…Fin dall’origine del mondo, in ogni situazione, le cause di tutti i mali
sono state la cattiva consuetudine, le opinioni del volgo e la pretesa
di molti di appellarsi ad autorità inconsistenti o inaccettabili. Costoro
in tal modo si limitano a lodare ciò che conoscono e a disprezzare
o almeno a trascurare tutto ciò che non sono in grado di capire.(Ruggero Bacone)
È la primavera del 1267 quando Guido Fulcodi, eletto Papa con il nome di Clemente IV, riceve tra le sue mani l’Opus maius di Ruggero Bacone. È lo stesso pontefice nel giugno del 1266 a chiedere al francescano, maestro di filosofia e teologia dell’Università di Oxford, un’opera che possa fare da chiave di volta per una riforma del sistema di sapere contemporaneo.
Pur tra le difficoltà che Bacone si trova a fronteggiare per mantenere la segretezza dell’operazione commissionatagli dal Papa, tra il 1267 e il 1268 il pontefice riceve, insieme ad un Opus maius ed un Opus minus, una lunga epistola in cui lo studioso oxoniense offre in maniera precisa, seppur a suo dire velocemente abbozzata, la sua peculiare e per lo meno elitaria idea di revisione dell’istruzione a favore di tutta la comunità cristiana.
L’assunto fondamentale da cui il filosofo trae la sua argomentazione è che «non si può conoscere nulla in maniera soddisfacente se prima non se ne è fatta esperienza». Agli occhi dello studioso la tradizionale integrazione delle sette discipline del trivio e del quadrivio va infatti rivisitata con metodi e prospettive nuove, pur assumendo che il fine delle conoscenze umane e di quelle divine resta l’ottenimento difficile di quello che gli antichi chiamavano sapientia.
La turba dei maestri e degli studenti, secondo Bacone, è ormai da troppo tempo invischiata nella morsa delle auctoritates. Essa dà un credito cieco e una fiducia non-sperimentale a quanto gli auctores consacrati dalla tradizione, tra cui lo stesso Aristotele, pare abbiano tramandato nei loro scritti, trascurando però un dato fondamentale: le traduzioni dei testi sono piene di errori. A ciò i Latini non sanno porre rimedio (quando se ne pongano il problema) poiché, secondo il dotto francescano, essi non hanno una padronanza sufficiente né della lingua greca né tantomeno di quella araba ed ebraica, lingue fondamentali per gli studi filosofici e scientifici. La stessa Vulgata, la traduzione latina del testo biblico in uso all’epoca, pullulerebbe secondo Bacone di errori linguistici e di inesattezze etimologiche cui solo un’approfondita conoscenza delle lingue potrebbe ovviare.
Saremmo però non solo ingenui, ma anche storicamente poco informati se, come coloro che costituiscono parte del bersaglio polemico dello studioso, credessimo che il testo biblico sia per gli edotti dell’epoca un testo specificamente “religioso” nel senso in cui l’ecumene è stata abituata a credere: tutt’altro. Il filosofo muove le sue istanze di riforma sapendo come le Sacre Scritture siano un testo innanzitutto “scientifico”, nel senso ovviamente pre-cartesiano del tempo, ma non nel senso anti-sperimentale - secondo una linea ermeneutica che sarà poi seguita dallo stesso Newton - e proprio da questa consapevolezza, velata da un linguaggio per tradizione formulare, Bacone è spinto a promuovere, insieme al Papa Clemente IV che glielo richiede, una generale riforma epistemologica.
Per lo studioso, l’Anticristo arriva a coincidere - razionalisticamente - con la grande distorsione cui il sapere e le verità umane e divine vengono costantemente sottoposte per il tramite di regnanti o maestri non all’altezza del loro mandato. Per arginare dunque il pericolo che minaccia la cristianità attraverso la debolezza e l’ignoranza interna al più diffuso esercizio dell’istruzione, Bacone offre una divisione in sette saperi tra cui spiccano, per la fondamentale e circostanziata importanza che rivestono, la matematica, l’ottica, la scienza sperimentale e, nell’alveo di quest’ultima, proprio così, l’alchimia.
