Nell’anno della ricorrenza dei 75 anni della Repubblica sarà utile riflettere, sia pure in sintesi, sulla difficile transizione tra il passato ventennio di dittatura monarchico-fascista e quello successivo repubblicano e democratico. La storia, infatti, non è mai scritta una volta per sempre. Illudersi del contrario può portare a tragiche conseguenze. Pensare che il passato, una volta messo dietro le spalle, sia finito in via definitiva, relegato nelle pagine dei libri di storia, è un gravissimo errore, che si rischia di pagare assai caro. Il passato non passa. La storia non conosce soluzioni di continuità se non apparenti e, se anche vi fossero, non sarebbero mai irreversibili. Il presente è il risultato di una sorta di impasto tra il presente e i residui del passato, e quest’ultimo, lungi dall’essere cancellato, può rientrare, in maniera violenta o silente, dentro il presente, condizionandolo, inquinandolo e deviandone il corso, non appena le condizioni politiche, economiche e sociali, con il loro inevitabile mutamento, ne consentano il riemergere.
Dunque, i mutamenti politici non segnano mai una cesura netta, una discontinuità definitiva, neppure quando seguono eventi drammatici, come la fine di una guerra perduta in maniera disastrosa e tanto meno nei casi di passaggi meno traumatici, di lenta evoluzione verso la democrazia, il progresso, la crescita economica. Ciò, in primo luogo, per la permanenza dei soggetti che di quelle idee furono sostenitori, o addirittura protagonisti di rilievo, dal momento che la nascente repubblica italiana, come si esporrà di seguito, decise di non praticare sino in fondo la via giudiziaria per la punizione dei crimini del passato regime, né alcuna seria epurazione dei quadri dirigenti delle istituzioni militari, ministeriali e giudiziarie del passato, sicché rimasero in servizio molti dei prefetti, questori, generali, magistrati, nominati dal regime fascista.
Una delle prime manifestazioni della permanente vitalità del passato regime, fu il progetto di attentato al governo Bonomi del 20 ottobre del 1944, quando la polizia di Stato trovò un cilindro con dentro sessanta chili di tritolo, in una sala adiacente a quella nella quale si sarebbe riunito l’intero Consiglio dei Ministri, allo scopo di compiere una strage. Nonostante che lo stesso Bonomi avesse imposto ai suoi ministri di “serbare il segreto”, la notizia venne a conoscenza anche delle autorità militari alleate che svolsero un’inchiesta rimasta senza risultati. Dell’esplosivo si fecero perdere le tracce, mentre tra le varie ipotesi la più probabile rimase quella che riconduceva la paternità a “settori filofascisti e monarchici di estrema destra”.
Altro attentato alla vita di Togliatti fu quello del 4 luglio del 1948, a Roma, all’uscita del politico da Montecitorio. Venne colpito da colpi di pistola esplosi alle sue spalle, rimanendo gravemente ferito. Lo sparatore venne subito individuato in un giovane, di origine catanese, Antonio Pallante, che risultò legato ad ambienti dell’estrema destra, alla Decima MAS e a Salvatore Giuliano. Era già iniziata la strategia della tensione con la prima strage della serie che insanguinerà l’Italia nei decenni successivi, a Portella della Ginestra il 1° maggio del 1947.
Determinante ad assicurare impunità e permanenza nelle strutture dello Stato repubblicano furono i tre provvedimenti di amnistia, il primo e più importante dei quali fu la cosiddetta amnistia Togliatti, dal nome del ministro della Giustizia. Rispondevano alla duplice esigenza di punizione e pacificazione, anche se la seconda prevalse nettamente sulla prima.
Erano esclusi dall’applicazione dall’amnistia – sempre secondo l’art. 3 del decreto n. 4/1946 – i reati compiuti “da persone rivestite di elevate funzioni di direzione civile o politica o di comando militare, ovvero siano stati commessi fatti di strage, sevizie particolarmente efferate, omicidio o saccheggio, ovvero i delitti siano stati compiuti a scopo di lucro.”
Il testo del decreto lasciava ai magistrati ampi spazi di discrezionalità su due punti dirimenti circa la sussistenza delle condizioni esclusive dell’amnistia: “Stabilire quali fossero le funzioni di direzione civile, politica o di comando militare, quali fossero le sevizie, in sostanza le torture, “particolarmente efferate”, (tutte le altre sevizie, anche se efferate consentivano l’applicazione dell’amnistia).
Se si dovesse dare un giudizio sulla ripartizione delle responsabilità tra il dato normativo e l’esito giurisdizionale, tra legislatore e magistratura, il maggior carico, spetterebbe comunque alla Corte di Cassazione, sezione seconda, che poteva o rinviare il processo alla Corte d’Assise di altra sede o applicare direttamente il provvedimento d’amnistia nel caso si fosse ritenuto di non procedere ad alcun accertamento ulteriore. Con riguardo alla sussistenza delle due condizioni esclusive dell’amnistia, la Cassazione stabilì in numerosi casi che l’avere avuto il comando di reparti militari non integrava le “elevate funzioni”, mentre nel caso delle sevizie, ritenne anche in questo caso nella maggior parte dei casi, che l’impossibilità di stabilire con certezza la “particolare” efferatezza delle stesse” integrasse un dubbio che andava risolto “pro reo”.
