“Il cambiamento climatico pone un problema drammatico di ingiustizia a livello globale, comunque lo si guardi”: così riassume la sua riflessione sul legame tra disuguaglianza e crisi ambientale Giorgio Giovanni Negroni, professore di Economia della disuguaglianza presso l’Università degli Studi di Bologna, intervistato sul tema. Il problema può e deve essere considerato da due prospettive complementari, che, unite, restituiscono un quadro di profonda complessità: la prima esamina gli effetti della disuguaglianza sul cambiamento climatico, la seconda il rapporto inverso.
Il primo problema riguarda una fetta molto ampia degli abitanti della Terra: “Se prendiamo in considerazione il periodo tra il 1961 e il 2000, il 40% della popolazione mondiale è diventato più povero a causa del cambiamento climatico”. Questa percentuale, però, non è distribuita in modo uniforme.
Sappiamo, per esempio, che “i Paesi in genere più poveri sono situati ai tropici. Ci sono tante ragioni: qualcuno dà la colpa alla geografia, qualcuno alle istituzioni ereditate dal passato coloniale”. Qualunque sia il motivo, “il cambiamento climatico non è causa della povertà di questi Paesi, ma si aggiunge, è un ulteriore fattore che va a esasperare le difficoltà”.
Come? Negroni spiega: “La temperatura media annuale, che già è alta, salirà, riducendo la produttività della terra e aumentando la desertificazione dei suoli, con ulteriore riduzione della fertilità dei terreni. Tutto questo in Paesi in cui l’agricoltura è un settore fondamentale. A questi fattori aggiungiamo l’aumento, sia in frequenza che in intensità, dei fenomeni estremi”.
Le conseguenze sono drammatiche e dolorosamente rappresentative delle fratture che attraversano la società contemporanea. “Nel 2040 i Paesi che al 2010 si situavano tra il 20° e il 60° percentile più povero della scala del PIL pro capite (pari a oltre metà della popolazione mondiale) avranno una perdita, in termini di reddito, del 10-25%. Nel 2100, al netto dei margini di errore, per tutti i gruppi la perdita sarà del 50-75%. Gli unici che vedranno migliorare la loro posizione sono i Paesi situati nel 20% più ricco”.
Per misurare, invece, l’impatto del cambiamento climatico sulle dinamiche alla base delle disuguaglianze, si utilizza “una contabilizzazione delle emissioni sulla base del consumo. In base a questo principio, imputiamo per esempio all’Italia tutte le emissioni legate alla produzione dei beni che vengono consumati in Italia: non contabilizziamo cioè quello che l’Italia esporta, ma quello che importa. Questo lega la responsabilità delle emissioni agli stili di vita, ai livelli di consumo, non alla produzione tout court”.
Con una premessa: “Il consumo dipende dal reddito: all’aumentare del reddito aumenta il consumo e quindi le emissioni imputabili”.
Gli studi che hanno analizzato il problema ambientale da questa prospettiva hanno concluso che “il 10% più ricco su scala planetaria è responsabile del 49% delle emissioni di CO2, e si parla di 770 milioni di persone, concentrate per il 65% nei Paesi ricchi. Il 50% più povero è responsabile del 10% delle emissioni di CO2: si tratta di 3,5 miliardi di persone, concentrate nei Paesi poveri emergenti: Cina, India, Sudafrica, America Latina”.
Se poi si volesse studiare la questione ancora più nel dettaglio, andando ad analizzare quanto succede al 10% più ricco della popolazione in ogni singolo Paese, si scoprirebbe che “le tonnellate di CO2 pro capite annue di chi appartiene al 10% più ricco nel suo Paese sono 4,76 in Cina e 3,10 in India, ma 50 negli Stati Uniti”. Profonde discrepanze sono da rinvenire anche nel 50% più povero: “le tonnellate di CO2 pro capite annue prodotte da chi sta nel bottom 50% del suo Paese sono 0,74 in Cina e 0,36-0,76 in India, ma 8,6 negli Stati Uniti”.