Ad affiancare le straordinarie applicazioni della geometria, dell’armonia e della musica che, dice Ruggero al Papa, sono tali da non poter essere lecito renderne conto per iscritto, dovrà essere l’uso consapevole della matematica e dell’ottica nel campo dell’astrologia, giacché quest’ultima non è che calcolo di linee, figure ed angoli che, se ben misurati, non solo possono spiegare la natura degli influssi astrali sui temperamenti umani, ma possono farlo mantenendo intatto, tra l’altro, il libero arbitrio dell’individuo. La magia, per il filosofo oxoniense, è qualcosa di molto più “razionale” di quanto si sia portati a credere e proprio grazie all’uso, tra l’altro, delle discipline matematiche e geometriche è possibile attuare una distinzione tra le sue operazioni buone e la dilagante pratica dei suoi impostori.
Accanto a matematica e ottica non deve quindi mancare lo studio sperimentale dell’alchimia: una scienza antichissima secondo Bacone, tramandata solo a pochi e che può fare di più della medicina corrente, poiché essa conserva nelle sue leggi sperimentali comunicate da discepolo a maestro il meccanismo segreto della prolongatio vitae, così a lungo e spesso invano ricercato nelle corti imperiali e papali e che permetterebbe di sanare le tante sofferenze e malattie del genere umano.
L’anima, lo sappiamo grazie alla filosofia araba, non è che uno specchio deformato, sostiene ancora il filosofo. Riportare lo specchio alla sua forma e alla sua limpidezza originaria è compito, insieme alle discipline suddette, della cosiddetta philosophia moralis, e proprio nel primato di quest’ultima rispetto ad una disciplina come la metafisica è da ricercare, a nostro avviso, una delle più importanti affinità tra la gerarchia cosmologica e sapienziale di Ruggero Bacone e quella di Dante Alighieri.
Il poeta, secondo quanto scrive nel suo Convivio, pone infatti la scienza morale nel nono cielo del Primo mobile al di sotto dell’Empireo (la teologia) e al di sopra di fisica e metafisica, scienze a loro volta susseguenti alle arti del trivio e del quadrivio. Perché? Dopo oltre Settecento anni siamo ancora purtroppo lontani dal comprendere in maniera puntuale e definitiva che cosa studiosi come Bacone e Dante intendessero realmente per filosofia o scienza morale, guardando entrambi tra l’altro ad un’opera specifica e a sua volta, per noi, altrettanto ambigua e polisemica: l’Ethica Nicomachea di Aristotele.
Quello che è certo, però, è che Dante, come Ruggero, polemizza con l’intellighenzia del suo tempo e la sua critica non è volta a stigmatizzare solo il potere politico in quanto tale. Ciò in ragione del fatto che il potere politico dell’epoca era molto probabilmente anche il baluardo di un paradigma di conoscenza che attentava al “sapere sperimentale” di cui parla Bacone. Dal canto suo Dante, istruito presso le scuole di frati domenicani e francescani in Firenze, e non quindi interno all’entourage del sapere accademico, cita polemicamente proprio il docente di medicina dell’Università di Bologna più celebrato del suo tempo: Taddeo Alderotti. Quest’ultimo, a quanto pare, andava restringendo sempre più il dominio della medicina al magistero aristotelico di tipo scolastico, sminuendo di fatto la pur millenaria natura della disciplina medica in quanto ars fittamente integrata con altre forme di sapere fisico e spirituale e da queste, dunque, non definitivamente separabile come egli andava invece teorizzando. A Taddeo, nel dodicesimo canto del Paradiso, Dante contrappone quella che il poeta, con metafora scritturale, chiama la «verace manna» di San Domenico, un “medico” cui non preme solo la cura della carne ma anche quella dello spirito e a cui un’inveterata tradizione popolare attribuiva proprio la pratica dell’alchimia.
