In questo tempo difficile, nel quale tutti ci siamo ritrovati a riflettere sul tempo che ci è dato da vivere che è, scriveva Bonhoeffer, “il bene più prezioso perché il meno recuperabile”, credo che sia diventata più urgente per molti la domanda sul tempo perduto perché “l’idea del tempo eventualmente perduto provoca in noi una costante inquietudine”. Non è una domanda che riguardi unicamente il destino individuale; mi sembra invece una domanda che, nelle epoche di crisi, interpella una generazione intera, perché non costringe solo a tracciare un bilancio sul passato, ma impone di riflettere sulla propria condizione presente e su ciò che vogliamo fare della nostra vita. “Perduto – continuava Bonhoeffer nel Natale del 1942 – sarebbe il tempo in cui non avessimo vissuto da uomini, non avessimo fatto delle esperienze, non avessimo imparato, operato, goduto, sofferto. Tempo perduto è il tempo non pieno, il tempo vuoto”.
Queste parole introducono un lungo testo, scritto in quattro copie, consegnato a tre amici con i quali il teologo condivideva l’esperienza della congiura contro Hitler. E sollevano una domanda imperiosa: che cosa ha significato per la nostra vita personale il decennio di dittatura nazista che abbiamo alle spalle? Una domanda che contiene in realtà un’istanza universale: quale significato ha il tempo della sofferenza, della fatica, della responsabilità, nella nostra vita? E come dobbiamo guardare al futuro a partire da questo tempo?
Non ci troviamo all’interno di un regime totalitario. Non siamo, come invece altri sono, nel cuore di una guerra. Ma è innegabile che questo tempo ha incrinato molte certezze, o forse ha più semplicemente smascherato chi veramente siamo: nulla come l’esperienza della fragilità, dell’incertezza, della fatica, lascia intravedere cosa veramente conti per ciascuno di noi e cosa vogliamo fare del tempo che ci è dato. E se a governare la nostra vita sia il cinismo egoista o l’attenzione all’altro, lo sguardo ossessivo su di sé o quello proiettato fuori di sé, l’angoscia senza futuro o la speranza come virtù attiva e trasformatrice.
Il principio speranza
La domanda sulla speranza, appunto. Che affiora sempre nei tempi difficili. Non è un caso che l’opera più famosa del filosofo marxista Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung (Il principio speranza) sia nata dalle riflessioni maturate durante il tempo drammatico dei totalitarismi del Novecento e prenda le mosse da domande che potremmo dire originarie: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Che cosa ci aspettiamo? E che cosa ci aspetta? Molti si sentono soltanto confusi. Il terreno vacilla e non sanno perché e per cosa. [...] Ma ora, messi da parte gli artefici della paura, è tempo di un sentimento più degno. L’importante è imparare a sperare”. Mi impressiona sempre questo richiamo alla necessità di “imparare” un “sentimento più degno”. La speranza si impara, è una Weltanschauung, comporta la scelta impegnativa di non rimanere appiattiti nell’angoscia: “Lo sperare, superiore al temere, non è passivo come questo, né rinchiuso dentro un nulla. L’affetto dello sperare esce fuori di sé, allarga gli uomini, invece di restringerli, non ne sa mai abbastanza di quel che internamente li rende tesi a uno scopo, di quel che esternamente può esser loro alleato”. Bloch contesta così la tentazione, diffusa anche nel nostro tempo, di ritenere la realtà dei fatti come qualcosa di immutabile, di piegarsi alla rassegnazione, di considerare la storia umana come una sequenza di eventi sempre uguali a se stessi, come il ripetersi sempre della stessa logica.
Contro il “feticismo dei nudi fatti”, contro il cosiddetto “realismo” di coloro che ritengono che tutto si ripeta uguale, che esiste una sorta di immutabile tragico destino nella storia umana, Bloch afferma così che il futuro rappresenta “la qualità dell’essere”, l’elemento che qualifica l’esistenza umana: l’essere umano, se vuole essere realmente tale, deve riconoscere la propria tensione al superamento dell’esistente, alla trascendenza, la tensione “verso una possibilità non ancora avvenuta”, l’apertura all’avvento del nuovo. Il presente non è il luogo nel quale riconoscere il ripetersi sempre uguale dell’identico, ma è “lo spazio del nuovo”; ed è per questo che nella storia umana Bloch riconosce un valore centrale al fine, che è al di là del presente, verso il quale ci si muove: “la vera genesi – scrive – non è all’inizio, ma alla fine”.
