Quando ripensa a quegli anni lontani
è come se li guardasse dietro un vetro impolverato.(In the mood for love, 1.28.56)
Si dice che alcuni scrittori hanno un solo romanzo nella penna, anche se ne scrivono molti. Qui ricordiamo due film che sono un film solo. Identica la situazione storica e i protagonisti: una storia lirica fra lui e lei negli anni ‘60 tra Hong Kong, Singapore e il fantasma del Giappone. Hong Kong quale città metamorfica, ambigua e ipocrita, Singapore quale via di fuga, confine, soglia, e l’evocazione del Giappone quale nuovo mito, temuto e ammirato. Identico l’amico goliardico ed erotomane. Unica differenza la condizione di partenza. In 2046 lui e lei sono single. Nell’altro film sono sposati. Il numero magico, 2046, anno in cui Hong Kong sarà pienamente cinese, viene evocato nel numero di una porta d’albergo nell’altro film.
Unica la vincente formula del lirismo narrativo, inserita nella costruzione di un contesto affascinante, specie per gli occidentali: donne belle ed eleganti, vestiti attillati e perfetti nei loro colori forti e nelle loro geometrie, situazioni di silenzio e allusione e il tipico “non detto” orientale così irresistibile per l’occidentalismo dello svuotamento e dell’esteriorizzazione dell’interiore. Una “funzione lirica” universale, quasi dolcestinovistica, in quanto risponde a dinamiche e condizioni archetipali tanto semplici quanto senza tempo. La moglie di lui e il marito di lei non vengono mai ripresi in volto. Altrimenti si svuoterebbe la condensazione-tensione poetica.
Una funzione lirica che viene articolata in due percorsi opposti ma complementari e che si sostanzia in due fattori: il senso del limite, di un’irrisolvibile incompletezza e lo struggimento per lo svanire inesorabile del tempo, che tutto appanna, anche l’esperienza erotico-amorosa. Lui e lei si amano ma sono sposati. La narrazione segue il piano inclinato inesorabile dato dall’assenza dei rispettivi coniugi e dato dal loro fascino e dalla loro comune condizione di traditi. La recita del sentimento postula l’assenza di esibizione della sua soddisfazione fisica. Non si vede neppure un bacio.
Ecco la tensione lirica che regge la messa in scena del sentimento in quanto passione non vivibile, irraggiungibile. Siamo la nostra assenza, ciò che ci manca, ricordava saggiamene Carmelo Bene. Il tema archetipale antico del segreto detto in una fessura poi coperta da terra conclude l’epos struggente del limite e dell’oblio. In the mood for love anche nel suo titolo esibisce la re-cita dell’amore, non l’amore in se stesso, quale tema.
Si canta l’amore per l’amore, il mistero-enigma dell’innamoramento, che sempre ci coglie impreparati e fragili e ci mette con le spalle al muro. Il processo esistenziale quale permanenza assume allora l’immagine simbolica di una scala, di un corrimano, dove si è costretti ad incontrarsi ma pure si è condannati alla precarietà del momento. Oppure di una stanza il cui numero è un destino, una scadenza, un limite.
In 2046, al contrario, sebbene il contesto sia quasi identico (appartamenti vicini, umili e intimi, allusioni, crescita del desiderio, il lavoro di giornalista-scrittore del protagonista, lo “sfiorare l’amore”) la sguardo narrativo si concentra sull’appartamento n° 2046 quale metafora dell’esistenza quale occhio, quale funzione.
Mutano le donne e le passioni ma resta lo sguardo lirico, l’appartamento, come la “finestra sul cortile” di Hitchcock, specie come riletta da Calasso (La follia che viene dalle ninfe). Qui il limite è interno: il successo mondano del protagonista, il suo stile di vita stesso gli impedisce di vivere l’amore che si cela nella sua passione erotica per lei, polo amoroso non corrisposto. Resta una passione tra le molte, pur la più grande, la più persistente. L’epos che sorge dal disincanto? L’epos del disincanto, del “non vivere l’amore” che ci visita? La liricità borghese residua sorge proprio dall’impossibilità di vivere in pienezza l’amore?
Il “Samsara” include tutto ma impedisce che una sua dinamica ne assuma il ruolo centrale. Simile poeticità dell’incompletezza e dell’allusione l’abbiamo in Hong Kong Express. Una città filmica e metaforica in quanto “città in scadenza”, sospesa in un suo tempo speciale, fermo e teso nel contempo. Ecco il paradosso di ogni divenire. Ecco perché le musiche struggenti sono questo flusso, questo film-flusso, questa facile sfinge, identica in più film, che parla a tutti perché tutti ci muoviamo dentro simile paradosso dato dalla crudeltà di kronos, che tutto abbraccia nella sua erosione. A noi resta il canto, unico ritorno possibile.