Il paradigma di una medicina scolastica, propugnata dall’Alderotti, che aveva scritto un Regimen sanitatis per Corso Donati, guelfo di parte nera e che aveva, a quanto registrano le fonti, regalato un “idolo” a Bonifacio VIII di cui era anche medico, avrà però la meglio sulla posizione anti-accademica del guelfo bianco Dante Alighieri, costretto nel 1302 all’esilio da Firenze.
Potremmo farci a questo punto delle domande per gettare un ponte tra il mondo dei pluri-saperi medievali, concepiti da Ruggero Bacone e Dante Alighieri come corollario dell’unità fisico-spirituale dell’individuo, e il mondo dell’istruzione contemporanea sempre più specializzata e relegata al dominio della “mente” sì, ma non dell’esperienza né, meno che mai, del pensiero critico.
Che ne è oggi della sapientia conosciuta e difesa a spada tratta da Bacone e Dante? Essa nella storia, citando Thomas Stearns Eliot, è stata sostituita prima dalla “conoscenza”, poi soppiantata dall’“informazione”. Nel tempo odierno non è difficile osservare che essa è stata ridotta ai “dati”.
Cosa ne è allora della cosiddetta anima celebrata con disinvoltura dai due uomini del Medioevo come oggetto di studio e di conoscenza ineliminabile? Potremmo asserire che oggi, in quel tipo di scuola che, come sa Bertrand Russell, dà risposte ma non dà domande, e che è sempre più votata all’omologazione seriale, lo studente può apprendere l’esistenza dell’anima suddetta solo se, a seguito delle lesioni che riceve dall’omologazione stessa, egli si reca da uno psicoterapeuta, preferibilmente junghiano.
Che cosa ne è dunque della spiritualità cui si appellano in modi diversi ma attigui sia Bacone che Dante? Essa, ci verrebbe da dire, costituisce ancora un illecito sia nella religione che nelle scuole e occuparsene, come già ai tempi di Bacone che accennava al Papa le impronunciabili operazioni della musica, fa etichettare l’individuo, quando lo si licenzi con un eufemismo, come “alternativo” e forse bisognoso della terapia di cui sopra.
Che ne è stato infine della riforma proposta da Bacone e della scienza morale di Dante? Il Papa Clemente IV muore nel novembre dello stesso 1268. La scienza morale difesa prima da Bacone e poi da Dante è stata prontamente convertita in prodotto fruibile per un pubblico di curiosi e nell’attuale sistema di istruzione essa è diventata “moralismo”. La cosa, incontrando certamente il gusto ineliminabile dell’epoca corrente nel soddisfare effimere curiosità per piccole faccende altrui – secondo il diktat del gossip - elude da un lato le questioni fondamentali su cui si regge l’impianto della Comedìa dantesca, cioè la sua dottrina scientifica e spirituale, mentre dall’altro sfiora con inconcludente approssimazione la questione dell’amore di cui molto si teorizza e poco, appunto, si “sperimenta”.
La lezione dell’epistola di Bacone riguardo le mancanze del sistema di conoscenza più diffuso sembra essere ancora purtroppo al passo con i tempi. Non cataclismi né invasioni di infedeli o pestilenze attentano alla conservazione del consorzio umano, ma la trasmissione cieca di conoscenze ad una moltitudine che non pensa, ad una congrega che scientemente si dis-anima, ad un esercito che indotto a dimenticare il corpo non può che ignorare lo spirito e con essi il fine di qualsiasi sapere.
Bibliografia
F. Bottin (a cura di), Ruggero Bacone. La scienza sperimentale. Lettera a Clemente IV – La scienza sperimentale – I segreti dell’arte e della natura, Rusconi, 1990 Milano.
N. Coletta, La pietra dei filosofi. Dall’alchimia alle “petrose” di Dante, Mimesis, Milano – Udine, 2020.
D. Alighieri, Il Convivio, a cura di G. Busnelli e G. Vandelli, con appendice a cura di A.E. Quaglio, Le Monnier, Firenze 1964.
A. Paravivini Bagliani, Bonifacio VIII, Einaudi, Torino 2003.
B. Reynolds, Dante. La vita e l’opera, Longanesi, Milano 2007.