La prospettiva di Bloch rimane rigorosamente all’interno della storia: ma è proprio questo che rende universale la tensione della speranza, perché secondo Bloch essa riguarda tutti gli uomini, che per essere tali, per non condurre “una vita da cani”, se non vogliono precipitare la propria vita nelle angustie dell’angoscia, devono coltivare la grande virtù della speranza.
Servire l’umanità perché il mondo si trasformi
In dialogo con Ernst Bloch si pose allora il teologo evangelico Jürgen Moltmann, più giovane di Bloch di quarant’anni (Bloch era del 1885, Moltmann del 1926). Egli riconobbe all’anziano filosofo di origine ebraica il merito di aver messo l’accento su una dimensione fondamentale, e ritenne che il principio speranza di cui parlava Bloch rappresentasse un cardine irrinunciabile anche del messaggio cristiano. Moltmann sottolineava che la speranza è un carattere strutturale del cristiano autentico, il quale non può accettare fatalisticamente gli eventi, ma deve al contrario essere aperto al nuovo, fiducioso nella promessa di Dio e nella sua possibilità di essere presente nella storia pur segnata dal male. Soprattutto è la fiducia che la storia cammina verso l’incontro con Dio a sostenere la speranza cristiana. La quale tuttavia, in linea con quanto affermava Bloch, non è una speranza passiva: i cristiani, scriveva Moltmann, non hanno “da servire l’umanità affinché il mondo rimanga quello che è, o possa essere conservato nello stato in cui si trova, ma affinché si trasformi e diventi ciò che è promesso che diventerà. Perciò ‘chiesa per il mondo’ non può significare altro che ‘chiesa per il Regno di Dio’ e per il rinnovamento del mondo”. La convergenza con Bloch sul tema della trasformazione e del rinnovamento del mondo è evidente. I caratteri di questo rinnovamento hanno le radici, dice il teologo, nel messaggio evangelico e si traducono “nell’adempimento escatologico della giustizia, della socialità, della vita, dell’umanità”: in una parola nella realizzazione delle condizioni di una vita piena insieme agli altri. Ed è per Moltmann una speranza che sconfina oltre la morte.
Tutto ciò non significa che le speranze umane non possano andare deluse; tuttavia – scrive Moltmann nelle ultime righe della sua Teologia della speranza – la speranza cristiana è “una forza motrice della storia a favore delle utopie creative dell’amore per l’uomo sofferente e per il suo mondo imperfetto, muovendosi verso il futuro sconosciuto, ma promesso, di Dio”.
Dobbiamo reimparare a sperare
Perché dovremmo tornare a riflettere sulla speranza, magari a partire da quei due testi di Bloch e Moltmann che segnarono un’epoca mettendo al centro la potenza trasformatrice di una virtù tanto dimenticata?
Prima di tutto perché il rischio più grande dei tempi difficili è quello di operare una “riduzione” della speranza di fronte a un futuro letto più sotto l’insegna della paura e dell’insicurezza che della promessa. Ciò che salta agli occhi, quando si pone oggi la domanda di Kant – “che cosa posso sperare?” – ai nostri contemporanei, mi sembra sia soprattutto la riduzione delle attese: piccole speranze addomesticate hanno preso il posto delle grandi utopie narrate da Bloch e da Moltmann e hanno sostituito gli orizzonti ampi della trasformazione della realtà con gli asfittici confini del proprio destino personale immediato. È come se in un tempo minacciato prevalessero i sogni di basso cabotaggio per tenere a bada le possibili delusioni (se non si spera nulla, magari ci si illude di non sperimentare il fallimento…) e la privatizzazione delle attese avesse preso il posto della dimensione collettiva che la speranza porta con sé. In questo modo non solo si rinuncia a “iniettare nel mondo continue dosi di speranza” (Fries), ma si rinuncia a farsi carico responsabilmente del futuro dell’umanità, poiché “per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare? ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene? Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde, anche se provvisoriamente molto mortificanti” (Bonhoeffer).