Ciascuno di questi numeri racconta di un’ingiustizia a sé, che andrebbe analizzata nel dettaglio per comprenderla a fondo, ma le conclusioni sono chiare. Parlando di crisi climatica, “saranno i poveri nei Paesi più poveri a pagare la maggior parte delle conseguenze, perché sono i meno attrezzati a far fronte all’emergenza, sia per carenze economiche che per carenze politico-istituzionali. Le élite mondiali, situate in prevalenza nei Paesi ricchi, sono invece paradossalmente quelle che più contribuiscono, con il proprio stile di vita, a causare il cambiamento climatico” e saranno quelle che meno ne subiranno le conseguenze.
Un passo indietro per ricordare la premessa a questo discorso: le emissioni sono state analizzate considerando una contabilizzazione basata sul consumo. Negroni specifica: “Se noi andassimo a vedere la responsabilità delle emissioni, scopriremmo che è ancora più concentrata, in termini soprattutto di settori economici”. Ci sarebbe un discrimine da fare – si ricorre invece a generalizzazioni di sorta per nascondere una responsabilità che è tutto tranne che diffusa.
Riassume Negroni: “È comodo fare di tutta l’erba un fascio, parlare di Antropocene, dire che tutte le attività umane sono causa della situazione in cui ci troviamo, però questo sembra mascherare il fatto che non tutte le attività umane sono uguali e contribuiscono in pari misura”. Ecco che allora il discorso si fa più profondo, più ideologico: un’occasione di scavare un po’ più a fondo.
Il termine “Antropocene” si riferisce alle profonde mutazioni ambientali accadute negli ultimi decenni e riconducibili all’agire umano. Qualche esempio: se per 12 mila anni la concentrazione di CO2 nell’aria si è mantenuta tra le 260 e 280 parti per milione (ppm), oggi abbiamo superato le 410 ppm. Siamo, secondo alcuni scienziati, nel bel mezzo della sesta estinzione di massa. L’aver bruciato combustibili fossili negli ultimi 200 anni ha differito di molte migliaia di anni la prossima glaciazione.
Potremmo continuare a oltranza, ma perderemmo una sfumatura di significato non indifferente: questi fenomeni non sono stati causati in egual modo da tutto il genere umano. “Se le parole rivelano l’identità dei fenomeni, forse Antropocene non è il termine più adatto al periodo in cui stiamo vivendo”, conclude Negroni.
Una trattazione completa dell’argomento sarebbe un’opera titanica, ma alcuni spunti possono servire per comprendere la complessità delle dinamiche in atto. È opinione diffusa che parlare di giustizia climatica significa anche parlare di lotta per l’uguaglianza di genere e di eradicazione del razzismo.
Le donne, infatti, affrontano comunemente rischi più elevati e maggiori conseguenze legate al cambiamento climatico in situazioni di povertà, e la maggioranza dei poveri del mondo sono donne. L'ineguale partecipazione delle donne ai processi decisionali e al mercato del lavoro aggrava le disuguaglianze e spesso impedisce alle donne di contribuire pienamente alla definizione e all’attuazione delle politiche relative al clima.
Simili disuguaglianze in termini di opportunità e diritti civili riguardano le persone di colore: il razzismo sistemico nega loro la parità di accesso alla giustizia economica, sociale, ambientale e climatica. Gli studi dimostrano, per esempio, che le persone di colore soffrono maggiormente le conseguenze dell’inquinamento atmosferico, dello scorretto trattamento dei rifiuti tossici e dell'intera idea delle compensazioni di carbonio, che non fanno altro che riprodurre gli schemi coloniali.
Un ultimo spunto di riflessione riguarda l’attuale fase di superamento della crisi pandemica. Si parla di “green recovery”, di ricostruire il mondo post-coronavirus su premesse sostenibili, ma si tende a ignorare due fatti: che una ripresa sostenibile è un lusso per le nazioni più vulnerabili e che, contemporaneamente, l’impatto del cambiamento climatico si sta già facendo sentire in modo importante tra i membri più poveri della società.
Infatti, mentre gli Stati più ricchi investono una cifra stimata di 12 miliardi di dollari in piani di ripresa, le nazioni più povere sono immerse fino al collo nell’emergenza e stanno avendo grosse difficoltà anche solo a garantire la sopravvivenza dei loro cittadini e ad affrontare il debito crescente. I Paesi più sviluppati dovrebbero piuttosto mobilitare ulteriori finanziamenti per permettere una più facile transizione ai Paesi e alle comunità che stanno già affrontando perdite e danni a causa del cambiamento climatico, che, come dimostrato, hanno gran poco contribuito a scatenare.