Fu in Cassazione che si impose la linea lassista nei confronti dei gravi reati perpetrati da fascisti e collaborazionisti e quella rigorosa nei confronti di quelli perpetrati dai partigiani. La spiegazione sta nel fatto che i componenti della Corte di Cassazione dell’immediato dopoguerra, e soprattutto quelli che ricoprivano posizioni apicali, erano entrati in magistratura nel primo ventennio del Novecento, la stragrande maggioranza dei quali era stata iscritta al PNF (Partito Nazionale Fascista).
La mancata epurazione, dopo il passaggio dalla monarchia alla repubblica, rese possibile che all’interno della magistratura convissero magistrati che avevano avuto incarichi di grande rilievo nel periodo fascista, che quindi per esperienza e per convinzione erano ancora fedeli al vecchio ordinamento ed estranei al nuovo, e magistrati vittime di discriminazione durante il regime fascista per il loro antifascismo. La mancata epurazione dei ruoli apicali della magistratura (insieme a quelli della pubblica amministrazione), fu dovuta alla volontà espressa esplicitamente dal presidente del Consiglio Alcide De Gasperi della necessità di dare continuità al funzionamento della macchina burocratica e giudiziaria.
Concludendo, può dirsi come l’intento, se mai fosse stato seriamente perseguito, di punire i responsabili dei crimini compiuti dallo squadrismo repubblichino dal 1943 al 1948, data di entrata in vigore della Costituzione e della vittoria della DC alle consultazioni elettorali del 18 aprile di quell’anno, debba ritenersi clamorosamente e dolorosamente fallito. Le conseguenze furono duplici ed ambedue di particolare gravità. La prima era di carattere giudiziario e consisteva nella impunità assicurata ai responsabili di gravissimi reati, la seconda era di ordine politico e sociale e consisteva nella messa in libertà di elementi pericolosi per la democrazia, come le vicende degli anni della strategia della tensione avrebbero drammaticamente dimostrato.
Il catalogo delle impunità va integrato con quelle assicurate agli ufficiali italiani per i crimini commessi nella seconda metà degli anni ’30 in Libia, e quelle commesse nei territori occupati durante la Seconda guerra mondiale. In Libia i generali Cadorna e Badoglio praticarono su larga scala deportazioni, massacri, bombardamenti con uso di gas ustionanti (iprite), fucilazione di oppositori; in Grecia il colonnello, poi divenuto generale, Giovanni Del Giudice, comandante della Divisione “Pinerolo” ed altri ufficiali si resero responsabili di fucilazioni e deportazioni, oltre che di atroci torture e di violenze sessuali in danno di prigionieri ed ostaggi. La documentazione dell’orrido elenco di tali atrocità è contenuta negli atti di accusa redatti dall’Ufficio Nazionale Greco per i crimini di guerra, trasmessi alla United Nation War Crimes Commission. In totale furono ben 185 gli italiani denunciati per crimini guerra commessi in Grecia inclusi nella lista della Commissione delle Nazioni Unite, ma nessuno di questi venne mai processato in Italia, né estradato in Grecia o giudicato da tribunali internazionali.
In Albania sedici furono i processi a carico di italiani e albanesi collaborazionisti, responsabili di crimini di guerra, tutti condannati a morte. Nel 1948 la Commissione di Stato albanese per i crimini di Guerra presentò all’Italia, sulla base del Trattato di Parigi la richiesta di consegna di 147 italiani imputati di crimini di guerra, con allegati i capi di imputazione elevati a carico di ciascuno di essi. La richiesta venne respinta per motivi procedurali (assenza di relazioni diplomatiche tra i due paesi e mancata adesione dell’Albania al Trattato di Pace di Parigi). Tre degli imputati, tuttavia, erano stati condannati dall’Alta Corte di Giustizia con sentenza del 12 marzo del 1945, condanna annullata dalla Corte di Cassazione sul presupposto che “non basta la sola carica a rendere responsabile del delitto di atti rilevanti chi ne è stato investito”.
Analoghi problemi, sia pure di dimensioni assai minori si ebbero nei teatri di guerra in Russia. Le Commissioni regionali dell’URSS stilarono un elenco comprendente 12 nomi di ufficiali italiani, quali criminali di guerra. Nonostante le trattative intercorse tra i due Paesi, nessun esito ebbero le richieste di estradizione, né furono avviati processi da parte dell’autorità giudiziaria italiana.