In secondo luogo, perché l’orizzonte della speranza ha a che fare con la ricerca e la realizzazione del bene universale della comunità umana, alla quale contribuiscono, diceva Kant, gli uomini retti: “La speranza di tempi migliori, senza la quale un autentico desiderio di fare qualcosa di proficuo per il bene universale non avrebbe mai ravvivato i cuori umani, ha sempre anche avuto influsso sull’agire degli uomini retti”. La domanda non è dove siano questi uomini retti, i pochi giusti che la tradizione ebraica riconosce come coloro che salvano il mondo dalla rovina? ma: come sarebbe il mondo se facessimo ciascuno la propria parte per la realizzazione del bene?
Così Sophie Scholl – la più giovane componente del movimento di resistenza della Rosa Bianca, ghigliottinata dal regime di Hitler il 22 febbraio 1943 di cui abbiamo celebrato il 9 maggio il centenario della nascita – all’amica Lisa nel 1938: “Non è questo un mistero, pauroso quasi, che tutto sia così bello? Nonostante l’orrore, continua ad essere così. Nel mio godere della bellezza si è inserito a forza un elemento sconosciuto, un presagio del creatore, che ogni creatura innocente loda con la sua bellezza. Per questo soltanto l’uomo è capace di essere veramente crudele, perché è libero di dissociarsi da questo canto di lode. E adesso si potrebbe spesso pensare che lo faccia, coprendo questo canto con il rumore dei cannoni, di maledizioni e di bestemmie. Ma il canto di lode ha il sopravvento, questo mi è stato chiaro la scorsa primavera, ed io voglio fare tutto quello che è possibile per associarmi alla sua vittoria”.
E così, nel gennaio 1977, Aldo Moro, di cui ricorre lo stesso giorno l’anniversario della morte per mano di un manipolo di criminali che ammantarono (e ogni tanto ammantano ancora…) di grandi ideali i propri delitti per renderli in parte giustificabili (agli occhi di chi?): “Penso all’immensa trama di amore che unisce il mondo, ad esperienze religiose autentiche, a famiglie ordinate, a slanci generosi di giovani, a forme di operosa solidarietà con gli emarginati ed il Terzo Mondo, a comunità sociali, al commovente attaccamento di operai al loro lavoro. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Basta guardare là dove troppo spesso non si guarda e interessarsi di quello che troppo spesso non interessa […]. Il bene, anche restando come sbiadito nello sfondo, è più consistente che non appaia, più consistente del male che lo contraddice. La vita si svolge in quanto il male risulta in effetti marginale e lascia intatta la straordinaria ricchezza dei valori di accettazione, di tolleranza, di senso del dovere, di dedizione, di simpatia, di solidarietà, di consenso che reggono il mondo, bilanciando vittoriosamente le spinte distruttive di ingiuste contestazioni […]. E tuttavia si insinua così il dubbio che non solo il male sia presente, ma che domini il mondo. Un dubbio che infiacchisce quelle energie morali e politiche che si indirizzano fiduciosamente, pur con una difficile base di partenza, alla redenzione dell’uomo. Una più equilibrata visione della realtà, della realtà vera, è non solo e non tanto rasserenante, ma anche stimolante all’adempimento di quei doveri di rinnovamento interiore e di adeguamento sociale che costituiscono il nostro compito nel mondo”.
Questo, oggi, mi sembra il punto. Dobbiamo reimparare a sperare, come singoli e come comunità umana, perché la costruzione del bene ha bisogno di donne e di uomini che non siano ripiegati nell’angoscia. Perché il tempo che ci è dato è prezioso perché non recuperabile; e perché “il bene è più consistente del male che lo contraddice”. Non è su questa certezza che si fonda la speranza che sorregge l’azione dei giusti?