che più mi piace di loro, da sempre, anche se fanno album ogni volta molto diversi: la capacità di lavorare su qualcosa che padroneggiano, che si riconosce subito per autentico e sincero, che sta a chilometri di distanza dall’artefatto, dai cliché.
Musicalmente in Across the flatlands ho trovato il DNA degli Airportman, scombinato e ricomposto in una forma nuova, ma anche piccole tracce di molti dischi che apprezzo e che amo. Il Terrence Blanchard della 25a ora, per esempio, nei fiati (suonati con mellotron) dell’intro, ma anche l’Angelo Badalamenti di The straight story nell’uso degli archi, che in The ghost of electricity “friggono” (è un banjo maltrattato dall'archetto) come facevano in alcuni momenti del primo album di Bon Iver. E poi molecole degli amici Esterina in Here comes the darkness e in Devotion, negli elementi ripetuti e in quei delicati crescendo, e perfino, forse, il Bill Frisell di Nashville (ma più blues) in Bealera, che chiude l’album. Ci sono momenti di impostazione jazzistica contemporanea, come nel dialogo tra piano e percussioni che sta nella parte iniziale di Burn, prima che tutto si plachi in un cuore più squisitamente post-rock, che alla fine è una delle etichette più frequentemente assegnate lungo il loro percorso agli Airportman.
Rispetto a quello che avevo ascoltato in precedenza, e che mi era piaciuto, qui ho trovato una maturazione sia nella composizione che nella qualità dell’esecuzione, che rendono questo progetto perfettamente a fuoco, al tempo stesso coraggioso e subito fruibile, per niente ostico. In un periodo in cui (giustamente) si è molto elogiato l’album di Iosonuncane, una menzione speciale la merita anche questo disco, che magari non ha le stesse ambizioni e certamente non produce lo stesso hype, ma che con IRA condivide la voglia di osare e il tentativo, riuscito, di prendere strade meno battute. In questo caso, tra campi di patate, casolari, fossi e edicole votive.