In Slovenia il generale Mario Roatta, quale comandante della II Armata, attuò nella provincia di Lubiana, una spietata repressione contro i civili. Paradossalmente, non occorrono elementi di prova a suo carico, atteso che egli stesso, in una circolare a sua firma, enunciò un esplicito programma di atrocità, rappresaglie, incendi di case e villaggi, esecuzioni sommarie, raccolta e uccisione di ostaggi, internamenti nei campi di concentramento di Arbe e di Gonars, sostituzione etnica. Si tratta della circolare 3C, del 1° marzo 1942, nella quale, tra l’altro, dispose: "(...) Se necessario, non rifuggire da usare crudeltà. Deve essere una pulizia completa. Abbiamo bisogno di internare tutti gli abitanti e mettere le famiglie italiane al loro posto; (…) l'internamento può essere esteso… sino allo sgombero di intere regioni, come ad esempio la Slovenia. In questo caso si tratterebbe di trasferire, al completo, masse ragguardevoli di popolazione… e di sostituirle in loco con popolazioni italiane”. Una vera e propria sostituzione etnica, destinata a ripetersi durante la scomposizione della Jugoslavia nella guerra dei primi anni Novanta. Il 18 marzo 1942 Roatta venne nominato comandante della Seconda Armata in Croazia dove ordinò nei confronti della guerra partigiana di "...applicare le sue disposizioni senza false pietà", dando così inizio ad una vera e propria azione di terrore contro i civili che davano supporto logistico alle bande partigiane. Numerosi villaggi vennero devastati come rappresaglia, così come avrebbero fatto qualche anno più tardi le truppe naziste in Italia.
La Repubblica Socialista di Jugoslavia richiese all’Italia l’estradizione di Roatta per essere processato come criminale di guerra, richiesta che non trovò accoglimento, nonostante si trattasse di ben nove capi di accusa di eccezionale gravità, in ciò sostenuta dalle potenze alleate. La guerra fredda era iniziata e dava i suoi primi effetti.
A medesime conclusioni deve pervenirsi in merito al necessario processo di epurazione. Si è già fatto cenno alla decisione espressa in proposito dal presidente del consiglio De Gasperi e la conclusione fu che la maggior parte dei prefetti già in carica durante il regime rimase al suo posto e così dicasi per i questori e i vertici dei ministeri e della magistratura. Ancora nel 1960 ben 60 prefetti su 62 erano nei ruoli dall’epoca fascista!
Il ricercatore svizzero Davide Ganser in Gli eserciti segreti della Nato riferisce come, allo scopo di limitare la forza dei comunisti in Italia, la CIA si alleò alla mafia e agli estremisti di destra. L’agente della CIA Victor Marchetti dichiarò a questo riguardo che “la mafia per il suo carattere anticomunista è uno degli elementi che la CIA usa per controllare l’Italia”. Il riconoscimento della funzione della mafia da parte dei servizi alleati era esplicito: “Grazie all’onesta e fidata collaborazione con il governo alleato, la mafia può ora diventare una vera formazione politica per la rinascita della Sicilia”. Già durante la Seconda guerra mondiale il capo della sezione italiana dell’OSS (dal 1949 prese il nome di CIA), aveva consigliato al ministro americano della Giustizia di ridurre la condanna a cinquant’anni di carcere inflitta al boss della mafia siciliana Charles “Lucky” Luciano (il cognome esatto era Lucania), “che in cambio della sua liberazione avrebbe fornito all’esercito americano un elenco di influenti boss mafiosi disponibili a sostenere l’esercito americano sbarcato nell’isola nel 1943”. Anche dopo la guerra la CIA continuò a mantenere rapporti segreti con la mafia siciliana. “In nome della lotta al comunismo in Italia e in Sicilia gli americani abbandonarono di fatto l’isola al governo della criminalità che tuttora persiste”. Una vera e propria delega di governo e controllo, una sorta di norma transitoria della nostra Carta Costituzionale, componente fondamentale della costituzione materiale del fondo oscuro e occulto della Repubblica.
La Chiesa in quella fase era letteralmente terrorizzata dalla minaccia bolscevica. Da fonte documentale si apprende che Pio XII nella scelta tra il bolscevismo e il nazifascismo avrebbe senza esitazioni preferito la vittoria del secondo. Auspicava infatti un accordo di pace tra Alleati e la Germania nazista in modo da consentire a Hitler di concentrare gli sforzi militari sul fronte russo.
È interessante rilevare come la delega venisse “estesa” agli esponenti della destra neofascista, a completamento di un fronte unico contro il comunismo italiano, divenuto il nuovo, vero, nemico che sostituiva il nazifascismo sconfitto dalla guerra. Si veniva così a legittimare il ruolo di mafia e destra eversiva, la cui azione sinergica avrebbe caratterizzato i decenni successivi. I servizi segreti italiani, funzionalmente dipendenti da quelli americani e inglesi, avrebbero garantito il raggiungimento degli obiettivi, il sostegno e la copertura della destra eversiva, il depistaggio delle indagini sulle stragi verso piste alternative, del tutto false.